Educazione all’affettività: il femminicidio tra cattiveria e bestialità

In seguito al femminicidio di Giulia Cecchettin e alle potenti dichiarazioni della sorella e del padre, sia la società civile che le istituzioni hanno reagito andando oltre il solito processo al carnefice. Se tuttavia la rabbia delle persone si è riversata il 25 novembre in uno dei cortei più partecipati dell’ultimo decennio, la risposta delle istituzioni nelle scuole si è fermato ad un ragionamento moralistico. Tale ragionamento, da destra a sinistra, dai credenti ai non credenti, sfocia in una comprensione della violenza di genere, in ambito sessuale e affettivo, come naturale propensione umana alla bestialità, da governare attraverso la sfera morale. È tuttavia proprio la “normalità” dei carnefici che spesso dimostra quanto l’istruzione non sia sufficiente a sradicare la cultura patriarcale alla base di queste violenze.

Anna Pompili e Luana Testa

Il femminicidio di Giulia Cecchettin, uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta, ha suscitato in tutto il Paese una reazione unanime, forse mai così sentita. Probabilmente la giovane età dei due ragazzi, l’apparente assenza di precedenti agiti aggressivi nella coppia, ma anche la reazione dei familiari di Giulia, particolarmente della sorella Elena, hanno risvegliato l’indignazione generale, non solo per l’ennesimo femminicidio, ma anche per una violenza più diffusa e forse meno nota: secondo l’ISTAT, infatti, gli  accessi in Pronto Soccorso e i ricoveri, soprattutto tra le minori e le donne di nazionalità straniera, aumentano in maniera sempre più inquietante.
Questa forte reazione della società civile, concretizzatasi nella grandiosa manifestazione del 25 novembre e nella partecipazione di persone comuni ai funerali di Giulia, ha portato, in primo luogo, al rafforzamento delle normative già introdotte in precedenza, particolarmente quelle previste dal Codice rosso del 2019, e all’approvazione del DDL S.754 del 26/11/2023 (Modifiche al Codice Penale, al Codice di Procedura Penale e disposizioni per il contrasto alla violenza domestica), che pone l’attenzione sulla violenza domestica intesa in senso lato, anche verso le vittime collaterali, quali i figli delle famiglie in cui è agita la violenza stessa.
La reazione ferma e dignitosa della sorella e del padre di Giulia, che ha polverizzato qualunque tentativo di “normalizzare” questo femminicidio come mero fatto di cronaca nera, ha anche costretto la politica ad allargare lo sguardo oltre l’aspetto repressivo, concentrandosi soprattutto su iniziative mirate alla prevenzione.
Giustamente, si è posta l’attenzione sull’aspetto culturale, in particolare sulle responsabilità di una persistente mentalità patriarcale nell’inquinamento delle relazioni tra i generi. Alle varie proposte di legge già esistenti, che puntano all’introduzione nelle scuole primarie e secondarie di programmi di educazione alla sessualità e all’affettività, si è aggiunta l’iniziativa del Governo, che guarda alla sola educazione affettiva. La proposta del Ministro Valditara, “Educare alle relazioni”, ha suscitato più di una critica, sia perché rivolta solo alle scuole secondarie di secondo grado, sia per il previsto coinvolgimento del FONAGS (Forum Nazionale delle associazioni dei genitori della scuola), all’interno del quale operano anche associazioni riconducibili all’ambito culturale dei cosiddetti pro-vita, con la malcelata intenzione di promuovere contenuti di stampo conservatore. Va in questa direzione la nomina, quale consulente, di Alessandro Amadori, docente a contratto di Psicologia presso l’Università Cattolica di Milano, secondo il quale la violenza di genere andrebbe derubricata sotto l’espressione della cattiveria, a sua volta emanazione del diavolo.
Al di là delle tanto anacronistiche quanto gravi affermazioni del Consulente del Ministro, la stessa richiesta pressoché unanime e bipartisan di introdurre programmi specifici di “educazione alla sessualità e all’affettività” ci suscita forti perplessità.
All’indomani del femminicidio di Giulia, tutti sottolineano l’importanza di legare alle informazioni di carattere sanitario e scientifico che riguardano il corpo, la cosiddetta “educazione all’affettività, che dovrebbe puntare ad affrontare gli aspetti relazionali e sociali, valorizzando le differenze di genere e il rispetto reciproco nella relazione affettiva.
A noi sembra, tuttavia, che con la locuzione “educazione alla sessualità e all’affettività si faccia chiaramente riferimento a quell’impostazione culturale che, considerando la sessualità umana naturalmente scissa tra la realtà biologica del corpo e la realtà psichica (mente, spirito, affetti, anima), vuole cercare di rappresentarle entrambe, legandole al concetto di educazione, con il rischio o l’intento di proporre, di fatto, contenuti moralistici.
L’idea prevalente è che la biologia del corpo avrebbe un funzionamento autonomo, meccanico, che mira animalescamente alla soddisfazione del piacere, e che l’affettività, che si dovrebbe acquisire con l’educazione, dovrebbe contrapporsi ad un desiderio sessuale di per sé violento, in quanto espressione di una naturale ed innata bestialità. Questa idea è trasversale, condivisa, dalla destra e dalla sinistra, da religiosi e da atei materialisti: per i primi questa violenza innata sarebbe il diavolo, per gli altri sarebbe una generica animalità. Per tutti, essa dovrebbe essere controllata da una coscienza morale, alla quale la scuola avrebbe il compito di educare. In questo senso, dunque, l’attività dell’educare sarebbe una sorta di ammaestramento, finalizzato all’acquisizione di regole di comportamento alle quali conformarsi.
I racconti di chi ha conosciuto i violenti mostrano invece una realtà che evidenzia drammaticamente l’inutilità di queste regole: “era assolutamente normale, una brava persona, gentile ed educata!”; oppure “mi ha picchiata, ma poi ha pianto, ha detto che mi ama, che è stato solo un momento di rabbia!”.
Indubbiamente, la scuola ha una fondamentale funzione educativa, ma noi crediamo che questo termine debba essere inteso nella sua accezione etimologica più pertinente di ex ducere, tirare fuori. In quest’ottica, essa dovrebbe permettere di esprimere e realizzare le potenzialità di ciascuna/o, non considerando mai studentesse e studenti come meri vasi vuoti da riempire. Guardando alla cosiddetta affettività, noi riteniamo che la funzione formativa della scuola consista nel far emergere una dimensione umana, che è già insita nelle potenzialità di bambine e bambini, ragazze e ragazzi. Fin dalla nascita, infatti, l’essere umano cerca il rapporto e si mette in relazione con l’altro/a da sé, spinto non solo dalla necessità di sopravvivenza del corpo, ma anche dall’esigenza di un contatto e della conoscenza dell’altro/a, che è, anche, conferma di sé, acquisizione di una certezza della propria identità. Se i primi rapporti del nuovo essere umano funzionano e rispondono adeguatamente a queste esigenze, lo sviluppo delle capacità sociali, relazionali e affettive andrà di pari passo con lo sviluppo del corpo e delle capacità intellettive, in un unicum inscindibile, che dopo la pubertà coinvolgerà anche la sfera della sessualità.
Intesa in questo senso, la funzione educativa della scuola si espliciterebbe naturalmente anche nel promuovere relazioni umane non violente, libere dagli stereotipi e dalle discriminazioni, dai pregiudizi e dai condizionamenti legati ai ruoli assegnati ai generi dalla cultura patriarcale.
La carenza o l’assenza di capacità affettive e sociali, l’assenza del senso degli altri rappresentano invece un difetto più o meno grande, acquisito nello sviluppo, che la scuola può riconoscere ed evidenziare (va in questo senso l’attività dei CIC, Centri di Informazione e Consulenza), ma a cui può sopperire solo in parte e solo quando essa sia in grado di funzionare al meglio delle sue possibilità.
Grosse carenze, intuibili in chi esercita violenza verso un altro essere umano, ci fanno invece entrare nel campo della psicopatologia, con tutte le sue variabili più o meno evidenti sul piano clinico, ed è impensabile chiedere alla scuola di rispondere ad essa con una competenza che non le è propria.
In questi casi, dobbiamo parlare di violenza nel suo concetto più profondo, che non può prescindere dal fatto che essa, prima che in termini fisici, si esprima in ambito psichico: esiste una violenza invisibile, che precede l’agito comportamentale e che ha già distrutto l’immagine umana dell’altra/o prima di colpirla/o fisicamente. La violenza del singolo è certamente espressione di una patologia individuale, che si sviluppa nei primi rapporti interumani, ma è anche effetto di una cultura patogena, che si assorbe innanzitutto all’interno del nucleo familiare e che propone idee distorte, cioè disumane, sugli esseri umani.
Parlare di malattia della mente oggi è un tabù, e sembra impossibile poter cogliere, prima della violenza manifesta, i segnali di qualcosa che non va (“era una persona normale, salutava sempre, era gentile...”).
Ma questa impossibilità è tale se ci si basa solo su ciò che la coscienza vede.
Parlare di malattia mentale non significa affatto deresponsabilizzare il malato, come afferma chi pensa che la dimensione patologica appartenga per natura all’essere umano, che il neonato sia un cannibale assassino e divoratore, e che un’animalità o una negatività presente fin dalla nascita possa diventare alla pubertà, se priva di controllo affettivo cosciente, una sessualità potenzialmente assassina.
Queste idee, che sottendono certi provvedimenti privi di una vera ricerca sull’essere umano, non fanno altro che esacerbare e rendere ancora più difficili i rapporti tra i sessi: in quest’ottica, il desiderio per l’altra/o renderebbe l’essere umano potenzialmente violento e in qualsiasi storia d’amore si dovrebbe sempre temere, soprattutto nei momenti di maggiore intimità in cui viene meno il controllo cosciente, di veder comparire il violentatore o l’assassino, dentro di sé o nell’altra/o.
È invece proprio questa idea di una scissione innata ad essere culturalmente patologica e patogena: la sua presenza, quando nasconde la malattia, fa parlare di amore chi poi è pronto a uccidere. Essa appartiene alla nostra cultura occidentale, affonda le sue radici nel logos greco e si rafforza con il pensiero religioso, che chiama cattiveria del diavolo la presunta animalità violenta, relegando nel mondo dei subumani tutti coloro che hanno un corpo diverso o un pensiero diverso, o una visione diversa del mondo.
Se c’è patologia, è indubbiamente necessario l’intervento di un/a professionista con competenze specifiche, che possa curare la psiche (e non il cervello!). Ma laddove non c’è patologia è altrettanto indubbiamente necessario un mutamento culturale radicale, che non può non coinvolgere tutti gli ambiti della società attuale.
Appare quindi chiaro che, in assenza di un vero confronto e di una profonda messa in discussione della cultura che ha dominato per millenni, si rischia di finire con il proporre progetti che sono totalmente immersi in quella stessa cultura che si vorrebbe combattere senza proporre di fatto nessun cambiamento.
Ma non basta. Pensare di introdurre nella scuola programmi di educazione alla sessualità e all’affettività significa anche, a nostro avviso, farvi entrare a pieno titolo chi, storicamente, si è sempre occupato degli aspetti esistenziali umani interpretandoli attraverso una cultura confessionale. Mentre, nel frattempo, la società degli uomini che si sviluppava sulla razionalità di rapporti economici e politici, li ignorava.

CREDITI FOTO: ANSA-ZUMAPRESS / Marcello Valeri



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