Effetti perversi della riduzione dei parlamentari: come sono stati ridisegnati i collegi uninominali

Equilibri elettorali stabiliti da tempo immemorabile sono venuti meno. Si è allargato il divario tra elettori ‘di città’ ed elettori di periferia o ‘campagna’.

Michele Marchesiello

Gerrymandering’ è il termine inglese – da noi poco familiare –, che indica ogni metodo fraudolento per disegnare i confini dei collegi elettorali in un sistema maggioritario. ‘Inventore’ di questo metodo è stato il politico americano Elbridge Gerry, che da governatore del Massachusetts disegnò un collegio elettorale in modo da includervi gruppi di elettori a lui favorevoli ed escluderne gruppi a lui contrari. La forma del nuovo collegio era così tortuosa e irregolare dal farla somigliare a una salamandra. Da qui il termine ‘Gerry(sala) mandering’.

Questa pratica, largamente utilizzata negli Stati Uniti, ha dato luogo in quel Paese a importanti controversie a livello politico-costituzionale, e può ritenersi abbastanza specifica di quel sistema, caratterizzato da una estrema polarizzazione dei partiti politici e al fatto che il compito di disegnare quella così speciale geografia è in genere demandata direttamente al legislatore.

In Italia esiste una situazione diversa da entrambi i punti di vista: da un lato la frammentazione dei partiti politici, e dall’altro il fatto di affidare il disegno dei collegi a una commissione di esperti imparziali, a capo della quale è posto il presidente dell’ISTAT. Ciò non toglie che – nel nostro Paese – l’importanza decisiva di quell’operazione, al fine dell’assegnazione del seggio, sia stata nel tempo abbastanza trascurata, per ragioni socio-culturali ma soprattutto per l’interesse del sistema dei partiti a mantenere, sotto questo aspetto, un sostanziale ‘status quo’.

Il taglio al numero dei parlamentari e la crisi dei partiti tradizionali, ha cambiato le carte in tavola e reso necessario un allargamento dei collegi e una loro nuova configurazione. Collegi ritenuti tradizionalmente ‘sicuri’ non lo sono più. Equilibri elettorali stabiliti da tempo immemorabile sono venuti meno. Si è allargato il divario tra elettori ‘di città’ ed elettori di periferia o ‘campagna’. La creazione delle città metropolitane ha aggiunto un elemento nuovo e incalcolabile.

Esemplare è il ‘caso Modena’, riportato dalla stampa.

Il collegio di Modena – sino al 2018 di sicura fede di centro-sinistra – era composto dal capoluogo e altri tre comuni. Oggi, invece, è composto da Modena e da un’altra trentina di comuni, alcuni situati in aree rurali dell’Appennino, da tempo riserve del centro- destra.

Questo cambiamento andava affrontato sotto due aspetti: quello strettamente politico riguardante la scelta del candidato, e quello sociologico – più complicato ma fondamentale – riguardante la necessità di imparare a conoscere una nuova, composita, multiforme comunità di elettori.

Incurante delle due esigenze, a Modena, ma si sospetta anche altrove, il PD è andato incontro alla sconfitta del suo candidato ‘paracadutato’ in un collegio ritenuto sicuro e superato da una candidata di FdI, sconosciuta a livello nazionale ma radicata nel territorio.

Più in generale – e questo vale per l’Italia come per gli Stati Uniti (Trump insegna ) – i partiti cosiddetti democratici non sembrano capaci di tenere nel giusto conto la spaccatura in atto tra la cultura e gli orientamenti politici dei centri urbani medio-grandi (le ‘ZTL’) , e quelli delle realtà periferiche o di campagna, dove prevalgono – in sintonia con le tendenze populiste – orientamenti di destra.

Un discorso analogo deve farsi, da noi, per le città ‘metropolitane’, crogiuolo spesso non riuscito di condizioni di vita, culture, rabbie e insofferenze diverse e tra loro contrastanti, che aspettano di essere capite e – per quanto possibile – conciliate tra loro.

Cosa che i partiti cosiddetti di sinistra non sembrano al momento in grado di fare.



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