“Cara Paola Egonu, non rivendichiamo la nostra ‘diversità’, ma lottiamo per l’uguaglianza”

Le parole di Paola Egonu dal palco dell'Ariston risuonano in molti italiani afrodiscendenti, ma diciamo la verità: Sanremo continua a non essere il luogo adatto per parlare di razzismo. E la "diversità" che ci attribuiamo come italiani di origini straniere è solo il risultato delle discriminazioni che abbiamo subito.

Michela Fantozzi

Paola Egonu ha vinto una marea di medaglie. È tra le pallavoliste più forti del mondo e ha fatto fare un figurone alla nostra nazionale di pallavolo. Solo che non è stata chiamata sul palco dell’Ariston in qualità di campionessa per parlare dei suoi risultati, ma di campionessa nera per rappresentare qualcosa (l’antirazzismo? La “diversità”? Una gioventù tenuta ai margini del mondo del lavoro e della società tutta?). Un po’ come successo con Lorena Cesarini l’anno scorso, Egonu è stata invitata a fare un discorso possibilmente non disturbante sul razzismo.

Ha affrontato la sfida dell’Ariston con coraggio, soprattutto se consideriamo la sua giovane età, ma mancando di naturalezza, rivestendo un ruolo che non le appartiene. E questa scenetta che coinvolge ragazze giovanissime che hanno fatto in realtà qualcosa di buono o più che buono nella vita, ma sono chiamate a esibirsi in un mestiere diverso dal loro sembra piacere alla Rai. Avrei preferito che Paola si fosse rifiutata di parlare di razzismo in quel luogo e soprattutto in quei termini, così come avrei voluto che si rifiutasse Cesarini l’anno scorso. Paola Egonu ha spesso detto cose che condivido fino in fondo: per esempio che gli italiani sono razzisti. Ma non credo che noi giovani (e meno giovani) afrodiscendenti dovremmo prestare il fianco a siparietti del genere.

Sono tre gli aspetti del discorso di Egonu che mi hanno fatto storcere il naso. La prima, la più fastidiosa, è il paragone fra il pregiudizio razzista e i bicchieri d’acqua: “Io sono quella che quando ancora mi fanno una domanda sul razzismo mi viene da rispondere così”, ha detto Egonu, “Prendete dei bicchieri di vari colori e metteteci dentro l’acqua. Vedrete che la maggior parte delle persone sceglierà il bicchiere trasparente solo perché il suo colore ha un contenuto più limpido. Eppure, se proverete a bere da uno dei bicchieri colorati scoprirete che l’acqua ha sempre lo stesso gusto, fresco e vita. Perché siamo tutti uguali oltre le apparenze”. È una storiella un po’ ingenua e sembra voler suscitare benevolenza all’ascoltatore, consolarlo. Sembra un tentativo di non sembrare minacciosa, evitando di puntare il dito sugli atteggiamenti e le pratiche razziste, ma allineandosi a una narrazione banale sul razzismo e buttarla su un generico “volemose bene che siamo tutti sulla stessa barca”. Anche se non è vero.

Il secondo punto riguarda la necessità di Paola Egonu di giustificare la sua italianità perché ha espresso giudizi critici sul suo Paese: “Sono stata accusata di vittimismo, di drammatizzare e di non avere rispetto per il mio Paese e questo solo per aver raccontato brutte esperienze che ho vissuto per aver mostrato le mie debolezze e le mie paure”. A questo punto Paola si alza e dice “Amo l’Italia, vesto con orgoglio la maglia azzurra che per me è la più bella del mondo. Ho un profondo senso di responsabilità nei confronti di questo Paese in cui ripongo tutte le mie speranze di domani”. Forse è bene chiarire un punto: un italiano è liberissimo di esprime giudizi sul suo Paese, anche se è nero. Non bisogna dare spazio all’accusa di non essere grati all’Italia, perché così facendo accettiamo la narrazione che siamo un corpo estraneo a quello nazionale. Paola – come qualunque altro italiano, qualunque colore abbia la sua pelle – ha tutto il diritto di dire che gli italiani sono razzisti, di criticare l’Italia e di essere arrabbiata senza declamare amore eterno al Paese dal palco più importante d’Italia.

Infine, l’aspetto che ho apprezzato meno del suo discorso è la prospettiva individualistica da cui era mosso. “Da piccola sono cresciuta con i perché. ‘Perché sono alta?’ Perché mio nonno vive in Nigeria? Perché mi chiedono se sono italiana?’ Poi sono diventata grande e i perché sono continuati. ‘Perché sono diversa? Perché vivo questa cosa come se fosse una colpa? Perché ogni volta mi sono punita dando una visione sbagliata di me stessa?’ Con il tempo ho capito che questa mia diversità è la mia unicità e che alla domanda ‘perché io sono io?’ c’è già la risposta: ‘perché io sono io’”.

Ma Paola no, tu non sei diversa (a parte le medaglie e i risultati sportivi, che ti rendono speciale), non lo sei mai stata e non è bello essere trattata come se lo fossi. Ma capisco benissimo come ti senti: esattamente come ci sentiamo tutti noi veneti e afrodiscendenti cresciuti bazzicando intorno a Cittadella. Anche io credevo di essere “diversa” per una qualche ragione, forse la mia sensibilità, forse per i miei interessi che sembravano riguardare solo me, forse perché non riuscivo a ridere allo stesso modo delle battute degli amici, forse perché mi offendevo, forse perché prendevo sul serio molti luoghi comuni. E siamo tutti arrivati a tradire noi stessi, per piacere agli altri.

La diversità non è mai stata in noi, ma negli occhi altrui. La nostra generazione si sta arrovellando nel tentativo di venire a capo di questi sentimenti. Ci sentiamo più rappresentati da termini come “diversità”, la pensiamo parte della nostra identità, invece che essere arrabbiati per la mancanza di uguaglianza. Ma la scusa della diversità non spiega i meccanismi delle discriminazioni, piuttosto li occulta: tu non sei diversa per la tua identità, al contrario è il fatto che ti venga attribuita una identità a creare la tua diversità. E quest’ultima ha una funzione ben precisa, serve a riconoscere le persone per poterle inserire all’interno di una gerarchia e ordinare la società secondo una scala di discriminazioni, divisioni, odio, subordinazione, sfruttamento che abbia un qualche tipo di giustificazione morale o culturale. Perciò, non confondiamo le cause con gli esiti.

Come ha scritto Joan W. Scott(1), la diversità è conseguenza di enunciazioni, postulati di differenza. E allora lasciamo la diversità ai campus statunitensi, continuiamo a lottare per l’uguaglianza denunciando il razzismo nostrano e accettando che il problema non è dentro di noi, ma attorno a noi.

 

(1)“Multiculturalism and the Politics of Identity”, Joan W. Scott, Vol. 61, The Identity in Question (Summer, 1992), pp. 12-19 (8 pages), The MIT Press.

 

Foto screen Youtube | Rai



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