Elezioni anticipate, la strana corsa a chi è più progressista

Il primo weekend pre-elettorale è stato caratterizzato da Conte e Letta a contendersi la qualifica di “progressista”. Da qui la domanda: che significa, a questo punto, progressista?

Mauro Barberis

Dopo il primo week end pre-elettorale, passato da Conte e Letta a contendersi la qualifica di “progressista” (Conte: è più progressista il M5S; Letta: no, è più progressista il Pd), è opportuno chiedersi due cose, anche per risollevare l’umore di un elettorato di centro-sinistra giustamente inquieto. Primo, cosa caspita vorrà mai dire, “progressista”, per scatenare una tale corsa all’accaparramento? Secondo, perché mai questo termine pretenzioso fa periodicamente capolino nel nostro dibattito pubblico, con esiti non sempre rassicuranti?

Il Progresso è un vecchio mito sette-ottocentesco, sbeffeggiato già da Leopardi (le «magnifiche sorti e progressive», La ginestra, 1836) e definitivamente affossato dai cataclismi del Novecento, nonché dalle emergenze di questi Duemila. Per semplificare, è l’idea che i nostri figli staranno meglio di noi: roba che i nostri figli, ormai, sono i primi a non credere. E dategli torto, in un pianeta sempre più caldo e affollato, dove per sopravvivere dovranno sgomitare con i nipoti di chi i figli li fa ancora. Ma allora, se non crediamo più nel Progresso, perché dovremmo credere nel progressismo?

A voler essere davvero cattivi (sin qui abbiamo solo scherzato), si potrebbe dire che, ogni volta che si appannano, oh se si appannano, i valori storici della sinistra – uguaglianza, redistribuzione, Progresso – si cercano surrogati terminologici della parola “sinistra”. Perché proprio “progressista”? Perché “riformista” fa troppo renziano; “repubblicano” (altro surrogato assai gettonato), troppo calendiano (da Carlo Calenda, auto-elettosi a pungolatore ufficiale del Pd); “liberal”, di cui “progressista” era originariamente la traduzione italiana, troppo “tu-vo’-fa’-l’americano”. E allora, continuiamo così: facciamoci del male.

Tutte queste ragioni culturali, stucchevoli benché rispettabili, coprono poi una ragione più banale ma tremendamente più importante. La nostra legge elettorale – il Rosatellum, sul quale da giorni, al Nazareno, stanno facendo tempesta-di-cervelli (brain storming), per così dire – si compone di due parti: una proporzionale (per due terzi degli eletti) e una maggioritaria (per un terzo soltanto). Ora, entrambe le parti, in modi diversi, premiano le coalizioni larghe.

La parte proporzionale le premia perché, entro ogni coalizione, i partiti maggiori si dividono i seggi dei partitini che non superano lo sbarramento del 3%. E, sin qui, il centro-sinistra se la giocherebbe con la destra, essendo l’elettorato italiano diviso più o meno a metà. A fare la differenza, però, è la parte maggioritaria, dove la coalizione di destra, nei sondaggi, è in chiaro vantaggio. Di qui l’esigenza, per il centro-sinistra, di etichette abbastanza generiche, come “progressista”, per tenere dentro tutti, da Fratoianni a Brunetta.

Qualcuno dirà che tutto questo è fumo negli occhi, e che poi, se per caso si vince, non si governa con le formule. Certo: ma allora che dire dei mille euro di pensione minima che Berlusconi rispolvera da vent’anni, con sprezzo del ridicolo? Anche le formule sono importanti, invece. “Progressista”, in particolare, equivale a dire all’elettore di sinistra, notoriamente più schifiltoso di quello di destra: “vota chi vuoi ma vota, al resto penserà la legge elettorale”. Sperando poi che “progressista” non porti jella, come in passato. Perché, non ci crederete, ma per vincere le elezioni ci vuole pure fortuna: anche se con i miei figli non userei esattamente questa parola.



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