Elezioni rinviate e ancora instabilità nel caos libico

Il 24 dicembre avrebbero dovuto tenersi le presidenziali in Libia ma ancora non c’è la lista definitiva dei candidati e la rivalità tra le diverse fazioni continua a essere predominante.

Valerio Nicolosi

Le elezioni libiche di fatto sono posticipate, ma qualcuno deve assumersi la responsabilità di dirlo e in questo momento c’è un gioco a chi resta con il cenerino in mano.
Il capo del governo Dbeibah non lo fa, il capo del consiglio presidenziale Menfi nemmeno e a quanto pare spetterà il 24 dicembre stesso, giorno designato per le elezioni, ad Aguila Saleh, il presidente della Camera dei Rappresentanti.

Di quanto possa essere il rinvio non lo sappiamo: alcune voci parlano di fine gennaio mentre secondo al-Arabiya potrebbe essere di 3 o 6 mesi. In tutto questo Turchia, Russia, Egitto, USA, Arabia Saudita e Francia restano a guardare, cercando di trovare ognuno il suo peso in questa partita legata alla centralità della Libia nello scacchiere geopolitico del Mediterraneo e alle sue riserve petrolifere.

A oggi non c’è la lista definitiva dei candidati alla presidenza, che dovrebbe aggirarsi attorno ai 90, e non c’è l’elenco definitivo dei candidati delle liste alle elezioni parlamentari. Uno stallo che viene da lontano e nonostante i proclami di Francia, Italia e altri paesi interessati alla stabilità libica, la grande frammentazione tra gruppi politici, personalismi e gruppi armati è ancora molto forte e difficilmente pacificabile.

Che ci fosse un “liberi tutti” lo si era capito definitivamente la sera del 15 dicembre scorso, quando gli uomini della milizia al-Samoud hanno accerchiato i palazzi delle istituzioni tripoline. “Non ci saranno elezioni presidenziali fin quando ci saranno i nostri uomini. Non ci accontentiamo di elezioni in questo modo” ha dichiarato il giorno seguente Salah Badi, il comandante della milizia, in una prova di forza contro il Menfi che nelle ore precedenti aveva sostituito il comandante dell’esercito libico Abdul Basit Marwan con Abdel Qader Mansour, quest’ultimo molto vicino alla Turchia e a Erdogan. Ma il riferimento di Badi alle elezioni è stato molto chiaro e di fatto metteva una pietra tombale sopra alla data del 24 dicembre come possibile giorno di svolta tanto atteso in Libia e dalle diplomazie internazionali.

I candidati che possono concorrere realmente alla presidenza sono pochi, realisticamente cinque: l’attuale capo del governo di transizione Dbeibah, il generale Haftar che controlla la Cirenaica, l’ex ministro degli Interni di Tripoli Bashagha, l’uomo d’affari di Misurata Maitig e infine l’outsider che nessuno dei precedenti si augurava di incontrare: Saif Gheddafi, il figlio del dittatore destituito 10 anni fa. Lo scorso novembre Gheddafi si è presentato a Sebha, nella regione del Fezzan, dove ha presentato i documenti per la sua candidatura, diventando così la grande incognita di queste presidenziali resa già complicate anche da una complessa e confusa legge elettorale approvata dal parlamento di Tobruk e per la quale Ddeibah e Gheddafi non potrebbero candidarsi. Il primo perché dovrebbe dimettersi da capo del governo di transizione almeno 3 mesi prima delle elezioni, mentre sul secondo pende ancora una indagine della Corte Penale dell’Aja per dei crimini commessi nel 2011, teoricamente incompatibile con la candidatura.
Allo stato attuale però la commissione elettorale non li ha esclusi ma, d’altronde, non ha nemmeno comunicato la lista definitiva.

Un grande caos quindi, dove l’Italia continua a investire soldi ma nel quale non riesce a influenzare le scelte politiche. Di Maio ha dichiarato alla riunione con gli ambasciatori italiani che la Libia “non è solo un paese con cui intratteniamo relazioni economiche essenziali, ma è anche uno Stato che deve essere stabile, per scongiurare la minaccia del terrorismo e affrontare in modo costruttivo il tema dell’immigrazione”. E recentemente l’ambasciata italiana ha ripreso in mano i fascicoli per gli investimenti previsti negli accordi del 2008, quelli tra Muhammar Gheddafi e Silvio Berlusconi, rinnovando l’impegno a costruire un primo tratto dell’autostrada costiera, nel tratto tEmssad – al Marj, dopo che nei mesi scorsi anche Draghi nel corso degli incontri con Ddeibah a Roma e a Tripoli aveva spinto per far ripartire gli investimenti del patto del Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione del 2008 perché, secondo Draghi, c’erano i presupporti di sicurezza per ricominciare a investire in Libia.

Un partner fondamentale per esternalizzare la frontiera e non perdere consenso in nell’elettorato, tanto che lo scorso luglio sono stati solo 30 i deputati che hanno votato contro il rifinanziamento della cosiddetta Guardia Costiera libica e la scorsa settimana la nave militare San Giorgio ha attraccato al porto di Tripoli per donare ai guardacosta una strumentazione di ultimissima generazione per effettuare i respingimenti dei migranti che partono dalle coste tripoline. Solo quest’anno sono stati più di 30.000 i respingimenti verso la Libia, un numero mai raggiunto prima che evidenzia che in Libia almeno nell’esternalizzazione della frontiera europea un po’ di stabilità ed efficienza la si è trovata.

(credit foto Hamza Turkia/Xinhua)



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