Elezioni in Abruzzo, ai progressisti non bastano “il buon candidato” né il “campo largo”

Non c’è stato, infine, alcun riacciuffamento. La destra di Marco Marsilio e Giorgia Meloni ottiene una solidissima vittoria, che sa non solo di conferma, ma di plebiscito in alcune zone d’Abruzzo. Certo un plebiscito circoscritto alla percentuale di coloro che hanno votato, più bassa che nel 2019. Ma con un’affermazione inequivocabile pressoché ovunque tranne che nel teramano, dove Luciano D’Amico, ex rettore dell’Università e candidato del polo progressista, ha superato l’avversario. E in alcune zone, come L’Aquila e provincia, le preferenze a Marsilio hanno superato il 60%.

Federica D'Alessio

In Abruzzo non si è avuto alcun “effetto Sardegna”, né è servita a nulla la presenza di Alessandra Todde a concludere la campagna elettorale. L’esito delle elezioni locali è stato deciso da dinamiche legate ai territori, e lo dimostrano alcuni dati in particolare: i candidati delle liste, nel caso del centro-destra, hanno preso solo diecimila voti in meno rispetto alle preferenze al candidato Presidente; mentre nel caso di D’Amico, sono stati ben ventimila i voti offerti al candidato Presidente che non sono andati alle liste. “I loro candidati sono più forti dei nostri”, aveva dichiarato il responsabile M5s per l’Abruzzo Gianluca Castaldi a MicroMega, alla vigilia del voto. “Se vinceranno, sarà perché hanno liste costruite meglio”, cioè un elenco di candidati considerati più vicini alla popolazione, al di là dei tanti significati che si possono dare al termine “vicinanza”.

L’Abruzzo d’altro canto, non è un mistero per nessuno, ha una lunghissima tradizione di voto clientelare: la tradizione democristiana à la Remo Gaspari delle prebende a pioggia non è mai stata superata. Una tradizione peraltro perfettamente bipartisan, così come bipartisan è stata la transmigrazione della politica democristiana della Prima repubblica nei partiti della Seconda. In Abruzzo, difatti, il centro-sinistra non si presentava certo alle elezioni da underdog o da outsider: personaggi come l’oggi deputato Luciano D’Alfonso, ex sindaco di Pescara ed ex Presidente della regione, incarnano un potere che nel corso degli anni ha avuto accesso a ogni nodo cruciale della vita del territorio, dalla Sanità ai trasporti e alle infrastrutture, e che dispone di un’influenza primaria anche all’interno del partito.

E la débacle del “campo largo” in Abruzzo è stata, innanzitutto, una débacle dei partiti. Con Fratelli d’Italia che supera il Partito democratico di oltre 22mila preferenze, il Movimento 5 Stelle che perde una fetta consistente del suo elettorato e si attesta a un inquietante 7%, superato sia dalla Lega, sia da Forza Italia, sia dalla Lista civica per D’Amico Presidente, il risultato suggerisce che il lavoro da fare nel centro-sinistra per vincere le elezioni è innanzitutto uno: quello sui territori, ovvero un coinvolgimento maggiore della popolazione stessa nel lavoro politico, oltre che un ascolto più attento delle esigenze della gente comune.

La maggior parte degli elettori ha oggi, infatti, una visione dei partiti locali molto più legata al loro intreccio di rapporti con i diversi vertici padronali, imprenditoriali e di rapporti di potere, che non legata alle attività svolte da questi stessi partiti sul campo reale, a fianco dei cittadini e innanzitutto con i cittadini, nelle lotte o nei conflitti. A questo si lega anche la grande difficoltà di rinnovamento dei volti e dei nomi: molti dei candidati del campo largo in queste elezioni erano volti noti o notissimi della politica locale, persone che occupano da anni, e in modo stabile, incarichi e posizioni, non di rado cambiando casacca e passando da una sigla all’altra (è stato il caso clamoroso di Sara Marcozzi, candidata per due volte come Presidente della Regione Abruzzo per il Movimento 5 Stelle, passata l’anno scorso a Forza Italia). “La grande difficoltà di rinnovamento del Partito democratico in Abruzzo segue innanzitutto due linee”, spiega a MicroMega Leila Kechoud, vicesegretaria del Pd abruzzese: “quella di genere, e quella di classe. Il lavoro paziente di rinnovamento e valorizzazione delle donne condotto a livello nazionale da Elly Schlein non ha dato frutto a livello locale”, spiega. “Qui abbiamo le donne ancora relegate alla sola posizione di vice, e gli uomini capeggiano le liste”. Kechoud, candidata a Pescara, terza nelle preferenze con quasi 3000 voti personali,  non entrerà in consiglio regionale. Candidate di altri partiti che hanno preso meno voti di lei, invece, come Erika Alessandrini del Movimento 5 Stelle, siederanno in Consiglio. “Quando sei una donna che come me non è legata ad alcun ticket e ti fai la campagna elettorale totalmente con le tue uniche forze, portando in macchina con te ogni giorno i manifesti, la colla e il pennello per affiggerli, è evidente che puoi trarre una sola conclusione: sei sola, anche se sei in un partito. Non ti stanno aiutando a portare a casa il tuo risultato”, commenta Kechoud, che nella vita fa l’insegnante di lingue. “Oltre a una discriminazione di genere – milito in un partito che a livello locale non sta facendo nulla per favorire le leadership femminili – c’è anche una questione di classe: i candidati al Consiglio regionale si sono dovuti caricare sulle proprie spalle una donazione liberale di 2000 euro, per partecipare a queste elezioni. Il partito, in queste condizioni, impedisce un ricambio di forze che possano portare una ventata di cambiamento in grado di essere avvertita come tale anche dagli elettori”.

Non è “il” candidato, a fare la differenza, ma i candidati. Non è il “campo largo”, ma come si lavora nei campi stretti e difficoltosi della politica del territorio, costruendo la partecipazione della cittadinanza, la vita politica vissuta e il coinvolgimento. “Il tempo della politica incentrata sui leader è finito”, avevamo scritto tempo fa su MicroMega: sia chi va a votare, sia chi non ci va, ha bisogno di vedere nella politica l’impegno a occuparsi delle proprie istanze di persona comune. Come sarebbero andate le elezioni, per esempio, se i partiti avessero fatto attività più coerente di informazione e denuncia sui pericoli dell’autonomia differenziata imminente? Non lo sapremo mai. Ma sappiamo che, come aveva raccontato a MicroMega Erika Alessandrini del Movimento 5 Stelle, “la consapevolezza di cosa sia l’autonomia differenziata è poca, è un tema che i cittadini non conoscono bene; quando capiscono di cosa si tratta e quali rischi comporta, si spaventano”. Ma se la politica appare scollata dalle conseguenze che essa stessa produce nella vita concreta delle persone; se le istanze si riducono a una serie di concessioni di fondi a pioggia, o a una serie di decisioni che mettono i territori e chi li abita in diretta relazione di sudditanza con i poteri economici, politici e di altra natura; allora ecco che la democrazia stessa e il suo tessuto locale si disintegrano.

L’Abruzzo è una regione che si va spopolando a velocità doppia rispetto al resto d’Italia; un territorio in cui i giovani concepiscono l’emigrazione come un destino, scritto nella loro lunga storia, al quale si preparano già da molto piccoli. L’assenza della politica si vede soprattutto nella rassegnazione con la quale una fetta importante della popolazione abruzzese ha rinunciato alla possibilità di autogovernarsi con dignità e convinzione. E se pur permangono alcune sacche di valorosa resistenza allo status quo, come le battaglie dei movimenti ambientalisti, la tendenza generale preme in direzione di una resa alla condizione di sudditanza e dipendenza dal potere. Una tendenza che nella Seconda repubblica fu inaugurata dalla risposta berlusconiana al terremoto dell’aprile 2009 (del quale ricorre, ad aprile, il quindicesimo anniversario). Fu in quella circostanza che Berlusconi e la politica nazionale tutta impressero negli abruzzesi l’idea che per risollevarsi da una tragedia si dovesse attendere, passivamente, irregimentati nei campi-tenda, l’elargizione di una ricostruzione tutta calata dall’alto, tutta disposta dalla generosità del Padre-padrone-Presidente. A distanza di tre lustri, quel modo di pensarsi sembra che abbia fatto scuola, e l’impressione è che tanti abruzzesi si siano risolti ad affidarsi a una politica di potere che elargisce, piuttosto che alla propria capacità di trovare soluzioni ai problemi coinvolgendo nella vita politica le migliori energie della società tutta intera.

CREDITI FOTO: ANSA/CLAUDIO LATTANZIO



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