Elezioni locali in Turchia: batosta per Erdoğan, vittoria della democrazia

L’ultima tornata elettorale in Turchia, quella delle amministrative locali, ha visto l’Akp di Erdoğan diventare secondo partito su scala nazionale, superato dal Chp, primo partito di opposizione. Oltre alla sconfitta generale e nei luoghi più progressisti dove da tempo il consenso per Erdoğan si sta erodendo, l’Akp ha perso in fortini elettorali ultra conservatori che si pensavano intoccabili. La democrazia turca si dimostra viva, complessa e progressivamente emancipata dai passati dieci anni in cui il voto veniva vissuto come un posizionamento di campo a favore o contro il presidente.

Francesco Brusa

A poco meno di un anno dalle elezioni generali che hanno confermato per la quinta volta in oltre vent’anni Erdoğan e il suo partito alla guida del Paese, in Turchia la situazione politica sembra essersi quasi ribaltata. Il voto del 31 marzo scorso, in cui i cittadini della repubblica anatolica erano chiamati a scegliere i propri rappresentanti locali, ha dato infatti risultati inattesi: il partito di opposizione Chp si è aggiudicato la maggioranza delle preferenze totali con il 37,8% (l’ultima volta che il partito di Atatürk ottenne più voti di tutte le altre forze politiche fu nel 1977, sotto la guida di Bülent Ecevit) mentre l’Akp di Erdoğan ha riscosso il 35,5% dei consensi. Inoltre, i candidati repubblicani hanno ottenuto una vittoria nelle prime cinque città turche più popolose: il carismatico Ekrem İmamoğlu ha mantenuto il controllo di Istanbul (51,14%) contro l’ex-ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Murat Kurum (39,59%), nella capitale Ankara si è verificata una riconferma netta del sindaco uscente Mansur Yavaş (60,44%) che ha sconfitto Turgut Altınok (31,68%), Cemil Tugay (48,97%) ha proseguito il dominio del Chp nella storica roccaforte di Izmir contro Hamza Dağ, e lo stesso è accaduto nelle metropoli occidentali di Bursa (Mustafa Bozbey col 47,62%) e di Antalya (Muhittin Böcek col 48,71%).
A impressionare ulteriormente, una flessione dei voti a favore dell’Akp in alcune delle zone in cui il suo potere è sempre sembrato incontestabile: quartieri fortemente conservatori quali Fatih e Üsküdar a Istanbul, così come ad Adıyaman nelle zone del terremoto (qui alle elezioni dell’anno scorso l’Akp prese il 55% e adesso è sceso al 28%, dopo avervi governato dal 2004) oppure nel centro turistico di Balıkesir (dove il Chp non aveva mai vinto a un’elezione locale da quanto la cittadina è diventata capoluogo di provincia nel 1950). Inoltre, nonostante ci siano stati eclatanti tentativi di manipolazione elettorale (numerose testimonianze di soldati e ufficiali di polizia trasferiti in alcune stazioni di voto per alzare la percentuale dell’Akp), il partito filocurdo Dem (ex-Hdp) è riuscito ad aggiudicarsi dieci province nelle regioni sud-orientali del Paese (due in più delle ultime elezioni locali) e a ottenere una buona percentuale totale (5,70%, che va considerata tenendo conto che buona parte dell’elettorato filocurdo a ovest sostiene per ragioni strategiche il Chp). Non solo: nella città di Van il tentativo di rimozione del sindaco legittimamente eletto Abdullah Zeydan in vista della sua sostituzione con un funzionario governativo (pratica antidemocratica che l’Akp mette in campo da anni) ha portato prima a grosse proteste della popolazione e poi a una decisione da parte della Commissione elettorale suprema di rispettare la volontà delle urne. Un segno, forse, che anche gli apparati statali stiano parzialmente iniziando a smarcarsi dall’autoritarismo di Erdoğan e dei suoi accoliti.
Il declino del consenso per l’Akp non si è automaticamente tramutato in una crescita del suo alleato di estrema destra nazionalista Mhp: anzi la forza politica dei “lupi grigi” è scesa a un poco significativo 4,99% dopo l’ottimo (e preoccupante) risultato delle elezioni parlamentari dell’anno scorso (10,07%). Tuttavia, è probabile che una fetta dell’elettorato più conservatore e islamista si sia riversato nell’Yrp (diventato col 6,19% il terzo partito del Paese), soggetto politico relativamente recente fondato dal figlio dell’ex-primo ministro Necmettin Erbakan (figura importante negli inizia di carriera di Erdoğan) che esprime molte delle posizioni più retrive dell’Akp criticandolo però sul piano economico e anche rispetto alla sua ambiguità rispetto al conflitto israelo-palestinese (la retorica governativa è tradizionalmente filopalestinese, ma la Turchia intrattiene numerosi rapporti di collaborazione commerciale con Tel Aviv che solo nei giorni scorsi pare essere stata limitata o interrotta tramite una misura temporanea). Da qualunque lato la si guardi, dunque, si tratta di una sconfitta per Erdoğan, che ha infatti riconosciuto l’esito negativo del voto: “Indipendentemente dal risultato, il vincitore di questa elezione è la democrazia. Non abbiamo sfortunatamente ottenuto il risultato che volevamo ma ricostruiremo la fiducia nei luoghi in cui il nostro Paese ha scelto altri”, ha dichiarato l’attuale presidente. Dalle parti dell’opposizione, invece, l’entusiasmo è palpabile. Così il riconfermato sindaco di Istanbul İmamoğlu (da molti indicato come il futuro leader del Chp): “Da oggi la Turchia è una Turchia diversa, avete aperto la porta all’arrivo della democrazia, dell’uguaglianza e della libertà”, ha affermato arringando la folla.
Sicuramente, al di là della mossa retorica, nella sua ammissione di sconfitta Erdoğan dice una cosa vera: la democrazia turca si è mostrata anche in questa occasione vivace e tutt’altro che in preda a disaffezione o disinteresse. Non tanto per i numeri dell’affluenza (alti, ma sotto la media: 78,53%) quanto perché resiste la volontà da parte della popolazione di esprimere anche in maniera netta il proprio punto di vista, senza rinunciare a diversità e appartenenze – diversità e appartenenze che, al contrario, proprio nell’ultimo decennio a guida Akp sono state spesso oggetto di repressione, contenimento e negazione. In particolare, forse, si riconferma la complessità di un contesto socio-culturale e politico che è difficile quando non impossibile indirizzare e far convergere dentro una sola linea di pensiero e un solo, benché malleabile, modello di governo. Tanti sono i conflitti irrisolti, tante le linee di demarcazione che dividono i diversi territori e, di conseguenza, le esigenze maggiormente sentite dalle rispettive popolazioni le cui richieste di rappresentanza più o meno identitaria si associano talvolta a visioni conservatrici e altre volte a slanci progressisti, intersecandosi ulteriormente con approcci che possono essere religiosi o secolaristi. Anzi, se messe in prospettiva storica, queste elezioni potrebbero segnare fra le altre cose il definitivo riaffiorare di una complessità che in periodi di maggiori crisi e tensioni (come gli anni successivi al tentativo di golpe del 2016) si era relativamente irrigidita attorno all’aut-aut incarnato dal crescente autoritarismo di Erdoğan, per cui ogni appuntamento elettorale veniva giocoforza percepito come un plebiscito nei confronti di quest’ultimo.
Sebbene la guerra a Gaza e la situazione non certo tranquilla nelle vicine aree mediorientali facciano sentire il loro peso, una delle questione più sentite è quella delle difficoltà economiche. Dopo la vittoria alle elezioni presidenziali, il leader dell’Akp ha nominato come Ministro del Tesoro e delle Finanze Mehmet Şimşek e come direttore della Banca Centrale Hafize Gaye Erkan – chiamati a correggere le politiche monetarie per far fronte a un’inflazione da tempo fuori controllo. Un’operazione di fatto abbastanza riuscita, che però ha comunque lasciato un livello ancora alto di inflazione (oltre il 60%) e ha scaricato il peso delle “correzioni” su alcuni settori lavorativi. In generale, la tendenza che non si è riusciti a invertire è una progressiva perdita di credibilità delle élite governative: la cocente delusione delle opposizioni alla chiamata alle urne dell’anno scorso ha fatto forse dimenticare la ragione per cui quella delusione fosse possibile in primo luogo, e cioè che la speranza per un ribaltamento dei rapporti di forza fosse, per la prima volta da molto tempo a questa parte, tangibile. Almeno dal 2018 il consenso per l’Akp si trova infatti in una fase decrescente, per quanto non sempre una tale disaffezione si traduce in un aumento di voti per il campo avversario, dal momento che si verifica spesso un travaso di preferenze negli alleati di governo dell’Mhp prima e dell’Yrp ora. Tuttavia, è segno di una crisi di tenuta del modello di gestione dello Stato di Erdoğan, il quale non a caso si è ritrovato più e più volte a cambiare il proprio approccio e a entrare in frizione con diversi compagni di partito.
Chissà anche che il terribile terremoto che ha colpito le zone meridionali del Paese a febbraio dell’anno scorso, per cui ci si aspettava un contraccolpo negativo nei confronti dell’Akp già alle elezioni presidenziali, non abbia invece fatto sentire i propri effetti in termini di voto solo col passare del tempo. I report delle organizzazioni umanitarie segnalano ancora una grossa quantità di persone che non ha ricevuto adeguata assistenza e la ricostruzione non sembra procedere a passo spedito: ad Adıyaman, come già accennato, le preferenze di voto si sono ribaltate mentre a Hatay, dove l’Akp ha vinto di strettissima misura, il Consiglio supremo ha da poco respinto un rinconteggio dei voti chiesto dall’opposizione. In generale, comunque, sarebbe un errore leggere le attuali elezioni come uno specchio delle dinamiche politiche parlamentari e presidenziali: come sta a dimostrare la precedente tornata del 2019, in cui già il Chp aveva raggiunto risultati di rilievo con la conquista di Istanbul, della capitale e di altre importante città, esiste una discrepanza fra l’orientamento di voto a livello locale e quello più propriamente politico della dimensione nazionale. Un’amministrazione funzionale e convincente dei contesti urbani e cittadini viene premiata, molto spesso a prescindere dalle appartenenze ideologiche.
Ciononostante queste ultime hanno il loro forte peso, in Turchia più che altrove. Erdoğan ha saputo dare voce e volto alla parte del Paese più conservatrice e più convintamente religiosa, che difficilmente abbandonerà l’Akp se non per altre opzioni politiche di simile tenore, mentre il Chp mantiene una propria base fedele agli ideali repubblicani e fiduciosa di poter invertire la rotta intrapresa dalla repubblica anatolica nell’ultimo decennio. La lotta curda, intanto, continua e si consolida anche se non soprattutto a livello rappresentativo, marcando così una presenza significativa in termini di peso elettorale sia nei territori occidentali che in quelli orientali. A queste battaglie di lungo periodo si uniscono considerazioni maggiormente pragmatiche e legate alle contingenze: situazione economica, tensioni internazionali, buona gestione delle realtà territoriali. È dentro un tale incrocio che la democrazia turca diventa una questione sempre più aperta e in divenire: anche solo per motivi anagrafici, e per quanto il settantenne Erdoğan tenterà alcuni aggiustamenti politici e magari manovre per garantirsi un ulteriore mandato, il Paese si trova oramai al termine di un ciclo. Altre figure capaci di attirare un vasto consenso sembrano salire sulla cresta dell’onda, ma la complessità sociale è pronta a rimescolare le carte.   
CREDITI FOTO: ANSA-ZUMAPERESS / John Wreford

 



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