Elezioni politiche a settembre, chi votare? Se ne discute in famiglia

L'esito di un consiglio di famiglia, composto dall'autore e dalla moglie, per decidere "chi votare" è arrivato a una decisione.

Pierfranco Pellizzetti

Cara MicroMega,
in previsione del prossimo voto anticipato al 25 settembre, il nostro consiglio di famiglia, composto da mia moglie e me, ha ritenuto doveroso avviare un’approfondita discussione sui comportamenti da tenersi per l’occasione. Vista la qualità del dibattito, ora mi sembra opportuno fornire una sintetica informazione al riguardo.

Sgombrato il campo dalle tesi estremistiche della consorte che manifestava una netta preferenza per l’astensione (argomentata in base all’assunto “che vadano tutti a c.”) si decideva di procedere partendo dal criterio di chi non votare. Stante l’orientamento democratico e antifascista del mio nucleo, il voto a destra è apparso immediatamente incommestibile. Ma prima ancora del giudizio politico sono valse considerazioni di altro genere: Salvini è stato giudicato impresentabile in qualsivoglia ambiente che non sia uno stabilimento balneare con annessa mescita di alcolici, dove fare il perdigiorno intrattenendosi con fauna varia, possibilmente tatuata, tra cui qualche ultras del Milan con trascorsi per spaccio. Anche se risulta divertente immaginare il mancamento della suorina Ursula von der Leyen vedendosi arrivare a Bruxelles Matteo Salvini, nuovo premier italiano, sottobraccio a qualche leghista della prima ora, reduci da una gara di rutti e di chi piscia più lontano. Ipotesi improbabile in quanto il padano rosario-munito, mentre perde tempo a bighellonare o a farsi irridere da qualche sindaco polacco, subisce lo svuotamento di consensi da parte della sanguisuga Meloni. Che studia da leader, ma quando va in trasferta – magari in Spagna – sbraca immediatamente ululando frasi sconnesse (yo soy Giorgia/ yo soy una mujer/ yo soy una madre… e allora?) cui il pubblico risponde fedele allo stesso modo al proprio nome: Vox. Indubbiamente la agitapopoli in piazza ci sa fare, ma gli scheletri nel suo stipetto non sono pochi; per una che si atteggia a nuovo, ma ha fatto il ministro con Berlusconi e ha pure votato che Ruby Rubacuori era nipote di Mubarak. Quel Silvio Berlusconi che spunta fuori dal sacello per mostrarci quanto sia lubrica la libidine nei vecchi e come risulti problematico per un gigione capire che il proprio tempo è finito. Da qui il travaso di consensi, già berlusconiani, verso quel luogo inesistente chiamato “Centro”, in cui pensano di intercettarli ex giovanottelli già di belle speranze come il confindustrialese Carlo Calenda e l’affabulatore tirapacchi Matteo Renzi (con la patetica aggiunta dell’apostata Luigi Di Maio, che si aggira vendendo all’incanto il proprio passato in cambio di uno strapuntino purchessia).

Impalcatura di questo spazio politico immaginario per presunte maggioranze silenziose, la promessa da cui nacque il ventennio forzitaliota di una rivoluzione liberal-liberista, che per taluni significa la solita ricetta legge&ordine, vaga quanto minacciosa, per altri la credenza che l’avidità sarebbe la soluzione di tutti i problemi; da quando un tale gli ha raccontato la favola bella del birraio e del panettiere che imbandiscono le mense dei loro prodotti: la realtà è un tantino più complessa.

Favola per favola, c’è poi quella che Enrico Letta guiderebbe un partito di sinistra (seppure infarcito di renziani) e intanto adotta l’Agenda Draghi a favore dei ceti abbienti e a danno dei poveracci; praticando al meglio la strategia dell’establishment portata al parossismo dal banchiere ex premier: cancellare i problemi che non si è capaci di risolvere. Ossia quel “sopire e troncare” che sembra far parte del bagaglio culturale dei professional di scarsa cultura del PD, tipo il fuori corso Andrea Orlando.

Stante lo scenario l’unica scelta che appare praticabile è quella di una formazione dichiaratamente populista; intesa – fuori dai trucchi semantici – come critica di un establishment incanaglito per rinnovamenti dal basso. Una formazione che abbia come priorità l’etica pubblica e l’ambiente, senza la pretesa di fare da succursale al rosso-antico tipo Mélenchon. Ed è la scelta che faremo in famiglia.

A quattro condizioni: 1) che Beppe Grillo stia zitto, evitando rifilarci le insensatezze ondivaghe del capocomico in costante fregola di restare al centro della scena; 2) che Giuseppe Conte la smetta di mediare a oltranza e tiri fuori (se ce l’ha) quelli che nel calcio spagnolo si chiamano “los huevos”; 3) che Alessandro Di Battista la pianti col suo terzomondismo a fumetti; 4) che la selezione del nuovo personale pentastellato ci risparmi terrapiattisti mitomani, ambiziosi senza le carte in regola e altri casi umani.



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