Elezioni presidenziali in Russia, intervista a Giovanni Savino

Dal 15 al 17 marzo si tengono le elezioni presidenziali in Russia. Scontata la vittoria di Vladimir Putin, che se la vedrà con sparring partner designati per non metterne minimamente in discussione il trionfo. Ma chi sono questi sparring partner? E soprattutto chi sono i candidati ai quali è stato impedito di partecipare? E con quali motivazioni? Di seguito le considerazioni di Giovanni Savino, ricercatore di storia della Russia presso l'Università Federico II di Napoli.

Redazione

Non sono certo le prime presidenziali russe a cui concorre Vladimir Putin ma le prime dopo la riforma costituzionale del 2020 e l’inizio della guerra in Ucraina. Saranno quindi diverse dalle altre?
Di sicuro queste elezioni si svolgono, forse per la prima volta, in un clima da punto di non ritorno. In quelle del 2018, in cui comunque l’esito era ugualmente scontato, era diffusa l’idea che comunque il regime non si sarebbe spinto troppo in là mentre noi oggi questo non possiamo saperlo: probabilmente assisteremo a un ulteriore giro di vite dopo queste elezioni, che vengono vissute da Putin come un plebiscito. I sondaggi realizzati dagli enti ufficiali (fatti in tempo di guerra, con diverse leggi che puniscono i reati di opinione e che quindi lasciano il tempo che trovano) ci dicono che molto probabilmente l’amministrazione presidenziale raggiungerà l’obiettivo che si è prefissata, ovvero il 70% di affluenza con l’80% di consensi per Putin. Questo però non vuol dire che non esista una fascia della società che gli è contraria e che soprattutto è contraria alla guerra, solo che non è rappresentata e non può esserlo. L’abbiamo visto, cosa è successo con Boris Nadeždin, un candidato che sulla guerra tutto sommato rilasciava dichiarazione abbastanza di buonsenso, per usare una metafora sportiva squalificato prima di potersi presentare ai blocchi di partenza.
L’osservatore distratto potrebbe quindi chiedersi che cosa servano a Putin le elezioni in un contesto del genere, giudicandole un inutile dispendio di risorse. In realtà per Putin è importante avere una legittimazione, anche per quanto costruita, preparata nei minimi dettagli e con tanto di scelta degli sparring partner; inoltre bisogna continuare a dare l’idea che sia sostenuto dalla maggioranza della popolazione. Perché godere di un consenso plebiscitario nonostante l’esodo di questi due anni significa poter dimostrare che la percentuale di persone fuggite dalla Russia non lo avrebbe comunque intaccato e che quindi il Cremlino è legittimato a tirare dritto.
Più che avversari dell’attuale Presidente, ha parlato di sparring partner. Può tracciarne un breve profilo?
A eccezione di Russia Giusta, che ha sostenuto la candidatura di Putin assieme a Russia Unita dopo aver flirtato con Evgenij Prigožin nel corso dei primi sei mesi del 2023 (e abbiamo visto com’è andata a finire), sono inclusi candidati di partiti presenti in Parlamento e che dipendono dalle scelte dell’amministrazione presidenziale.  Si tratta di sparring partner particolari, perché almeno due di questi – Leonid Slutsky, leader del Partito liberaldemocratico russo e successore di Vladimir Žirinovskij, e Nikolaj Kharitonov, esponente del Partito Comunista della Federazione Russa, già candidatosi nel 2004 – sono personaggi che per ragioni diverse non riescono a mobilitare nemmeno l’elettorato dei loro partiti di appartenenza. Slutsky non ha saputo fare di meglio che una campagna elettorale – mi si passi il termine – “necrofila” utilizzando l’immagine di Žirinovskij, essendo tra l’altro in passato al centro di polemiche perché accusato di molestie sessuali nei confronti di varie giornaliste che seguivano la Duma. Kharitonov invece è stata la scelta di Gennadij Zjuganov, che ormai molto anziano non voleva uscire di scena con un bottino miserrimo, ben conscio dei risultati che sarebbero spettati agli altri candidati in queste elezioni.
Il candidato che potrebbe essere una sorpresa e costituire il segnale di una riconfigurazione dell’apparato dei partiti di sistema è Vladislav Davankov, esponente di Novyye lyudi (“Nuova Gente”), partito liberale abbastanza centrista, che quindi nel sistema è molto inserito. Davankov è stato candidato sindaco alle elezioni comunali di Mosca ed è vicepresidente della Duma, non certo un outsider, però Novyye lyudi si è lasciato andare ad alcuni ammiccamenti agli elettori contrari al sistema putiniano e alla guerra (nulla di che, proposte di ragionamento sul futuro del Paese dopo la cosiddetta operazione militare speciale, inviti a occuparsi di quello che succede nelle carceri, dichiarazioni aleatorie che però nella Russia di oggi possono rappresentare qualcosa di più). I sondaggi dicono che Davankov potrebbe ottenere tra il 9 e l’11%, intromettendosi nel classico podio delle elezioni russe: Putin-Zjuganov-Žirinovskij.
Questo potrebbe portare a una riconfigurazione del sistema perché da un lato c’è l’intenzione dell’amministrazione presidenziale di schiacciare i comunisti (e non perché non siano troppo leali, anzi dimostrano di esserlo sostenendo la guerra) perché, soprattutto nell’ambito di alcune realtà regionali, attivisti provenienti dal largo e sparso mondo della sinistra hanno provato a far sentire la propria voce. Faccio due esempi: nel 2021 ci sono stati candidati indipendenti alla Duma come Mikhail Lobanov, nome importantissimo del sindacalismo universitario, oggi agente straniero costretto all’esilio; oppure nella Repubblica dei Komi Victor Vorobyov, deputato comunista, ha sostenuto la causa della produzione di atti legislativi nella lingua nazionale della Repubblica, ovviamente senza successo. I comunisti vanno bastonati ora perché, considerando che Zjuganov ormai ha più di 80 anni e non vi sono figure in grado di poter prenderne il posto nell’immediato, il Cremlino intanto può intervenire non su quello che c’è, ma su quello che potrebbe essere. È così che ragiona e soltanto così si spiegano le repressioni in Russia: anche una semplice dichiarazione non totalmente allineata potrebbe costituire l’humus per il futuro sviluppo di fenomeni incontrollabili.
Davankov potrebbe da un lato risolvere il problema della rappresentanza di un settore dell’opinione pubblica liberaleggiante ma dall’altro lato Novyye lyudi, essendo un partito in cui hanno investito grosse aziende (ovviamente non parliamo dei business del petrolio e del gas, che restano saldamente sotto il controllo del Cremlino), potrebbe semplicemente accontentarsi di una logica di spartizione, consociativa si sarebbe detto un tempo nella politica italiana.
Oltre a quelli che effettivamente concorrono, gli sparring partner, ci sono stati personaggi la cui candidatura è stata rigettata. Chi sono? E come e in che modo gli è stata negata la candidatura a queste elezioni?
La prima candidata esclusa è stata quella di Ekaterina Duntsova, una figura interessante perché si tratta di una persona al di fuori dei giri della politica russa: è quarantenne, quindi piuttosto giovane; vive a Ržev un posto di provincia nella regione di Tula; era attiva come giornalista in quella zona e nemmeno pregiudizialmente ostile all’autorità (alle elezioni comunali di Ržev aveva appoggiato un candidato di Russia Unita, il partito di Putin, che si era positivamente impegnato per il territorio). Però la sua piattaforma, piuttosto avanzata sui temi delle libertà civili – no alla guerra, libertà per i prigionieri politici, revisione di tutta una serie di leggi capestro – non è nemmeno riuscita ad arrivare alla fase della raccolta firme. In Russia l’iter per la presentazione delle candidature parte da un’assemblea a cui devono partecipare circa 500 persone che sostengono la candidatura, le quali devono firmare e convalidare la lista da un notaio, per poi andare al comitato centrale elettorale che verifica tali firme e già in quel momento può escludere la tua candidatura, come è capitato a Duntsova. Se non la esclude, come è successo invece a Nadeždin, poi si richiede un’ulteriore raccolta di firme.
La candidatura di Nadeždin ha rappresentato quello che voleva rappresentare anche quella di Duntsova, l’espressione di un dissenso che esiste e che ha la possibilità di esprimersi perché in Russia ti arrestano sì se manifesti in strada ma non se vai a mettere le firme a sostegno di un candidato. Le code per appoggiare la candidatura di Nadeždin si sono verificate e non vanno neanche ingigantite nella loro effettiva entità, però è innegabile che vedere sui media e sui social tante persone allineate ha sortito un effetto. Tale candidatura è comunque poi stata bocciata in seguito dagli esperti grafologi del Ministero degli Interni russo, ai quali in questa ulteriore fase spetta il compito di valutare la pertinenza delle firme raccolte e di conseguenza l’accettazione o la bocciatura della candidatura.
Qual è quindi il significato dell’esclusione di questi candidati? Si diceva diffusamente che Putin avrebbe fatto una campagna elettorale tutta rivolta verso l’interno, senza parlare della guerra, mentre invece ciò non è successo perché la sua campagna elettorale è stata sì rivolta all’interno, ma insistendo sulla costruzione in atto di una nuova élite russa, composta dai combattenti della cosiddetta operazione speciale militare, al posto della vecchia élite, che comunque finora non ha subito sostanziali epurazioni. Ma una tale campagna elettorale includeva quindi l’argomento potenzialmente divisivo e polarizzante della guerra, che si è deciso di estromettere dal discorso pubblico con l’esclusione dei candidati che la avversano.
Allora perché si è fatto arrivare Nadeždin alle soglie della candidatura?
Credo si volesse in parte ripetere l’operazione Sobčak del 2018: in quelle elezioni Ksenija Sobčak, legatissima ai circoli del Cremlino nonostante apparentemente se ne discosta (ricordiamoci sempre che suo padre, l’ex sindaco di san Pietroburgo Anatolij Sobčak, è stato il padrino politico di Vladimir Putin), venne sbandierata come la candidata liberale e, prendendo solo l’1%, servì al Cremlino per dimostrare che i liberali in Russia sono solo l’1%, una percentuale esigua. Ma nel frattempo, attraverso delle ricerche sociologiche commissionate sempre dal Cremlino, era risultato chiaro che Duntsova o Nadeždin avrebbero ottenuto non l’1% dei voti ma presumibilmente il 10-15%. Poi sì, le elezioni le puoi sempre manipolare, falsificarne i risultati, però oltre una certa soglia la gente scenderebbe in strada a protestare. Putin afferma costantemente che la società russa è unita nel suo sforzo contro la guerra e tali dichiarazioni potrebbero essere confermate se il suo oppositore prendesse l’1% dei voti; ma se iniziasse a prenderne il 10 o il 15% o addirittura di più, come si metterebbero le cose?
Poi un conto è piazzare Davankov davanti ai comunisti e ai liberali, ben altro conto sarebbe assistere a degli illustri sconosciuti che superano tutti i candidati dei partiti di sistema, che ne risulterebbe delegittimato. Credo sia questo il motivo fondamentale delle due esclusioni.
Da questo punto di vista credo abbia rivestito un ruolo importante l’esperienza bielorussa: ricordiamoci che nel 2020 Lukashenko aveva permesso a quella che lui vedeva come un’insignificante e innocua “donnina”, Svetlana Tikhanovskaya, di presentarsi alle presidenziali pensando che sarebbe stata ignorata; Tikhanovskaya invece non solo non è stata ignorata ma ha surclassato tutta una serie di personaggi più influenti di lei, alcuni provenienti addirittura dalla cerchia di Lukashenko. Quello che è successo ce lo ricordiamo tutti: manifestazioni di massa, Lukashenko che soprattutto nelle prime settimane sembrava di non poter mantenere più il potere… E il sistema russo guarda sempre a ciò che succede nello spazio post-sovietico.
Inizialmente abbiamo parlato dell’obiettivo che si pone l’amministrazione presidenziale con queste elezioni. Quale sarà il loro vero risultato, sulla cui base misurare l’effettivo consenso, probabilmente lo sapranno solo il Cremlino e il suo entourage, che in ogni caso presenteranno alla popolazione il risultato come un plebiscito, che si verifichi realmente oppure no. Ma in che modo questo sistema pensa di potersi continuare a legittimare davvero di fronte al suo popolo?
Credo in fondo che Putin condivida un elemento ideologico con quelli che si dicono suoi fieri e baldi oppositori, ovvero il disprezzo nei confronti del popolo. Un popolo che viene visto come massa di manovra, manipolabile, che si può tenere sotto controllo e che quindi ti legittimerebbe in ogni caso. L’obiettivo finale è poter dire a sé stessi: “Visto? Anche stavolta ci sono riuscito a fregarli!”. Un po’ come Wanna Marchi trattava la gente a casa che truffava, a cui non restava acriticamente di comprare quello che le veniva propinato. Il messaggio da recapitare è questo: “Qui non esiste più la realtà. La realtà è quella che ti presenta il Cremlino”. E ciò avverrà con le modalità del voto elettronico, opzione presente in un numero consistente di regioni, su cui vi è nessun controllo, e l’assenza di ogni possibilità di monitorare quanto accade nei seggi, ai quali non vi è accesso.
Infine, che sia reale o no, Putin vuole dimostrare di godere del consenso pressoché totale del suo popolo anche al campo geopolitico che lui ritiene attualmente affine, quello del cosiddetto Global South, ma anche in questo caso siamo molto più nel campo della retorica che in quello della realtà.

 

CREDITI FOTO: Kremlin.ru|Wikimedia Commons



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