Elezioni regionali 2023: la democrazia senza popolo

Il dato delle elezioni, con il 70% di astensione, indica che la maggioranza degli elettori, quelli che volgarmente chiamiamo popolo, si sente esclusa dalla politica e priva di luoghi di rappresentanza e organizzazione. Ma le élite politiche preferiscono governare con il mandato delle minoranze borghesi, senza dover rendere conto alle maggioranze precarie.

Federica D'Alessio

Una democrazia liberale borghese, della quale la gente comune non fa parte. Una democrazia senza popolo. Il quadro che emerge dalle elezioni regionali 2023 nel Lazio e in Lombardia è desolante e preoccupante, ma ha il merito di essere nitido, lapidario nella sua sentenza: quasi il 70% degli elettori nel Lazio, oltre il 60% nelle due regioni, non è andato a votare, e fra chi l’ha fatto hanno trionfato proposte politiche afferenti a diversi settori di borghesia. Da quella provinciale, alla quale tanto in Lombardia quanto nel Lazio si è rivolta la destra, a quella urbana, elitista colta, la borghesia delle professioni – l’unico settore sociale rimasto a risiedere dentro Milano e nei municipi del centro di Roma – che ha dato la sua preferenza al PD, primo partito a Milano città e nei municipi della Roma ricca.

La politica non è governance: è rappresentanza. E le elezioni regionali 2023, così come quelle politiche di settembre di cui queste non rappresentano che una coda lunga, sanciscono che c’è una parte maggioritaria di cittadini italiani privi di rappresentanza, rimasti fuori dal perimetro della società democratica. A niente valgono le considerazioni razionali o fredde su come siano stata gestita la pandemia, ovvero in modo disastroso in Lombardia, meno disastroso in Lazio sebbene con molte più ombre di quanto la propaganda non dica rispetto alla salvaguardia della sanità pubblica ordinaria: chi ha voluto esprimere il suo disappunto su questo, lo ha fatto. Lo ha fatto non andando a votare. Allontanandosi dalla società politica, perché evidentemente nessuna scelta, nessun simbolo, rappresentava il suo sentimento o il suo pensiero. Anche il Movimento 5 Stelle, fra i grandi partiti l’unico a vocazione un minimo popolare, mostra tutte le sue difficoltà nel farsi davvero rappresentante di una classe sociale di esclusi.

La politica è anche appartenenza, a realtà collettive che riflettono le condizioni sociali. Le fondamenta della politica – sembrano dimenticarsi i dirigenti impegnati a battibeccare su Twitter ogni santo giorno e persino ieri, a spoglio ancora caldo – non sono i leader. Non sono i candidati. Sono gli elettori. Libertà è partecipazione, cantavano loro stessi anni fa. La partecipazione che crolla è il segno di una libertà che si restringe, perché si restringono gli spazi in cui esercitarla: gli spazi collettivi, gli spazi politici. I partiti sono altro dal comitato elettorale temporaneo o dalla corsa interna alla leadership? Le discussioni e il confronto politico sono altro dal flusso di tweet e post che ti scorrono su uno smartphone mentre sei isolato da tutti su un mezzo pubblico o dentro casa? La scelta di appartenenza su quali basi si sostanzia, per chi non si riconosce nelle figure che campeggiano ogni giorno nei talk show televisivi? In chi dovremmo identificarci, nei cantanti o nelle monologanti di Sanremo?

Una politica che per anni e anni ha mortificato il principio della rappresentanza per esaltare quello della governabilità tecnocratica, che ha favorito governi di unità nazionale senza opposizione o con opposizioni fantoccio come è stata quella di Fratelli d’Italia al governo Draghi, che cosa lascia in eredità ora che sembra, vivaddio, chiusa la fase dei governi tecnici? Sembra di essere tornati alla democrazia pre-novecentesca, alla democrazia precedente la fase dei movimenti socialisti e sindacali: c’è una borghesia perfettamente rappresentata dallo scheletro liberale, e una massa di persone detta volgarmente “popolo” che dopo aver attraversato vicissitudini gloriose e disastrose lungo un secolo e mezzo, è rimasta nuovamente esclusa dal potere statale. Priva di partiti, priva di sindacati, priva di mezzi di organizzazione e autorganizzazione. Questo è il dato che parla nelle elezioni. Questo significa il 70% o quasi di astensione. Ma chi ha il potere per raccogliere un tale insegnamento non lo farà, perché si trova perfettamente a suo agio nella rappresentanza delle élite e delle minoranze. Perché i Calenda e i Majorino, gli Orlando eccetera preferiscono evidentemente consolarsi con l’ajetto e battibeccare fra loro, come hanno fatto tutta ieri su Twitter, piuttosto che rivolgere un interrogativo grave e umile a chi non li ha votati. Perché le primarie del PD sono una pantomima fra élite borghesi che si autorappresentano. Perché governare con il mandato delle minoranze vuol dire non dover mai rendere conto alle maggioranze. E quando queste avranno qualcosa da ridire, ci sarà sempre una bella svolta autoritaria possibile per zittirle. A questo è servito, vero Enrico Letta, brigare in tutti i modi affinché le elezioni del 2022 le vincesse il partito di Giorgia Meloni.

 

Foto Flickr | Davide e Paola



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