Elezioni a Roma, perché hanno perso tutti i candidati

Raggi flop (come tutto il M5s). Michetti chi? Calenda “un Marchini che ce l’ha fatta”. Gualtieri ha la vittoria in tasca. Ma a che prezzo? Analisi sul voto di Roma. Dove alla fine non ha vinto nessuno.

Daniele Nalbone

Il 35,3% alle Comunali del 2016. L’11% nel 2021. In mezzo, il 52,4% delle Politiche 2018, il 39,9% delle Europee 2019 e il 14,6% delle Regionali 2020. Il Movimento 5 stelle anche a Roma, dove esprimeva però l’unica candidata sindaca uscente nonché componente del Comitato di garanzia del Movimento, quindi una dirigente nazionale, è stato letteralmente spazzato via in cinque anni.
Nonostante Virginia Raggi abbia provato la più classica delle arrampicate sugli specchi, parlando di “testa a testa” contro le “corazzate” del centrodestra e del centrosinistra, per la prima volta non solo un sindaco uscente non è riuscito a raggiungere il ballottaggio (Alemanno nel 2013 arrivò al 30%, Veltroni nel 2006 vinse al primo turno con il 61%), ma è arrivato addirittura ultimo tra i quattro maggiori candidati, superato anche da Carlo Calenda che con la sua lista ha raggiunto il 19,8%.

In quel mondo evidentemente parallelo del Movimento 5 stelle romano, riecheggiano le parole – lacrime agli occhi – della sindaca uscente, abbandonata anche dai big del Movimento 5 stelle, con Giuseppe Conte, Luigi Di Maio, Roberto Fico a Napoli a festeggiare la vittoria al primo turno di Gaetano Manfredi e del “listone” con il Pd, che con il grande sponsor Alessandro Di Battista potrà ora studiare cosa fare del voto dei “duri e puri” rimasti al loro fianco: “Dopo cinque anni di attacchi violentissimi, anche personali, ai quali in pochi avrebbero resistito, ho ottenuto poco meno di quanto hanno ottenuto le corazzate di centrodestra e centrosinistra. E questo è un dato da tenere in conto e su cui nei prossimi giorni faremo necessariamente una riflessione”.

Quel “poco meno” sono 8 punti percentuali meno di Roberto Gualtieri (centrosinistra) e 11 di Enrico Michetti (centrodestra). Ed è a Michetti che va dedicata una seconda riflessione che potremmo definire sugli sconfitti. Non solo il candidato comparso dal nulla, o meglio da Radio Radio, emittente locale con evidenti simpatie di centrodestra che fa del calcio il terreno sul quale coltivare discutibili progetti politici, con il 30% dei consensi ottenuti non ha nemmeno raggiunto il minimo che gli era attribuito nei sondaggi (tra il 31 e il 36%), ma la sua lista civica, con il 2,5%, è stata un autentico flop (la lista di Gualtieri ha raggiunto il 5,4%, quella di Raggi il 4,3%). Un giudizio lapidario su un candidato che alla sua prima uscita in campagna elettorale si è presentato tappezzando Roma di manifesti che si chiedevano “Michetti chi?”. Risposta non pervenuta, evidentemente. Ma il vero fallimento del centrodestra – che ormai dovremmo chiamare semplicemente “destra” – è dato dall’assenza di un qualsiasi progetto di coalizione, per non dire di federazione. Al 17,4% di Fratelli d’Italia hanno fatto da contraltare il misero 5,9% della Lega di Salvini e il 3,6% del duo Forza Italia – Udc. Al ballottaggio Michetti dovrà per forza chiedere aiuto a Giorgia Meloni, ma un voto così schierato è difficile da chiedere ai cittadini romani, ancora scottati dall’esperienza Alemanno.

Strada in discesa, quindi, a meno di clamorosi fallimenti nelle due settimane che ci separano dal ballottaggio, per Roberto Gualtieri che non è stato nemmeno impensierito dall’outsider cresciuto in casa dem, Carlo Calenda che, con il 19,8% dei consensi, si è piazzato terzo. Un terzo posto che è un altro flop, nonostante in giro si senta solo il contrario. Ovunque in tv, con un anno di campagna elettorale che lo ha portato a dialogare sui social con discutibili influencer, il suo volto affisso su bus, pensiline, cartelloni pubblicitari, è stato votato da meno di 220mila persone, diventando quindi soltanto un “Alfio Marchini che ce l’ha fatta” (per chi ricorda il costruttore romano che nel 2016, con una stampa incredibilmente a favore e le tv che facevano la fila per averlo come ospite, chiuse dietro Raggi, Giachetti e Meloni con circa 150mila preferenze che fruttarono però – con un affluenza di dieci punti superiore – l’11%).

Evidentemente indebolito dalla partecipazione di Calenda, Gualtieri può essere soddisfatto per il ballottaggio conquistato ma il progetto “ex ministro del governo Conte” non ha raggiunto risultati da farne laboratorio di centrosinistra come avvenuto invece a Napoli o Bologna. Certo, a Roma era in campo una dirigente nazionale del Movimento 5 stelle, ma il tentativo di dare vita a una coalizione larga verso sinistra ha portato al probabile, se non certo, astensionismo degli elettori: le due liste, “Sinistra civica ecologista”, che potremmo riassumere in un raccoglitore di “ex Sel”, e “Roma Futura” guidata da Giovanni Caudo, ex assessore all’Urbanistica di Ignazio Marino che aveva l’obiettivo di portare “radicalità” (sue parole) all’interno del progetto di Gualtieri, hanno raggiunto appena il 2% a testa. Troppo establishment un nome come Gualtieri per convincere l’elettorato veramente di sinistra, troppo ibrida la proposta politica che ha dato vita a un programma di governo scritto da un tecnico e non da un politico. Da Draghi, per dirla chiaramente. Un’intera campagna elettorale a parlare di macchina amministrativa, di fondi del Pnrr, di Europa, ha portato a un’affermazione di Gualtieri nei soliti municipi centrali ma a un allontanamento ulteriore delle “periferie”. E dalle urne. Roma, vista da sinistra, aveva bisogno di proposte chiare sul tema delle disuguaglianze, della partecipazione giovanile, del riscatto di una fascia di città che per tutta l’amministrazione Raggi è stata ridotta a “fragilità”, a poveri da aiutare, in un mix tra pietismo e legalismo spinto, bollati di volta in volta come “furbetti” se abitano nelle case popolari o “criminali” se invece occupanti. A questa città Gualtieri non ha parlato, troppo concentrato a capire come usare al meglio i fondi europei in arrivo per fare di Roma una nuova Milano.

Per chiudere il cerchio degli sconfitti – tutti, chi più o chi meno – non si può non sottolineare la scomparsa, a questo punto da considerare definitiva, delle forze politiche che potremmo definire anticapitaliste. Nessuno, né Elisabetta Canitano (Potere al Popolo, 0,6%), né Paolo Berdini (Rifondazione comunista, 0,4%), hanno ottenuto risultati che meritano anche solo di essere presi in considerazione in un’analisi post-elettorale. Non è un giudizio sui candidati, sia chiaro, ma sui progetti politici delle forze che, anche se alleate, avrebbero raggiunto l’unovirgolaqualcosa. Stavolta non ci si può nemmeno lamentare dell’atomizzazione delle forze politiche veramente di sinistra. La sensazione, sempre più consolidata, è che ormai il problema siano i contenitori più che i contenuti. Il 4,4% di Stefano Fassina della precedente tornata elettorale poteva essere un piccolo laboratorio in cui riunire, finalmente, la sinistra. Non è andata così. C’è stato Conte. C’è stato Draghi. Alcune forze politiche si sono schiacciate sul governismo, appoggiando il Pd in qualsiasi scelta, tanto a livello nazionale che a livello locale (gli esempi di “Sinistra civica ecologista” e “Roma Futura” ne sono la prova). Altre su un’opposizione ormai giudicata dagli elettori stantia a livello politico. Il risultato, in caso di vittoria di Gualtieri, è aver consegnato l’opposizione “popolare” di nuovo a Virginia Raggi e a ciò che resta del Movimento 5 stelle che fu. Tra due settimane potremmo semplicemente analizzare il risultato del ballottaggio con un “bentornati al 2013”. Ma con un Gualtieri al posto di un Marino.

 

(credit foto Ansa)



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