Elvis, quasi un dripping movie

La cine-biografia di Elvis Presley, ovvero sogni e allucinazioni dell’America del XX secolo nel nuovo film di Baz Luhrmann.

Flavio De Bernardinis

Baz Luhrmann, dopo alcune prove non particolarmente fortunate, fra cui il Grande Gatsby, 2013, con Leonardo Di Caprio, torna al genere prediletto del film musicale, come fu Moulin Rouge, 2001, fantasmagorica rivisitazione pop del mito de La Boheme, con Nicole Kidman ed Ewan McGregor.

Luhrmann questa volta affronta direttamente il bio-musical, Elvis, sulla vita di Elvis Presley, avvalendosi dell’esordiente Austin Butler per la stupefacente interpretazione del protagonista, e del veterano Tom Hanks nei panni del Colonnello Parker, l’agente di Elvis, voce narrante e motore di tutta l’azione.

Elvis ha il pregio di essere innanzitutto un film sull’America e i suoi sogni, o meglio le sue allucinazioni. Come la pittura di Jackson Pollock, l’arte di Elvis è una proiezione psichica dell’America: se nelle cascate di colore di Pollock si può ravvisare il segno della cultura nativa americana, la musica di Elvis è il Gospel, il Blues, il Country e il Rock che si fondono nell’allucinazione collettiva di un’America luogo mitico di incontro e confronto fra culture differenti. Ancora come Pollock, Elvis non progetta semplicemente canzoni, ma esibisce un comportamento: più che un interprete, è un performer. E sempre come Pollock, egli immette della propria esibizione l’odore acre dell’immagine totemica, un misto di sacralità e sessualità.

Come recita il classico Amore e morte nel romanzo americano, di Leslie Fiedler, 1960, la grande ossessione americana è la contaminazione con l’Altro. Il piccolo Elvis, nel film, vive il trauma della freudiana scena primaria, spiando da una fessura nel legno il suo totem, una incisiva danza/amplesso eseguita da una coppia di neri. Il giovanissimo yankee scopre così che i suoi veri genitori, in chiave artistica, sono in realtà gli Antenati afroamericani. Come il Jim Morrison di Oliver Stone, in The Doors – 1991, era stato fecondato sin da piccolo dallo spirito portentoso di uno sciamano pellerossa.

Se Elvis è il frutto della psiche yankee, allora anche il colonnello Parker, il suo Pigmalione, è poco più che un’immagine vuota: egli, infatti, non possiede una precisa identità anagrafica, né documenti, né biografia accertata. Sarebbe infatti un transfuga olandese, vissuto nella terra di mezzo del circo, imbonitore universale, tanto che quando parla con i fenomeni circensi, nani e portenti, si esprime in una lingua misteriosa e incomprensibile.

Elvis, allora, è il doppio del colonnello Parker, e viceversa: come recitava il Joker di Jack Nicholson a Batman, nel primissimo film diretto da Tim Burton, “Io ho fatto te e tu hai fatto me”, l’uno è la proiezione immaginaria dell’altro.

Parker, l’europeo senza identità, che cerca nell’America la sua seconda occasione nel segno dell’anonimato integrale, il potere celato nel Regno Occulto del Dietro le Quinte; Elvis, l’americano spettacolare, figlio della cultura nera Blues/Jazz/Godspel, che offre ai fan bianchi l’opportunità dell’amplesso con il simulacro delle origini.

L’australiano Baz Luhrmann, come già aveva fatto con la Parigi bohemienne, osserva il tutto dalla giusta distanza. Se in Moulin Rouge prevaleva l’attrito ancora romantico tra l’amore, l’arte e la vita, qui, attraverso Pollock, la materia sgocciola in una sorta di dripping movie, che ovunque si insinua e tutto compenetra.

Il montaggio cinematografico di Elvis è un flusso tale di immagini, figure, icone, rumori, suoni musicali e non musicali, che diventa ormai impossibile distinguere tra montaggio audiovisivo in senso tradizionale, e missaggio integrale di tutto l’udibile e il visibile che fluttua e scorre.

Quando Elvis, spremuto, dà segni di non farcela, un sinistro dottore proveniente dalla cura Ludovico di Arancia meccanica, gli inietta in vena un liquido portentoso che gli permette di rituffarsi rigoglioso nell’onda musicale. Una scena simile anche nel recente biopic su Elton John, Rocket Man – 2019, quando il protagonista tenta il suicidio, e lo staff medico lo rimette in piedi giusto in tempo per il prossimo concerto. Tali, pertanto, le facce del Doppio. Il performer, Elvis, macchina liquida destinata ad oliare in permanenza l’ingranaggio dello spettacolo, e il suo pigmalione, il cosiddetto colonnello Parker, chiamato a garantire il flusso inarrestabile che deve bagnare e eccitare i fan. L’energia proveniente dagli Antenati, i neri o i nativi americani, deve essere incanalata e scaricata nello Spettacolo dell’Arte o nell’Arte dello Spettacolo, tanto che invertendo l’ordine dell’energia il flusso non cambia.

In parallelo, scorre un altro spettacolo, ossia l’America che uccide Martin Luther King e Bobby Kennedy. Emerge così l’immagine di una società, capitalistica e consumistica, che ha l’unica urgenza di scaricare la tensione: in una danza totemica, o sparando a bruciapelo, fa poca differenza.

Elvis, dell’australiano Baz Luhrmann, tenta infine di tenere insieme tutte queste cose, fare un minimo d’argine al flusso inarrestabile, come il neozelandese Peter Jackson tentò con l’altrettanto fluviale Signore degli anelli. Jackson aveva dalla sua le risorse energetiche della trilogia, e della serialità in generale, mentre Luhrmann deve concentrare tutto negli argini definiti del film. Ci riesce, grazie all’idea della voce narrante di Tom Hanks, che riproduce comunque lo schema collaudato dell’Amadeus di Milos Forman, dove solo chi ha nell’anonimato il proprio destino, Salieri, è anche colui che detiene il privilegio della voce narrante. Il comune spettatore, attraversato e invaso dal flusso, ha così nella voce anonima del racconto un appiglio e un riferimento.

Lo spettro che aleggia sull’America, davanti e dietro gli schermi, è dunque l’anonimato. Che gli Antenati africani o i nativi americani siano un territorio molto più identitario di tutte le mitologie yankee, è cosa che inquieta e sconvolge davvero. Come accade puntualmente con un brano di Elvis, un action painting di Pollock, Sulla strada di Kerouac, o magari con il dimenticato Nashville di Robert Altman.



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