L’emergenza del futuro

Nei discorsi morali attuali, dominati dalla semantica presentistica, l'appello alla responsabilità per gli esseri futuri non trova collocazione. Lo sostiene Ferdinando G. Menga, nel suo libro appena uscito: L’emergenza del futuro. I destini del pianeta e le responsabilità del presente (Donzelli). Ne pubblichiamo un estratto, corrispondente all'“Introduzione”, per il quale ringraziamo sia l'autore sia l'editore.

Ferdinando G. Menga

La pandemia e la posta in gioco del futuro

1. Icone di tempi inquieti

Vorrei iniziare con due immagini che, in modi diversi, eppure connessi, raccolgono in sé e trasmettono uno spaccato assai rappresentativo dei «tempi interessanti»[1] che stiamo attualmente vivendo.

Traggo la prima dal periodo di lockdown primaverile imposto dalle misure sanitarie in risposta alla pandemia da Sars-CoV-2. Tra le tante sequenze di immagini circolate, attraverso i molti canali istituzionalizzati e informali, è probabilmente quella che conserverò maggiormente impressa nella memoria. Si tratta del video girato dallo smartphone di un passante all’inseguimento affannato e sbigottito della carovana composta da un’anatra e i suoi piccoli che, silente e indisturbata, sfilava lungo il ciglio di una strada deserta del centro di una cittadina del Nord-est. Immagini simili, richiamate e commentate peraltro anche da influenti intellettuali su alcuni quotidiani nazionali[2], hanno evocato pressoché sempre – e a ragione – il medesimo messaggio: interrotta, o comunque sospesa, la presenza invasiva e invadente dell’uomo, gli animali si riappropriano degli spazi di mondo dai quali sono stati costantemente scacciati; riappaiono nei luoghi stessi da cui venivano  prima esclusi e rispetto ai quali erano trattati come presenze invisibili – o meglio, assenze invisibili.

La seconda immagine precede la prima di poco più di un anno e ritrae – in vari siti, blog e testate giornalistiche – una giovanissima studentessa svedese, Greta Thunberg, nella sua azione di sciopero prolungato dalla scuola finalizzata a sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema del cambiamento climatico e incitare le autorità del suo paese, e non solo, a una decisa inversione di rotta nelle odierne politiche ambientali. Non molto tempo è passato e questo circoscritto atto di disobbedienza si è dimostrato in grado di innescare e dare sviluppo a uno dei movimenti giovanili di protesta più nutriti e trasversali che la storia abbia conosciuto: i Fridays for Future.

Se ci pensiamo bene, l’intento di questa protesta giovanile di massa è, in fondo, assimilabile al tema contenuto nei commenti sopra riportati: si tratta, anche qui come lì, di percepire e dare la voce ai più vulnerabili e invisibili; gli emarginati dagli spazi pubblici; insomma, gli esclusi dalla sfera di apparenza del mondo. Nel primo caso, ne va di soggetti invisibili animali; nel secondo, di soggetti invisibili futuri, che saranno coloro i quali maggiormente – e, al pari dei primi, «inermi»[3] – sopporteranno i costi degli scellerati comportamenti – dell’«irresponsabilità infernale», per dirla con Bernard Stiegler[4] – dei contemporanei.

Come si evince, dunque, dall’accostamento di queste due immagini, ciò che dà motivo di connetterle assieme è il medesimo leitmotif attorno al quale ruotano. Nell’una come nell’altra emerge una dinamica assai peculiare e, oserei dire, inconsueta: è come se, in esse, in effetti, la vulnerabilità degli esclusi e la loro invisibilità acquistassero, anche se solo per un fugace momento, la forza di rendersi visibili e interpellare gli spazi pubblici e gli ordini politici del mondo presente, esibendone le pratiche distruttive e usurpatorie che li caratterizzano, e indicando altresì l’«urgenza [e] assoluta necessità»[5] di un cambio di rotta: segnalandone, cioè, la figurazione di un futuro alternativo. Per dirla con maggiore enfasi, è come se in tali immagini il grido soffocato degli invisibili e degli assenti riuscisse a rendersi udibile e presente, raccogliendosi in una sorta di ingiunzione verso un poter-essere-altrimenti (del mondo): un futuro altro che è futuro degli altri e non riflesso o semplice prolungamento del presente e dei presenti; insomma, non spazio residuale accordato per gentile concessione di noi contemporanei.

Ma che la marginalizzazione dei più vulnerabili e il sacrificio dei futuri costituiscano il tendenziale risvolto di ogni forma d’impresa comunitaria a corto respiro è considerazione già magnificamente formulata da Nietzsche, allorquando, al suo Zarathustra – non a caso, descritto come amico degli animali e alleato dei futuri – mette in bocca le seguenti parole:

I più lontani devono scontare il vostro amore del prossimo; e già quando siete radunati in cinque, deve sempre morire un sesto[6].

Più che mai profetica si rivela, quindi, questa descrizione nietzschiana alla luce degli eventi che stanno solcando il palcoscenico della nostra epoca attuale – era, non a caso, denominata Antropocene –, in cui è l’intervento stesso dell’uomo contemporaneo a decidere le sorti del pianeta e i destini dei suoi abitanti tanto del futuro prossimo quanto – se non soprattutto – di quello remoto.

Sebbene in modi diversi, è proprio a nome di questi soggetti vulnerabili – esclusi e invisibili –, tanto dell’oggi quanto del domani, che ci parlano – per chi riesce ad ascoltarle – le voci di Greta Thunberg e dei Fridays for Future, da un lato, ma anche le voci spettrali che sono penetrate nello spazio del nostro presente nel corso dell’attuale emergenza da coronavirus, dall’altro.

Quest’ultime, come abbiamo esperito e stiamo ancora esperendo, gettano un’ombra di grande inquietudine sulla società del nostro tempo. Si sono manifestate attraverso l’interruzione brusca, pervasiva e sconvolgente di gran parte delle organizzazioni e pratiche di vita attraverso cui si è esplicitato finora il nostro soggiornare nel mondo. Ciò che risulta sconvolgente in tale sospensione è dato proprio dal fatto che tutte le consuete e consolidate forme di vita, per quanto criticate e considerate emendabili, non erano mai state percepite, però, fino ad ora, tali da poter esser messe totalmente in scacco.

Il carattere «spettrale» di tali voci non si spiega, tuttavia, semplicemente in ragione del generale effetto d’inquietudine che provocano, bensì in virtù di una considerazione più specifica e, se vogliamo, di marca più tecnica. Se parlo, infatti, di spettralità qui è per riferirmi – con Freud prima e Derrida poi – proprio alla dinamica del ritorno fantasmatico di un rimosso originario[7]. Rimosso che, in quanto tale appunto originario –, non può essere cancellato tout court, ma permane nella latenza per riaffiorare, in tutta la sua forza e con i suoi effetti perturbanti, nei momenti in cui i meccanismi di difesa si allentano.

Ma, nello specifico, quale forma assumerebbe il rimosso che torna e penetra il nostro presente nel corso dell’attuale crisi pandemica, e di cui registriamo i devastanti effetti? Detto con qualche semplificazione, consiste in questo: nella presa d’atto, necessariamente traumatica, del carattere tutto illusorio e irrealizzabile dell’impresa totalizzante che muove la modernità nel suo sprigionamento tecnico; impresa volta a conseguire l’installazione dell’uomo nel cosmo quale progressiva conquista[8] e sempre più estesa e «completa signoria»[9]. Installazione che, negli ultimi decenni, abbiamo sempre più imparato a conoscere e a vivere, nelle sue varie dimensioni – economica, sociale, culturale, politica, tecnologica –, come processo di globalizzazione sempre più pervasiva.

È esattamente un’impresa del genere a svelare oggi il suo cortocircuito, facendo affiorare l’intimo carattere niente affatto progressivo, onni-inclusivo e totalizzante, ma, al contrario, intrinsecamente contingente; insomma, la sua natura connotata da un’aspirazione tutta intrisa di finitezza e che, proprio perché tale, per potersi dare come ciò che non è – ovvero, come onnipotente –, non può che realizzarsi attraverso l’«economia paranoica» – per dirla con Judith Butler[10] – di esclusioni immancabilmente violente.

Così, proprio al culmine di tale progetto di trasfigurazione della terra a «immagine del mondo» funzionale agli scopi dell’uomo[11]; all’apice dell’operazione di riduzione del pianeta a luogo in cui l’essere umano pare potersi sentire a casa propria dappertutto e poter fruire di ogni cosa, grazie alla progressiva eliminazione delle distanze e dei confini; questo stesso processo rivela, nel topos del suo limite estremo, il suo segreto più recondito: ovvero, esibisce la sua intima tracotanza e, dunque, tutto il carattere limitato, limitante e violento su cui poggia.

Ebbene, gli esseri umani del nostro tempo, in questa emergenza della pandemia, si sono trovati espressamente travolti da una delle circostanze in cui il disvelamento traumatico di suddetta hybris si è reso concretamente e pesantemente riscontrabile. D’altro canto, tale esperienza non può avere altra forma di manifestazione se non ciò che si lascia avvertire nella percezione stessa di un rimosso traumatico che ritorna, con tutti gli effetti paralizzanti e angoscianti che ciò implica. Poiché, delle due l’una: o si presuppone una presa di consapevolezza preliminare, ma allora non vi sarebbe spazio e motivo alcuno per il disvelamento ricolmo di inquietudine che abbiamo avuto modo di esperire sulla nostra pelle negli ultimi tempi; o si aderisce alla visione di un ritorno del rimosso originario, che tale è, però, solo manifestandosi a partire dagli effetti traumatici stessi che rilascia e dai quali solamente ex postnachträglich, direbbe Freud[12] – si rende retroattivamente possibile una presa di coscienza: acquisizione, questa, che, attraversando il vissuto nevrotico medesimo, dal sintomo risale alla causa.

È in tal senso che vanno letti, in effetti, i vissuti contrastivi e polarizzati che ci hanno investiti, in particolare, durante le prime settimane di lockdown: alla sensazione d’onnipotenza spaziale finora data per scontata, e la cui cifra era rappresentata dalla percezione di possibile raggiungimento di ogni luogo sul globo, abbiamo visto opporsi, come una sorta di contrappasso, l’esperienza di reclusione forzata nelle quattro mura domestiche (e questo nella migliore delle ipotesi). Alla presunzione di potenziale onnipresenza corporea e comunicativa – che lanciava i suoi strali fino a contemplare la fruibilità di relazioni affettive con persone ubicate a ogni latitudine – abbiamo visto contrapporsi l’«impossibilità vissuta»[13] di accedere a quelle che finora si erano mostrate essere le più semplici e minimali esperienze di prossimità, come quella costituita dallo stringere la mano al proprio caro nell’ora del trapasso. E, ancora, alla convinzione dell’oramai compiuta colonizzazione e «appropriazione» del pianeta, abbiamo visto far capo, invece, la chiara esperienza di ciò che Freud avrebbe chiamato il «non essere più padroni in casa propria»[14] – esperienza, questa, che si è palesata ai nostri occhi, nel modo più lampante possibile, proprio attraverso immagini come quella evocata all’inizio con protagonista un paesaggio urbano deserto, non più propriamente «nostro», ma palcoscenico dell’indisturbato sfilare dell’anatra con i suoi piccoli.

2. Politiche della vulnerabilità.

L’enorme portata evocativa, ma anche ermeneutica, di immagini del genere sta precisamente nella loro capacità di presentarci, mediante la sospensione stessa del corso normale e consolidato delle cose, la logica gerarchizzante e violenta in esso sottesa. Immagini del genere ci mostrano che il «nostro» mondo non è già sempre e semplicemente – di default, come useremmo dire oggigiorno – l’unica versione di mondo ontologicamente possibile, ma, a ben vedere, è sempre il prodotto di un’operazione determinata di configurazione di mondo. Per essere più precisi, si tratta di un’«istituzione» contingente di mondo[15] che, in quanto tale, include necessariamente alcune forme di soggetti e possibilità di vita al prezzo dell’esclusione di altre. Ma, di rimbalzo, è esattamente per lo stesso motivo che tali immagini, simultaneamente, assieme all’esibizione del volto escludente della medaglia, ne lasciano affiorare anche il lato possibilmente più inclusivo. E, nel nostro caso, una tale faccia si concretizza proprio in un poter-essere-altrimenti del mondo, come peraltro le immagini stesse hanno lasciato trapelare.

Si tratta di una figurazione di mondo che sovverte evidentemente quella trasmessa dallo strapotere del modello occidentale tecnologico-moderno: il mondo, da mera «sfera d’azione» a disposizione dei soggetti, risulta così potersi presentare anche quale luogo di «co-affezione»[16] e condivisa esposizione[17]; da luogo di esclusiva proprietà dell’uomo, evoca la possibilità di rivelarsi dimora dell’estraneo[18], ovvero luogo d’altri e, ancor più specificamente, di altri vulnerabili: tanto dei soggetti non-umani (o resi inumani) che popolano i margini del presente, quanto dei soggetti appartenenti alle future generazioni, la cui esistenza e possibilità di avere una vita degna d’essere vissuta dipendono dalle decisioni dell’oggi.

Ed è esattamente a quest’altezza che al primo registro, che lascia trasparire l’ingiunzione spettrale dei vulnerabili di oggi, si connette intimamente il secondo registro sopra richiamato: quello rappresentato dalla protesta di Greta e dei Fridays for Future quali veri e propri portavoce degli interessi e delle rivendicazioni dei vulnerabili di domani.

In effetti, a prescindere dalla simpatia o ritrosia che si possano provare nei confronti dell’iniziativa di questi giovani, il punto che è necessario tenere fermo è proprio l’inquietante interrogativo che la loro protesta veicola e la sfida che lanciano alle democrazie liberali contemporanee.

[…]

Si tratta di proteste che, orientate al predominante beneficio di soggetti futuri al prezzo di un evidente sacrifico da parte dei presenti, si scontrano con la temporalità stessa che scandisce l’orologio della stragrande maggioranza delle democrazie odierne: al tic di decisioni prese a interesse dei cittadini presenti corrisponde (o si spera corrisponda) il tac di una probabile riconferma elettorale.

È in tale prospettiva, dunque, che queste proteste lasciano affiorare il motivo inquietante sopra evocato: nel cuore stesso delle nostre comunità politiche si assiste al sollevarsi di voci di soggetti che poco contano a favore di soggetti che non contano proprio nulla. Mi piace chiamarla un’alleanza fra i vulnerabili di oggi e i vulnerabili di domani[19] (o, anche, in quest’ultimo caso, soggetti che, in quanto inesistenti, neppure possiedono la titolarità a essere vulnerati).

[…]

Ma, per fortuna, questa è soltanto una faccia della medaglia, giacché, queste proteste dei vulnerabili per i vulnerabili, a ben vedere, non sfidano semplicemente le democrazie contemporanee per sostituirle con visioni politiche ad esse estrinseche, ma per richiederne, invece, la riattivazione della vocazione politica più profonda. Rivendicando, infatti, la necessità di dislocare lo spazio della decisione dal presente al futuro, ciò che tali proteste esigono è il recupero di una visione davvero politica, simbolica e culturale, la quale non può più piegarsi alla mera logica economica, che asserve tutto al cieco imperativo del soddisfacimento dei bisogni presenti.

[…]

Greta Thunberg e i Fridays for Future ci ricordano che la vera dignità di ogni comunità politica, in quanto politica e, quindi, rivolta al trascendimento verso i – e preservazione dello spazio comunitario a beneficio dei – posteri, si misura non con un affaccendarsi tutto ripiegato sul mero soddisfacimento del presente, ma nella sua capacità di accogliere e realizzare una vocazione intergenerazionale.

Come vedremo nel corso dell’indagine, potremmo parlare, con Hannah Arendt, della capacità degli spazi comunitari di costruire un mondo degno d’essere vissuto per i «nuovi venuti»[20]. Forma che noi potremmo meglio specificare declinandola proprio nei termini di una democrazia che sa farsi spazio aperto per vulnerabilità a venire.

3. Responsabilità verso i futuri: interrogare l’etica e la politica.

È precisamente su questa intersezione composta da vulnerabilità dei soggetti futuri e responsabilità nei loro confronti che intendo interrogarmi nel percorso di riflessione costituito dalle pagine a seguire. Come pensare, dunque, una responsabilità intergenerazionale autenticamente rivolta a beneficio degli abitanti del pianeta di domani (anche di un remoto domani)? Come configurare un modello di comunità che ne traduca genuinamente la posta in gioco politica? Questi sono gli interrogativi al fondo della mia indagine. Interrogativi che, tuttavia, non innescano immediatamente un percorso di soluzione, ma, anzitutto, l’attenta analisi preliminare rivolta a quelle che potremmo considerare le consolidate resistenze che ne impediscono, o comunque rendono difficile, un adeguato svolgimento.

Nel loro complesso, le difficoltà o resistenze fondative a riconoscere obblighi intergenerazionali discendono da quella che oserei chiamare la sfida che un’etica radicalmente rivolta al futuro pone al pensiero etico tradizionale. Si tratta, in termini assai succinti, di un appello alla responsabilità per esseri futuri che, per quanto diffusamente avvertito, non trova però collocazione adeguata entro la semantica presentistica sottesa a tutti i discorsi morali predominanti[21].

In conformità a questo orientamento, seguono poi a ruota la maggior parte delle pratiche istituzionali attuali, le quali, per quanto in teoria preoccupate per il futuro, in concreto adottano politiche tutte incentrare sul predominio degli interessi dei contemporanei.

Da qui emergono i due punti principali di cui, a mio avviso, una questione etico-filosofica e politica circa la responsabilità intergenerazionale deve occuparsi. In primo luogo, bisogna indagare meglio i termini in cui le teorie morali predominanti non siano in grado di rispondere adeguatamente a quanto un’etica segnatamente orientata al futuro esige[22]. In secondo luogo, è necessario porsi la questione fondamentale che ne consegue: se un’impostazione giustificativa incentrata sul presente non si mostra in grado di rispondere coerentemente a un’esigenza di responsabilità radicalmente rivolta al futuro, come può configurarsi un paradigma etico e filosofico-politico alternativo che corrisponda a tale ingiunzione?

È esattamente qui che procederò con un’indagine rivolta a trovare un modello comunitario il più possibile accogliente nei confronti del richiamo etico che il futuro costantemente ci rivolge. Dopo aver passato in rassegna alcune figurazioni di comunità, mostrando di queste l’inadeguatezza o l’incoerente sviluppo in vista del compito di realizzazione di una politica intergenerazionale, sosterò in chiusura su alcune nozioni tratte dalla filosofia arendtiana che possono fornirci diversi spunti promettenti. In particolar modo, cercherò di mostrare che Arendt ci suggerisce che l’accoglienza radicale dell’appello a una responsabilità nei confronti dei futuri implica il necessario abbandono della strada fondativa che cerca di estendere il presente al futuro, intraprendendo il percorso inverso di un’etica e di una politica che trasgredisce il primato del presente attraverso l’appello dell’alterità del futuro stesso. Come vedremo, questo cambio di atteggiamento è magistralmente riassunto dalla nostra autrice nella sua proposta di una costituzione della comunità politica fondata sui motivi della pluralità e della natalità: pluralità e natalità che danno scaturigine a un mondo sempre precario e in pericolo e, per ciò stesso, tale da necessitare costantemente l’impegno comune orientato a una durevolezza che si misura nel riuscire a realizzare spazi di accoglienza per l’avvenire, ovvero per i nuovi venuti nella loro legittima aspirazione a partecipare alle sorti del mondo collettivo.

In tale appropriazione del modello arendtiano, che avremo modo di indagare meglio nella parte conclusiva di questo percorso, si rinvengono, così, alcuni motivi fondamentali per configurare una visione politica radicalmente responsiva rispetto ai suoi obblighi di carattere intergenerazionale. Si tratta di pensare non più ad obblighi primariamente fondati sulla razionalità del presente – cioè sugli interessi, le ragioni o la correlazione a diritti che si relazionano sempre al primato dell’esistenza di soggetti tendenzialmente esistenti qui e ora. Piuttosto, proprio sulla scia di un pensiero radicale della natalità, si tratta di rivolgersi a obblighi costitutivamente incentrati su un appello radicale dell’altro che ci chiama incondizionatamente ad essere responsabili prima ancora che la macchina delle ragioni e dei calcoli si metta in moto.

Un’esperienza del genere, lungi dall’essere astratta, si mostra estremamente vissuta e fattuale proprio se calata in un certo modo di comprendere il tessuto comunitario in tutta la sua concretezza – e la cui estrema concretezza sta nel semplice fatto che là dove finiscono le ragioni, gli interessi e gli obblighi correlati a diritti centrati sul presente e sui presenti, non per questo svanisce il senso profondo di un richiamo alla giustizia nei confronti dei nuovi venuti a venire.

[…]

NOTE:

[1] S. Žižek, Welcome to Interesting Times, in Id., Living in the End Times, Verso, London-New York 2011.

[2]  Su tutti cfr. Marino Niola, Se l’uomo tace ascoltiamo gli animali, in «la Repubblica», 27 marzo 2020.

[3]J. Wainwright – G. Mann, Climate Leviathan. A Political Theory of Our Planetary Future, Verso, London-New York 2018, p. ix.

[4] B. Stiegler, Qu’appelle-t-on panser?, ii, La leçon de Greta Thunberg, Les Liens qui libèrent, Paris 2020, p. 15.

[5] J.-M. G. Le Clézio, Greta Thunberg est la grande figure de ce temps, in «Bibliobs», 23 giugno 2020.

[6] F. Nietzsche, Also Sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen (1885), in Id., Werke, Ksa (Kritische Studienausgabe) 4, De Gruyter, Berlin-New York 1976, p. 78.

[7]Cfr. J. Derrida, Spectres de Marx. L’État de la dette, le travail du deuil et la nouvelle Internationale, Galilée, Paris 1993.

[8]Questo è notoriamente l’esito della lettura della modernità proposta da Martin Heidegger (cfr. Brief über den Humanismus, in Id., Wegmarken, GA (Gesamtausgabe) 9, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 1976, pp. 313-64.

[9] V. Plumwood, Feminism and the Mastery of Nature, Routledge, London-New York 1993, p. 110. Questa espressione ricalca, peraltro, la formula con cui Cartesio stesso definisce l’aspirazione che muove al fondo della cultura moderna, cioè quella di «renderci padroni e possessori della natura» (R. Descartes, Discours de la méthode [1637], Gallimard, Paris 1966, p. 168).

[10]J. Butler, Restaging the Universal: Hegemony and the Limits of Formalism, in Ead., E. Laclau, S. Žižek, Contingency, Hegemony, Universality. Contemporary Dialogues on the Left, Verso, London-New York 2000, p. 22.

[11] Cfr. M. Heidegger, Die Zeit des Weltbildes, in Id., Holzwege, GA 5, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 1994, pp. 75-113.

[12] Il carattere differito del manifestarsi dell’evento traumatico è notoriamente un tema che solca l’intera opera freudiana – tema poi ripreso da numerosi autori, in diverse guise, nel discorso filosofico contemporaneo.

[13] B. Waldenfels, Hyperphänomene. Modi hyperbolischer Erfahrung, Suhrkamp, Berlin 2012, p. 242.

[14] S. Freud, Eine Schwierigkeit der Psychoanalyse (1917), in Id., Gesammelte Werke, 12, Werke aus den Jahren 1917-1920, Fischer Taschenbuch Verlag, Frankfurt a.M. 1999, p. 11.

[15]Cfr. C. Castoriadis, L’institution imaginaire de la societé, Éditions du Seuil, Paris 1975.

[16] B. Waldenfels, Sozialität und Alterität. Modi sozialer Erfahrung, Suhrkamp, Berlin 2015, p. 73.

[17] Cfr. J.-L. Nancy, Être singulier pluriel, Galilée, Paris 1996 e R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998.

[18] Cfr. B. Waldenfels, Grundmotive einer Phänomenologie des Fremden, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2006.

[19] Questo punto è colto molto bene da J.-M. G. Le Clézio, Greta Thunberg, la gravité de la Terre, in «Libération», 13 marzo 2019, https://www.liberation.fr/planete/2019/03/13/greta-thunberg-la-gravite-de-la-terre_1714887.

[20] Cfr. H. Arendt, The Human Condition, The University of Chicago Press, Chicago-London 1958, p. 9.

[21] Cfr. H. Jonas, Technology and Responsibility: Reflections on the New Tasks of Ethics, in «Social Research», xl, 1973, 1, pp. 31-54.

[22]Cfr. S. Gardiner, In Defense of Climate Ethics, in S. Gardiner – D. A. Weisbach, Debating Climate Ethics, Oxford University Press, Oxford 2016, pp. 38 sgg.



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