Energia pulita e scempio del paesaggio: la contraddizione non è inevitabile

Il “decreto semplificazioni” consente la produzione di energia da fonti rinnovabili anche in aree sottoposte a tutela. Eppure, se ci fosse la volontà politica, bisogni energetici e difesa del paesaggio potrebbero andare di pari passo.

Fausto Carmelo Nigrelli

Ci risiamo. Sembra che anche stavolta, come spesso è capitato in Italia, una emergenza vera possa diventare una occasione per regolare vecchi conti, per rendere accettabile o addirittura auspicabile ciò che fino al giorno prima che era oggetto di confronti culturali, ideologici, sociali politici assai aspri o, addirittura, era esecrabile.

Forse è proprio questa la resilienza italiana: la capacità di aspettare quando il confronto con chi la pensa diversamente non si risolve a proprio vantaggio o, peggio, quando la posizione altrui raccoglie più consenso o appare più socialmente accettabile. Aspettare, solitamente, il momento buono per dichiarare una emergenza e, in suo nome, non solo cancellare in un solo colpo la posizione diversa, ma chiedere il consenso e, perfino, ottenerlo attorno a ciò che prima non si poteva mettere in discussione.

Queste riflessioni nascono da alcuni tra i tanti temi legati ai contenuti del Piano nazionale di Ripresa e Resilienza che riescono a trovare spazio nei giornali tra la notizia di un cantante (bravissimo) risultato negativo alla cocaina e quella di una querela della Rai a un altro cantante. Notizie certamente degne di attenzione, ma forse sarebbe più utile informare i cittadini e creare dibattito sulle cose che determineranno il modello di progresso dell’Italia per i prossimi trenta o cinquanta anni e non sui like delle prossime 24 ore.

Le questioni che riguardano le modifiche del Codice degli appalti, degli interventi di rigenerazione urbana nei centri storici e la retrocessione del paesaggio da elemento sovraordinato a tutte le ipotesi di trasformazioni territoriali a elemento subordinato agli obiettivi di produzione energetica sono tra questi. Gli ultimi due, in particolare, riguardano elementi che finora noi italiani abbiamo ritenuto connaturati con la nostra identità e che gli stranieri ci hanno riconosciuto come elementi caratterizzanti il Belpaese e determinanti la sua attrattività.

Prendiamo ad esempio l’art. 14 del “decreto semplificazioni”, che ha un titolo volutamente criptico: “Silenzio devolutivo per gli interventi localizzati in aree contermini”

Qui, in ossequio agli obiettivi primari del Piano, integrati con quelli di efficienza energetica contenuti nel Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima, si consente la realizzazione di impianti alimentati da fonti rinnovabili localizzati in aree sottoposte a tutela (paesaggistica e archeologica, per esempio) e in quelle cosiddette “contermini”.

Con questa norma di fatto viene cancellato ogni valore sovraordinato del vincolo paesaggistico poiché le soprintendenze devono esprimersi all’interno di una conferenza di servizi con parere obbligatorio non vincolante e con l’applicazione del silenzio assenso in venti giorni. Cosi, con un articoletto motivato dalla urgenza delle riforme richieste dall’Europa per la concessione dei fondi, viene cancellata una storia secolare di costruzione di una “cultura del paesaggio” che, sviluppatasi in un ambito filosofico di matrice crociana, proprio all’inizio del nuovo millennio era approdata – con la decisiva spinta proveniente dalla Convenzione europea del 2000 – a una concezione finalmente meno elitista, in cui il paesaggio è epifenomeno del territorio e la sua percezione non è più quella del singolo e basata su aspetti emozionali, ma quella delle comunità e basata su aspetti profondamente culturali.

Così come l’urgenza renderebbe accettabile la cancellazione del Codice degli appalti per quanto riguarda i subappalti tradizionalmente strumenti di infiltrazione mafiosa e corruzione e la sostituzione di edifici in centro storico con altri più alti, allo stesso modo il paesaggio, questo fantasma che molti vorrebbero solo nelle cartoline di una volta o nei siti di promozione turistica, viene finalmente riportato al ruolo di campo di esercizio per intellettualismi élitari o sfondo buono per la pubblicità del Mulino Bianco.

La retorica della burocrazia che blocca lo sviluppo (certamente basata su una realtà verificabile ogni giorno) e Ia narrazione della rapidità a tutti i costi che tanto aveva affascinato il Renzi presidente del Consiglio determinano un “liberi tutti” in cui la visione di lungo periodo, la sostenibilità di risorse diverse da quelle energetiche (il paesaggio, i beni culturali) vengono sacrificate sull’altare della presentificazione.

Così la indispensabile realizzazione del più massiccio investimento su sistemi di produzione energetica non basati su combustibili fossili, capaci di ridurre significativamente l’emissione di CO2 e di fare raggiungere al Paese gli obiettivi definiti negli accordi di Parigi sul clima darà un contributo decisivo al rilancio dell’economia e del lavoro aumentando drasticamente il consumo di suolo e devastando quel paesaggio che ancora non era stato lacerato da abusi, sanatorie, leggi e leggine.

Ma è proprio vero che sia impossibile fare coesistere la improrogabilità di insediare grandi impianti di produzione di energia e la necessità di salvaguardare il paesaggio non solo tutelato, ma ordinariamente agricolo? Non proprio. Il problema è che questo obiettivo non ha alcun aspetto tecnico preminente, ma è – e dovrebbe essere – un obiettivo politico. E la politica è quella che manca oggi più che mai.

Provo a fare un esempio.

A sud di Catania, tra Augusta e Siracusa, si estende la più ampia zona industriale della Sicilia la cui realizzazione iniziò con il piano Marshall e l’insediamento da parte dei Moratti di vecchi impianti petroliferi superinquinanti smontati in Texas. Nei 4 mila ettari trovarono sede oltre alle industrie petrolifere, molte aziende di produzione di materie plastiche e la famigerata Eternit. Nel periodo di massima espansione qui operarono meno di un centinaio di aziende.

Oggi le aree effettivamente utilizzate rappresentano poco più del 42% del totale, mentre le altre risultano non utilizzate o dismesse. Buona parte di queste ultime non sono mai state sede di stabilimenti, mentre circa la metà è sottoposta a vincoli ambientali, paesaggistici, archeologici. Complessivamente poco più del 25% della superficie totale è inutilizzata o sottoutilizzata, non soggetta a vincoli e non individuabile come zona agricola inutilizzata. Questa enorme superficie – servita da strade e impianti, dunque sostanzialmente urbanizzata – è quasi per intero di proprietà pubblica.

I calcoli di massima redatti in collaborazione tra urbanisti e fisici tecnici presso la struttura didattica dove lavoro con l’aiuto di giovani collaboratori hanno consentito di calcolare una potenziale produzione annua di energia da fotovoltaico pari a 1,78 Gwh/a per ettaro con un totale di poco meno di 1700 Gwh/a, se si coprissero le aree inutilizzate o sottoutilizzate con pannelli solari policristallini. Una tale produzione soddisferebbe il fabbisogno energetico di circa 1,9 milioni di persone pari alla popolazione delle tre province orientali della Sicilia (Messina, Catania e Siracusa).

Senza scendere in troppi particolari appare evidente che una scelta di questo genere impegnerebbe solo aree già compromesse dal punto di vista paesaggistico, urbanizzate e di proprietà pubblica, utilizzabili pertanto – anche a costo zero – per rendere ulteriormente competitivo il costo della produzione di energia per imprese e famiglie. Non solo. Bloccherebbe la disseminazione di impianti sui suoli agricoli e, soprattutto, le loro conseguenze: consumo di suolo; sottrazione di aree agricole produttive; devastazione dei paesaggi. E ancora sottrarrebbe alla criminalità organizzata alcuni segmenti nei quali in passato hanno proliferato le sue attività: quello dei cambi di destinazione urbanistica; della compravendita di aree agricole da utilizzare per i campi di produzione energetica; della realizzazione (le strade di accesso). E non è difficile calcolare la ricaduta positiva dal punto di vista economico e occupazionale.

Per imboccare una strada come questa occorre compiere scelte eminentemente politiche che l’attuale governo stenta a compiere data la eterogeneità della compagine che lo sostiene, ma che dovrebbero e potrebbero essere battaglie identitarie delle forze politiche più sensibili ai temi ambientali in una visione ampia che preservi per le prossime generazioni non solo l’atmosfera, ma anche il paesaggio.



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