Enrico Fermi e quel treno per Stoccolma di 84 anni fa

Quel treno che lentamente lasciava la stazione Termini di Roma il 6 dicembre del 1938, un martedì come oggi, incrociava la storia. Trasportava infatti la famiglia Fermi in un lungo viaggio senza ritorno fino a Stoccolma. Era la fine di quella straordinaria esperienza scientifica che fu il gruppo di fisica di via Panisperna.

Piero Martin

All’apparenza quel treno che lentamente lasciava la stazione Termini di Roma era uno dei tanti che ogni giorno partivano dalla capitale. E quel 6 dicembre del 1938 un martedì come tanti, come quello di oggi ad esempio. In realtà quel treno – forse il n.44 delle 23.25 per Milano che da lì avrebbe proseguito fino a Berlino per arrivare infine a Stoccolma – incrociava la storia. Su di esso viaggiava infatti la famiglia Fermi: Enrico, che si recava a Stoccolma per ritirare il premio Nobel per la fisica, la moglie Laura Capon e i figli Nella e Giulio. In circostanze normali sarebbe stato un viaggio festoso, per una grande occasione. Invece era allo stesso tempo inizio e fine. Inizio di un esilio imposto dalle leggi razziali fasciste, che colpivano direttamente la famiglia Fermi dato che Laura era ebrea, e fine di quella straordinaria esperienza scientifica che fu il gruppo di fisica di via Panisperna.
Raccontando quella sera il fisico Edoardo Amaldi, che in via Panisperna di Fermi fu allievo e collaboratore, ricorda che “Il treno con la famiglia Fermi era partito dalla Stazione Termini per Stoccolma la sera del 6 dicembre 1938… Franco Rasetti, Ginestra [la moglie di Amaldi, n.d.r.] e io. Il nostro piccolo mondo era stato sconvolto, anzi quasi certamente distrutto, da forze e circostanze completamente estranee al nostro campo d’azione. Un osservatore attento avrebbe potuto dirci che era stato ingenuo pensare di costruire un edificio così fragile e delicato sulle pendici di un vulcano che mostrava così chiari cenni di crescente attività. Ma su quelle pendici eravamo nati e cresciuti e avevamo sempre pensato che quello che facevamo fosse molto più durevole della fase politica che il paese stava attraversando.”

Il mondo di cui parla Amaldi era certamente piccolo in termini numerici, ma aveva dato un contributo enorme alla nuova comprensione della natura di cui è stata protagonista la fisica nei primi decenni del Novecento, a partire dalla teoria della relatività e dalla meccanica quantistica. Erano i fisici guidati da Enrico Fermi, che nel 1926 era stato chiamato da Orso Mario Corbino – direttore dell’Istituto di Fisica dell’Università di Roma – a essere titolare della prima cattedra italiana di fisica teorica. Il gruppo di Via Panisperna compì esperimenti cruciali per la comprensione delle proprietà del nucleo, il cuore dell’atomo, e diede quindi contributi fondamentali allo sviluppo della fisica nucleare, una disciplina che all’epoca muoveva i primi passi. Per questi risultati Fermi ottenne il Nobel per la fisica nel 1938. Un premio che coronava un’avventura scientifica che sarebbe passata alla storia, vissuta però – come scriveva Amaldi – sulle pendici di quel vulcano che era l’Italia dell’epoca, avviata dalla dittatura di Mussolini al disastro bellico e alla vergogna della complicità nella shoah. Ai primi di settembre il governo fascista varò le norme che espellevano dal sistema scolastico allievi e docenti ebrei, allineandosi sempre più alla Germania nazista. Come racconta il bel libro “Il papa della fisica” di Segrè e Hoerlin (Raffaello Cortina, 2017) questa notizia convinse i Fermi della necessità di lasciare l’Italia. Nelle settimane successive Fermi ottenne una cattedra alla Columbia University di New York. Quando il 10 novembre del 1938 arrivò la comunicazione dell’assegnazione del premio Nobel i Fermi decisero che il viaggio a Stoccolma sarebbe stato anche l’occasione per partire definitivamente dall’Italia.
Il fischio con il quale, quel 6 dicembre, il capostazione di Termini diede il via libera al treno per Stoccolma segnò una svolta drammatica nella vita privata della famiglia Fermi, che si trovò a lasciare casa, affetti, i luoghi dove aveva vissuto per anni. Col senno di poi questo enorme sacrificio servì probabilmente ad evitare che il fascismo potesse sfruttare le ricerche di Fermi a suo vantaggio, una circostanza che già si era rischiata qualche anno prima. Tra gli esperimenti svolti dai ragazzi di Via Panisperna a metà degli anni ’30 ce n’erano alcuni nei quali era stata ottenuta la rottura di un nucleo di uranio, ovvero la reazione di fissione nucleare che di lì a pochi anni sarebbe stato usato nella bomba atomica. Tanto era inaspettato il risultato che Fermi e i suoi collaboratori non se ne accorsero. Il loro lavoro produsse però l’humus nel quale nel ’38 i fisici Lise Meitner, Otto Hahn e Fritz Strassmann replicarono gli esperimenti e identificarono la fissione. Come Segrè e Hoerlin si chiedono nel loro libro, come sarebbe stato il mondo se la fissione fosse stata scoperta da Fermi tre anni prima, nel ’35? Uno scenario non improbabile è quello nel quale il nazifascismo avrebbe potuto rendersi conto dell’importanza della scoperta a fini bellici, e utilizzarla allo scopo di costruire la bomba.
Quando la fissione venne compresa, alla fine del 1938, la situazione era ormai diversa. Le leggi razziali avevano allontanato da Germania e Italia brillanti scienziati, l’Europa era sull’orlo della guerra e Fermi si stava imbarcando – alla Vigilia di Natale – sul transatlantico Franconia che l’avrebbe portato negli Stati Uniti. Dove, grazie anche a una famosa lettera scritta da Einstein al Presidente Roosevelt nell’estate del ’39, la ricerca sulla fissione prese crescente velocità. Fu proprio Fermi a realizzare a Chicago – esattamente ottant’anni fa, il 2 dicembre del 1942 – la prima reazione di fissione nucleare a catena, un risultato che avrebbe schiuso le porte al progetto Manhattan e nel dopoguerra sarebbe stato utilizzato per la progettazione e la costruzione dei primi reattori nucleari civili per la produzione di energia elettrica.
Anche se quel 6 dicembre finì un’epoca e consegnò via Panisperna alla storia, terminata la Seconda guerra mondiale l’eredità di quella scuola italiana di fisica non andò persa e ancor oggi continua a dare frutti rendendo il nostro paese uno dei protagonisti della fisica mondiale, come anche il recente Nobel di Giorgio Parisi ha dimostrato. Premio che, per un curioso gioco del caso, gli è stato consegnato proprio il 6 dicembre del 2021 e, a causa delle restrizioni imposte dal Covid, non a Stoccolma bensì nell’Aula Magna della Sapienza, a meno di un chilometro dalla stazione Termini. Ottantatré anni dopo una sorta di legame ideale tra due momenti storici per la scienza italiana. Oggi viviamo per fortuna in un paese libero e democratico, ma la memoria di quegli anni – anche attraverso storie meno note come quella del treno per Stoccolma – è bene ci accompagni sempre.



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