La minaccia di Erdogan: imminente una quarta invasione della Siria, ancora contro i curdi

La quarta e “definitiva” invasione contro le forze multietniche confederali proporrebbe in Turchia le lusinghe di un nuovo, sanguinoso spettacolo imperiale a una popolazione interna scossa da una tremenda crisi economico-valutaria, cercando di far risalire nei sondaggi un presidente che, per la prima volta in molti anni, è in effettiva e costante discesa.

Davide Grasso

C’è un aspetto dell’attuale politica internazionale – e del G20 appena concluso – che sfugge a molti osservatori. Erdogan ha cercato consensi per una nuova guerra contro i curdi in Siria, dichiarandosi convinto, prima di incontrare Joe Biden, che gli Usa non forniranno neanche questa volta protezione alle forze maschili e femminili che hanno sconfitto l’Isis – le Forze siriane democratiche (Sdf) guidate dalle Ypg-Ypj d’ispirazione socialista. L’esercito di Ankara sta muovendo le sue truppe attorno a Kobane, Tell Rifaat e Tell Tamir da mesi, accumulando uomini e mezzi. Bombardamenti colpiscono Tell Rifaat, Tell Tamir e Ain Issa senza sosta dal 2019, ma quest’estate si è registrato un picco assoluto, con una frequenza giornaliera di morti e feriti, quasi regolarmente civili. Questa campagna terroristica dal cielo si è accompagnata all’autorizzazione parlamentare per altri due anni delle operazioni militari turche in Siria e Iraq, e da strombazzanti annunci di un’imminente offensiva contro le forze “terroriste” (quelle democratiche) che difendono l’amministrazione creata nel nord-est del paese su impulso del Partito di unione democratica e del Partito per il futuro della Siria.

Non si può escludere che presto ci troveremo nuovamente di fronte a avanzate di carri armati turchi e colonne di fumo che si alzano da centri abitati siriani, con colonne interminabili di persone che fuggono con sacchi sulle spalle e a bambini per mano. Queste immagini hanno fatto il giro del mondo durante l’invasione turca delle città siriane di Ras Al-Ain (in curdo Serekaniye) e Tell Abyad, due anni fa; ma non riuscirono a richiamare la stessa attenzione nel 2018, quando la Turchia invase Afrin con l’assenso della Russia. In entrambi i casi l’esercito turco ha fornito copertura aerea e corazzata a un vero e proprio esercito di criminali e banditi emersi dal conflitto siriano: torturatori e stupratori seriali come quelli delle brigate Al-Hamza o Sultan Murad, reduci dell’Isis riciclati in Ahrar Al-Sharkiya (gruppo responsabile dell’omicidio della politica curdo-siriana Havrin Khalef) o il gruppo Failaq Al-Majd un tempo responsabile, sotto il nome di Noureddin Al-Zenki, del rapimento delle italiane Greta Ramelli e Vanessa Marzullo (tristemente famoso per la decapitazione di un ragazzino quindicenne ad Aleppo nel 2016, unico caso risaputo perché filmato dagli stessi miliziani).

Queste bande sono oggi sotto la catena di comando dell’esercito turco, che le addestra e le ha pudicamente rinominate “Esercito nazionale siriano”. Occupano (scontrandosi regolarmente tra loro per il controllo delle risorse) le città conquistate dalla Turchia in Siria, da cui gran parte della popolazione, a causa loro, è fuggita. La maggioranza di quelle aree è curda, ma la popolazione è composita, con ampie comunità arabe, assire, ezide. La divisione qui è però politica ancor più che etnica. Arabi, assiri, curdi e armeni del nord-est della Siria vivono sotto un’Amministrazione fondata su consigli popolari e su un movimento organizzato che intende riformulare e aggiornare la critica del capitalismo e la pratica del cambiamento secondo una nuova logica extra-europea, qualificata come “mesopotamica”. Alternativa al fascismo di Assad nata nel 2012, questa rivoluzione confederalista si è estesa grazie alle vittorie sull’Isis e sui gruppi jihadisti supportati dalla Turchia, costituendo un percorso di secolarizzazione pluralistica fino a quando quest’ultima non ha iniziato ad attaccarla.

Naturalmente non sono tutti d’accordo con la rivoluzione confederale nella Siria del nord. Una minoranza conservatrice, tanto araba quanto curda, non ama la convivenza o le riforme egualitarie (ad esempio del diritto di famiglia) introdotte dall’Amministrazione. È un’alternativa che si contrappone al modello di regresso politico-religioso, tradizionalista e patriarcale che Erdogan ha scelto di incarnare per costruire un imponente sistema di accumulazione fondato sulla guerra di classe, sociale e militare accompagnate alla devastazione ambientale per far posto a trasformazioni e distruzioni/ricostruzioni urbane a carattere speculativo, ma anche sulla produzione di milioni di migranti e profughi per creare profitto economico e geopolitico sui loro movimenti, sulla loro repressione e sulla loro gestione. Questo sistema si è consolidato dentro la Turchia e nel suo estero vicino (Iraq e Siria), utilizzando come arma ideologica soprattutto la demonizzazione della sinistra “atea” e “terrorista” curda, ma si è poi esteso (spesso utilizzando come mercenari i criminali arruolati nella guerra siriana) fino alla Libia, al Kashmir, alla Somalia e all’Azerbaigian.

Quello che ha fatto Erdogan dal 2016, quando ha invaso le città siriane di Jarablus e Al-Bab per fermare l’avanzata contro l’Isis delle Ypg-Ypj, è riorganizzare la galassia dispersa e sconfitta dei gruppi che nel paese avevano scommesso sull’insurrezione violenta per instaurare piccoli o medi emirati e staterelli “islamici”. Proprio le città che ho menzionato, come Afrin o Ras Al-Ain, sono oggi (come la sventurata Idlib) sotto il tallone dei gruppi organizzati da Erdogan, cui una “Coalizione nazionale siriana” diretta dai Fratelli musulmani locali offre una sembianza di esecutivo civile attraverso un cosiddetto “Governo ad interim”. Quest’ultimo impone interpretazioni drastiche della legge islamica e ha espulso le donne da ogni ruolo pubblico con un corredo di esecuzioni sommarie, rapimenti e torture verso chiunque sia sospettato di opposizione. (La “Coalizione nazionale siriana” è riconosciuta come “legittimo rappresentante delle aspirazioni del popolo siriano” dall’Italia e da molti paesi dell’UE dal 2012, su pressione della Turchia e in onore a un posizionamento anti-Assad ben più ipocrita di quello – del tutto ovvio – di tanti cittadini siriani.)

La quarta e “definitiva” invasione contro le forze multietniche confederali proporrebbe in Turchia le lusinghe di un nuovo, sanguinoso spettacolo imperiale a una popolazione interna scossa da una tremenda crisi economico-valutaria, cercando di far risalire nei sondaggi un presidente che, per la prima volta in molti anni, è in effettiva e costante discesa. Per alzare la posta simbolica Erdogan vorrebbe attaccare addirittura la città di Kobane, che aveva resistito per prima contro l’Isis nel 2014; ma anche, per fomentare i peggiori istinti dei suoi sostenitori islamisti più fanatici, Tell Tamir, cuore delle comunità cristiane nella Siria del nord (se non si riesce a immaginare la base più oltranzista, e comunque ampia, di Erdogan, si pensi a un certo tipo di elettore delle destre italiane, sostituendo a croce e rosario il corano o la mezzaluna).

Erdogan deve convincere Putin: Mosca ha contingenti, in accordo con le Sdf, a Kobane e Tell Tamir, e vicino a Tell Rifaat. Ha avuto modo di incontrare Biden al G20, che però ha poche truppe in aree diverse da quelle minacciate. Il silenzio dei media europei su questa guerra forse imminente è tanto più preoccupante perché proprio l’Europa, pur marginale nel teatro siriano, è punto focale delle pressioni di Erdogan. Un’offensiva governativa siriana e russa è in preparazione per liberare Idlib da Al-Qaeda e dai jihadisti filo-turchi, e provocherebbe senz’altro ondate di fuggitivi e rifugiati. Quello che Erdogan dirà anche stavolta ai leader europei è che il suo paese non può più far fronte a quegli spostamenti e sarebbe costretto, in assenza di altre opzioni, a far defluire gran parte dei profughi verso la Grecia. L’UE sa bene che la presenza militare turca in Libia permette a Erdogan di influire anche sul comportamento della guardia costiera di Tripoli, e quindi sulla rotta via nord Africa attraverso l’Italia.

L’opzione alternativa per l’Europa sarebbe l’assenso – dietro le quinte, e naturalmente poi ripudiato pro forma in pubblico – a una nuova guerra contro i curdi e i popoli del nord della Siria. La gente fuggirà da Tell Tamir, Kobane o Tell Rifaat (che è già l’enorme campo profughi a cielo aperto per chi è fuggito da Afrin). Queste aree resteranno vuote per installarci i profughi di Idlib; è già stato fatto, con un’attenta selezione politica islamista e filo-turca dei profughi, con le abitazioni abbandonate a Ras Al-Ain e Afrin. Le Sdf possono ancora una volta resistere ai jihadisti siriani, ma con il loro equipaggiamento militare non possono sconfiggere l’esercito turco. La speranza è come ogni volta che Russia e Stati Uniti, per loro specifiche preoccupazioni e interessi, pongano dei veti. A Jarablus, Afrin e Ras Al-Ain non è stato così. Se un’altra guerra fonte di scandalo per tanti fosse alle porte, ci sarebbe da chiedersi perché le trombe dell’indignazione pubblica debbano suonare soltanto quando i giochi della politica sono già compiuti. La nostra azione sociale, compresa l’informazione, dovrebbe agire per prevenire i disastri di questo mondo – siano essi pandemie, crisi economiche o guerre dalle conseguenze politiche e umanitarie terribili, e dalle sempre più inquietanti implicazioni internazionali.

 

(credit foto ANSA EPA/PRESIDENT PRESS OFFICE)



Ti è piaciuto questo articolo?

Per continuare a offrirti contenuti di qualità MicroMega ha bisogno del tuo sostegno: DONA ORA.

Altri articoli di Davide Grasso

Continuiamo la storia Solidarity Collectives, un’organizzazione formata da internazionalisti di sinistra che contribuiscono alla resistenza ucraina.

La storia dei Solidarity Collectives, anarchici e internazionalisti, che si identificano con la lotta popolare contro l'invasione.

Un’ondata di bombardamenti turchi ha investito le regioni della Siria nord-orientale causando decine di vittime.

Altri articoli di Mondo

L’ultima tornata elettorale in Turchia ha visto l’Akp di Erdoğan scendere a secondo partito su scala nazionale.

Al G7 ribadita la linea della de-escalation: fermare l’attacco su Rafah e disinnescare le tensioni tra Israele e Iran.

L'attuale conflitto "a pezzi" e le sue ragioni profonde e spesso sottaciute.