Se l’impero privatizza l’esercito

Negli ultimi decenni il ricorso a contractors e aziende private a cui appaltare le guerre è aumentato esponenzialmente. E se da un lato le ricerche hanno da tempo dimostrato l’assoluta infondatezza dei presupposti economici della privatizzazione degli apparati militari, dall’altro questa esternalizzazione della guerra rende lo Stato più debole, lasciandolo anche su questo terreno alla mercé delle lobby.

Fabio Armao

Dalla guerra fredda alla guerra neoliberista
Fin dalle origini, lo Stato si è affidato al capitalismo per gestire le proprie guerre. L’intera storia della guerra nell’età moderna può essere ricostruita a partire dalla sinergia tra questi due attori, tra politica e mercato, al punto da prefigurare la costituzione di una vera e propria diarchia. Anzi, la guerra è il massimo esempio della convergenza di interessi fra politica e mercato. Lo Stato ci mette le “giuste cause”, all’inizio nella forma delle faide tra case regnanti affidate ai mercenari e ai pirati, poi inventando la Realpolitik con le sue proiezioni di potenza da affidare per quanto possibile a eserciti permanenti e corpi ufficiali di professionisti. Infine, costruendo l’idea di nazione e declinandola nelle due forme della guerra di coscritti e della guerra di guerriglia. Il capitalismo accompagna questo sviluppo mettendoci prima essenzialmente le risorse finanziarie, poi l’inventiva tecnologica e, infine, la produttività (le economie di scala).

In altri termini, potremmo dire che almeno negli ultimi cinque secoli la guerra è stata governata dalla dicotomia pubblico-privato. Tuttavia, a cavallo tra XIX e XX secolo, si registra una sorta di inversione dei ruoli: fino a quel momento, infatti, lo Stato aveva per lo più subappaltato ai privati il reclutamento dei soldati e monopolizzato invece la produzione di armi; da allora, viceversa, assume il compito di “motivare” i combattenti e subappalta ai privati la produzione e la vendita delle armi. L’allarme lanciato dal presidente americano Eisenhower nel suo discorso di commiato del 1961 sui rischi per la democrazia creati dal “complesso militare-industriale” è la presa d’atto di questa nuova convergenza di interessi.

Parafrasando Clausewitz, potremmo dire che la guerra è prosecuzione della politica e del capitalismo con mezzi differenti dalla diplomazia e dal commercio. E ciò vale ancora oggi, nel contesto generato dalla fine della guerra fredda e dal trionfo del neoliberismo, che ha dato un impulso senza precedenti alla privatizzazione della politica e, di conseguenza, anche della guerra 1.

Negli ultimi trent’anni si è registrata una sostanziale frammentazione della conflittualità, sempre più affidata ad attori non statali della violenza – mercenari, terroristi e gruppi di criminalità organizzata: dalle mafie ai narcos alle gang giovanili – che non vede scontri in campo aperto tra eserciti nazionali, ma guerriglie quotidiane combattute sulle strade di infinite città (o di quel che ne resta). In particolare i mercenari, nella nuova veste di contractors, tornano a essere la merce più venduta dall’Occidente (e non solo) nel resto del mondo, come ai tempi del colonialismo.

L’evoluzione del complesso militare-industriale statunitense

Gli Stati Uniti d’America sono, non a caso, il Paese in cui il trionfo dell’ideologia neoliberista, a partire dai mandati del presidente Ronald Reagan (1981-1989), ha prodotto il più sistematico e capillare processo di privatizzazione dell’intero comparto militare. Si tratta di un processo alquanto complesso e non certo privo di contraddizioni.
Il primo e più rilevante esempio della “ritirata dello Stato” – per le conseguenze sociali, economiche e persino simboliche – è rappresentato dall’avvio nel 1988 del Base Realignment and Closure Process (Brac), grazie al quale entro il 2006 più di un terzo delle basi di maggiori dimensioni viene chiuso.
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CREDIT FOTO EPA/TOMS KALNINS


1 Per un approfondimento, si veda Fabio Armao, L’età dell’oikocrazia. Il nuovo totalitarismo globale dei clan, Meltemi, 2020.


“La fine del secolo americano?”. È uscito il nuovo numero di MicroMega (1/2022)



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