Evviva la precarietà

Sul sito della “Fondazione Anna Kuliscioff” Claudio Negro sostiene che “il contratto a termine non è sinonimo di precarietà” e che si tratterebbe di una modalità d’impiego accettata di buon grado dai lavoratori. Niente di più falso.

Renato Fioretti

Taluni sostengono che il silenzio rappresenti la migliore forma di disprezzo e ciò è sicuramente condivisibile; almeno nella stragrande maggioranza dei casi.
Cosa e come rispondere, ad esempio, a Nicolaus Fest, eurodeputato tedesco (fino a ieri illustre sconosciuto), che ha inteso esprimere soddisfazione e gioia (1) per la recente scomparsa di David Sassoli, stimatissimo Presidente dell’Europarlamento? L’unica soluzione possibile appare quella di ricorrere a un pietoso silenzio!

Ci sono, però, occasioni in cui tacere è assolutamente inopportuno perché ogni mancata replica potrebbe, addirittura, rappresentare una forma di condivisione; se non di tacita complicità!

Riflettevo su questo rischio dopo aver concluso la lettura di un articolo che, sostanzialmente, potrebbe essere definito “l’elogio della precarietà”. Mi riferisco a quanto recentemente pubblicato (2), da Claudio Negro, sul sito della “Fondazione Anna Kuliscioff”.

In effetti, e in breve sintesi, lo sforzo sostenuto dall’autore dell’articolo tende a affermare la tesi secondo la quale “Il contratto a termine non è sinonimo di precarietà”.

A sostegno del suo convincimento Claudio Negro, sulla scorta dei dati Istat relativi al novembre 2021, riporta il balzo in avanti compiuto dai contratti a termine (+448 mila, rispetto all’anno precedente, ma sostanzialmente in linea – solo +0,1% – con la situazione pre-Covid) e, contemporaneamente, invita i lettori a prendere atto che, probabilmente, “la nozione del posto di lavoro a tempo indeterminato comincia a perdere di significato, con l’implicita aspirazione all’eternità che sottintende”.

Dunque, sempre più rapporti di lavoro a termine, ma non “per bieco interesse delle aziende a sfruttare la mano d’opera senza legarsi le mani”. A sottintendere, quindi, una modalità d’impiego accettata di buon grado dai lavoratori; se non, addirittura, dagli stessi richiesta!

Un’ipotesi questa, cui riservare il già citato “pietoso silenzio”, se ciò non lasciasse interdetto chi appena conosca l’ABC delle modalità attraverso le quali, nel nostro Paese, nel corso degli ultimi 30 anni, è stata condotta una vera e propria “crociata” per smantellare la rete di protezione – legislativa e contrattuale – che garantiva (in particolare) la maggioranza dei lavoratori subordinati, rispetto a scelte unilaterali dei datori di lavoro.

In questo senso, appare superfluo qui ricordare l’ampio fronte schieratosi contro i lavoratori italiani e i loro diritti – legali e contrattuali – in quella che il compianto Luciano Gallino, con lucidissima intuizione, definiva “la lotta di classe dopo la lotta di classe”!

Da Pietro Ichino, alias “Il licenziatore”, con la sua indomita perseveranza nel superare quello che definiva “il dualismo del mercato del lavoro” (tra lavoratori “protetti” e “precari”) non attraverso maggiori tutele per i secondi, ma sottraendole ai c.d. “protetti”, alla Fornero (attraverso la prima, profonda, manomissione dell’art. 18 dello Statuto) e fino a Renzi, con il definitivo stravolgimento della legge 300/70 e la realizzazione (già teorizzata da Pietro Ichino) del c.d. “Contratto a tutele crescenti”.

In questo contesto, non è superfluo rilevare ciò che, in realtà, dicono gli ultimi dati disponibili sull’occupazione in Italia.

Prima di procedere in questo senso, ritengo però opportuno rilevare che, già prima dell’intervento della Fornero sull’art. 18 dello Statuto, si ricorse a una sorta di “lavaggio del cervello” – da parte di “teorici” (ancora e sempre Pietro Ichino) e Associazioni datoriali, in particolare Confindustria – attraverso un martellante e ossessivo ritornello teso ad affermare che rendere più facile l’iter dei licenziamenti individuali avrebbe avuto il magico effetto di agevolare le assunzioni e incrementare così il numero degli occupati.

Stesso ritornello, propinatoci – dagli stessi che mentivano, ben sapendo di mentire – quando si trattò di “somministrare” ai lavoratori italiani un altro farmaco infetto: il famigerato Jobs-act, di renziana memoria.

Anche in quell’occasione, infatti, coloro cui dedicherei una nuova versione della “colonna infame” – al teorico (sempre lo stesso), al confindustriale e al politico di turno – sostenevano, infingardi, che il novello “Contratto a tutele crescenti” avrebbe reso più appetibili le assunzioni a tempo indeterminato e ridotto il già dilagante ricorso ai contratti a termine. Niente di più falso!

Tornando ai dati reali, è molto istruttivo quanto riportato da una recente ricerca dell’AREL, la nota Agenzia di ricerche e legislazione, fondata da Nino Andreatta.

In estrema sintesi, i qualificati ricercatori sostengono (3) che il trend espansivo dei contratti a termine ha motivazioni di carattere ciclico – dipendente dall’andamento altalenante dell’economia e la conseguente elasticità del ciclo economico – ma, contemporaneamente, presenta anche le caratteristiche di un preoccupante carattere strutturale; frutto delle normative che li hanno sostanzialmente liberalizzati, rendendone meno vincolanti i criteri di applicazione.

Tra l’altro, a smentire l’ipotesi cui Claudio Negro sembra voler dare credito, cioè il contratto a termine quale modalità comune e non più eccezionale, al crescente numero di contratti di lavoro a tempo determinato si accompagna un fattore ancora più preoccupante: si tratta di contratti sempre più brevi.

Infatti, secondo i dati diffusi dall’Istat (4) a fine 2021, un contratto a termine su tre non supera il mese, quasi due su tre non superano i 6 mesi mentre meno di 1 su 100 supera l’anno di durata. Il 31,2% delle posizioni lavorative attivate prevedono una durata fino a 30 giorni (il 9,9% un solo giorno), il 31,1% da due a sei mesi e lo 0,6% superiore all’anno. Nel complesso si riscontra un aumento dell’incidenza sul totale delle attivazioni dei contratti di brevissima durata (16,4% fino a una settimana, +2,2 punti in confronto allo stesso trimestre dell’anno precedente), di quelli da sei mesi a un anno (+2,2 punti); nel primo caso l’aumento riguarda soprattutto il comparto di alberghi e ristorazione (+5,1 punti fino a una settimana) e gli altri servizi (+5,7 punti) mentre nel secondo l’industria in senso stretto (+4,2 punti da sei mesi a un anno). Nel settore dell’informazione e comunicazione (che include le attività cinematografiche, televisive ed editoriali) le assunzioni con durata prevista di un solo giorno incidono per il 63,5% e il 20% quelle da due a sette giorni. Negli alberghi e ristorazione circa la metà dei rapporti attivati durano fino a un mese (il 45,3%). Tutto ciò considerato, è paradossale che Claudio Negro teorizzi (e tenti di accreditare) quale reale propensione dei lavoratori – piuttosto che una scelta unilaterale dei datori di lavoro – il sistematico e reiterato ricorso ai rapporti di lavoro a tempo determinato.

In questo senso, anche se è vero che diventa sempre più difficile interpretare il mercato del lavoro del terzo millennio (non secondo, come erroneamente scrive Negro) attraverso le categorie del XX secolo, è altrettanto – inconfutabilmente – vero che, anche nel XXI secolo, il rapporto di lavoro a termine continuerà a rappresentare una condizione di assoluta precarietà, assenza di prospettive in termini di crescita professionale e impossibilità di programmare qualsiasi tipo di futuro: personale, affettivo e, addirittura, familiare!

Allo scopo, consiglierei di leggere “Il costo umano della flessibilità”. Un testo attraverso il quale il mai sufficientemente compianto Luciano Gallino, già oltre vent’anni fa, anticipava quali nefaste conseguenze avrebbe prodotto la flessibilità “numerica” applicata quale sistema di “non ritorno”.

Tra l’altro, per concludere: se è (anche) vero che l’occupazione non può aumentare “per decreto”, è, però, drammaticamente vero che, sin troppo spesso, sono alcune disposizioni di legge a produrre immediati ma effimeri risultati positivi. Subito contrabbandati quali effetti della bontà delle leggi emanate dal governo in carica, ma, in realtà, esclusivo prodotto di una cruda realtà: la naturale predisposizione dei datori di lavoro ad “attingere”, con tempestività, agli incentivi di turno, salvo poi, disfarsi delle scomode “eccedenze”.

Sia sufficiente ricordare gli effetti – subito positivi, ma durati lo spazio di un solo anno – prodotti sull’occupazione dalla Legge di Bilancio 2015.

Infatti, così come riportato dall’AREL, i benefici contributivi legati alle assunzioni – cui scaturì tanto trionfalismo da parte dell’allora governo Renzi – produssero “una vera impennata degli occupati a tempo indeterminato nel corso del 2015, primo periodo di validità degli sgravi, salvo registrare la decelerazione dell’anno successivo, quando gli sgravi furono confermati ma di minore entità”.

Non a caso, la crescita dell’occupazione a tempo indeterminato – seppure con tutte le criticità del nuovo “Contratto a tutele crescenti”, rispetto al vecchio contratto a tempo indeterminato pre Jobs-act – “registrò un brusco arresto nel corso del 2017; in controtendenza con le fasi del ciclo economico”.

Concludo con una domanda. Mi chiedo, e invito il lettore a porsi lo stesso quesito, quali oscuri motivi possano indurre un esperto di mercato del lavoro – e/o chiunque ritenga di potersi considerare tale – a tentare di accreditare il concetto che rapporto di lavoro a tempo determinato possa, in qualsiasi modo, essere destinato a rappresentare, in futuro, la normale modalità di svolgimento dell’attività lavorativa.

La stessa nonchalance, con la quale si affronta la delicata questione, lascia perplessi. Evidentemente, all’esperto di turno, sarebbe opportuno cercare di far comprendere (e, perché no, anche provare di persona) – il senso di frustrazione, di impotenza e vera e propria angoscia cui è, quotidianamente, sottoposto colui che “del domani non ha certezza”.

In questo senso, solo un lavoratore costretto a “sopravvivere” nello stato di perenne precarietà dettata dal susseguirsi di soli rapporti a termine (anche se non necessariamente di breve o brevissima durata), potrebbe cercare di far comprendere al Negro “di turno” cosa significhi l’impossibilità di ottenere un mutuo per l’acquisto di una casa, di contrarre un debito da pagare a rate o la richiesta di un finanziamento per acquistare un’auto!

Cose assolutamente normali, ma, per un lavoratore a termine, destinate a rappresentare l’impossibile.
Senza contare l’ardua ed irrealizzabile impresa di poter minimamente ipotizzare il proprio futuro personale e familiare.
E vengono a raccontarci – dopo la riforma dell’art. 18 e dopo il Jobs Act – che la sempre più ampia diffusione dei contratti a termine non rappresenta un bieco interesse delle aziende reso possibile da norme sempre più permissive e meno garantiste?

NOTE 

1. “Finalmente se n’è andato, questo sporco maiale”. Queste le parole dell’europarlamentare tedesco; figlio di Joachim Fest, autore della principale biografia di Adolf Hitler.
2. In data 12 gennaio 2022.
3. Fonte: “L’esplosione dei contratti a termine:fattori ciclici o strutturali?”. A cura di Dell’Aringa, De Novellis, Barbini e Comegna.
4. Fonte: “L’occupazione cresce, ma i contratti a termine sono sempre più brevi”. Da Redazione Economica di “Avvenire.it”; del 20 dicembre 2021.

(credit foto ANSA / CIRO FUSCO)



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