Cosa si nasconde dietro il falso dilemma tra didattica in presenza e didattica da remoto

Le nobili proteste in difesa della scuola tradizionale sono servite troppo spesso a tessere il velo ideologico che traveste e dissimula le gravi carenze, le disfunzioni e i disagi che da lungo tempo hanno sfigurato il volto della scuola “normale” in presenza.

Fausto Pellecchia

Ad ogni nuova ondata della pandemia da Covid-19 provocata dalla imprevedibile diffusione di nuove varianti virali, al panico per la situazione precaria delle strutture e degli operatori della sanità pubblica, si associano puntualmente gli allarmi per il temuto collasso del nostro sistema educativo, sostituito dalla famigerata DAD (=didattica a distanza), prontamente ribattezzata, con un tocco di opportunismo, didattica digitale integrata (= DDI). Per indorare la pillola, la DDI viene presentata come mero surrogato emergenziale: extrema ratio per supplire all’eventuale sospensione delle attività didattiche in presenza. Tanto basta, tuttavia, per riaccendere nell’opinione pubblica le rituali logomachie sulla insostituibilità della didattica in presenza, supportate dalle massime auctoritates intellettuali del Paese: psicologi, sociologi, filosofi, pedagogisti, docenti universitari hanno lanciato il loro grido d’allarme per la temuta liquidazione della scuola, rimpiazzata dalla relazione virtuale delle tecnologie informatiche. “La scuola – si dice nell’appello firmato all’insorgere della prima ondata dell’epidemia da Massimo Cacciari e da un drappello di 15 intellettuali italiani di fama internazionale – non coincide con lo smanettamento di una tastiera, con la sudditanza a motori di ricerca. Vuol dire anzitutto socialità, in senso orizzontale (fra allievi) e verticale (con i docenti), dinamiche di formazione onnilaterale, crescita intellettuale e morale, maturazione di una coscienza civile e politica” (La Stampa, 18/5/2020). Emblematica delle inquietudini che animavano i firmatari dell’appello è l’accorata apologia della scuola tradizionale di Asor Rosa: “In una classe scolastica persino la pedatina che lo studente appioppa al suo compagno sotto l’ala protettiva del proprio banco, persino l’occhiata dell’insegnante che la percorre da cima a fondo per trasmettere un avvertimento, un suggerimento, un ammonimento, rappresentano materia costitutiva del sapere scolastico, mentre si forma, quando si forma per la possibilità concreta di essere e diventare un sapere”. (Repubblica, 26/6/2020)

Con una più cauta attenuazione dell’enfasi nostalgica, accenti analoghi risuonano nell’intervento di Massimo Recalcati: “Non c’è dubbio che la vita della scuola implica i corpi, l’esistenza di una comunità in presenza. Ed è indubbio che la DAD sia stata una faticosissima supplenza all’impossibilità dell’incontro in presenza. Io non sono un sostenitore della DAD. Ma devo dire che in questo anno tremendo ho imparato ad ammirare lo sforzo di molti insegnanti che l’hanno dovuta utilizzare. Io stesso mi sono cimentato nei miei corsi universitari con questo sistema”. (Repubblica, 8/11/2020)

A queste comprensibili e condivisibili preoccupazioni, che prendono di mira i fondamenti socio-culturali dell’apprendimento scolastico, ha risposto una foltissima schiera di “novatori” ad ogni costo, fautori della modernizzazione della didattica garantita dall’uso sistematico, e non soltanto emergenziale, delle tecnologie multimediali. Per costoro la DDI consentirebbe di gestire, in maniera autonoma e flessibile nei tempi e negli spazi, un insegnamento basato non solo sul metodo trasmissivo di tipo tradizionale ma su un “approccio costruttivista” basato sull’interconnessione delle tecnologie multimediali che hanno di fatto già influenzato, negli ultimi decenni, l’ambito educativo, relazionale, sociale e familiare degli alunni del nuovo millennio. L’innovazione digitale rappresenterebbe dunque per la scuola uno stimolo allo svecchiamento delle metodologie didattiche, offrendo l’opportunità di superare il concetto tradizionale di classe, per creare uno spazio di apprendimento aperto sul mondo, nel quale costruire il senso di cittadinanza e realizzare una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva. Queste istanze di fondo sono state frettolosamente accolte – sotto l’urgenza della crisi pandemica- dal MIUR, senza avvertire la necessità di riconfigurare complessivamentel’intero sistema scolastico italiano, attraverso la predisposizione di schematiche Linee guida per la Didattica digitale integrata, che contengono quasi esclusivamente indicazioni operative e organizzative rivolte ai singoli istituti scolastici.

Ma a ben guardare il permanente dibattito tra “tradizionalisti” e “novatori” sulla DAD in occasione delle ricorrenti ondate pandemiche, ha tutte le sembianze di una controversia ideologica, destinata a distrarre l’attenzione dalle questioni reali e assai poco edificanti che interrogano la funzione, le finalità e l’organizzazione del nostro sistema scolastico. Il dissenso verso la DAD e la DDI che, dalle riserve critiche avanzate dai maîtres à penser “tradizionalisti”, si è presto diffuso nella più vasta platea del mondo della scuola – coinvolgendo insegnanti, dirigenti scolastici, alunni e genitori –, non ci ha risparmiato la resurrezione delle più viete formule della retorica pedagogica: l’insegnamento come “forma di apostolato” e “missione educativa”, la cointeressenza ineliminabile tra l’ideale della formazione e il bisogno relazionale di socializzazione, il cui presupposto è costituito dalla compresenza fisica dei corpi, dalla sincronia dialogica e comunitaria, che si realizza già sempre nella muta dialettica degli sguardi e dei gesti, ecc.

In verità, l’ambiguo luccichìo di queste perle oratorie viene spesso usato per nascondere o camuffare la rude stoffa materiale delle condizioni necessarie a rendere credibile l’attuazione di quel modello ideale. Le nobili proteste in difesa della scuola tradizionale sono servite troppo spesso a tessere il velo ideologico che traveste e dissimula le gravi carenze, le disfunzioni e i disagi che da lungo tempo hanno sfigurato il volto della scuola “normale” in presenza. Sarebbe forse più opportuno riportare finalmente l’attenzione su alcune deficienze reali che giacciono sepolte dall’asprezza delle ricorrenti polemiche sul tema.

1.Per la scuola dell’obbligo, il detonatore sotterraneo delle requisitorie contro la DAD-DDI è costituito dal fatto che la didattica da remoto richiederebbe comunque la presenza e l’attiva sorveglianza domestica dei genitori. Del resto, per lo svolgimento delle lezioni a distanza, è indispensabile un’adeguata attrezzatura di dispositivi elettronici (spesso non sufficienti per espletare simultaneamente le funzioni della DDI, se i figli sono più d’uno o, peggio, per l’eventuale simultaneo smart-working dei familiari adulti) nonché il supporto costante dei genitori nella risoluzione dei problemi di connessione con le piattaforme convenzionate, e nel mantenere i ragazzi concentrati per tutta la durata della lezione, senza cedere ad ogni pretesto per evadere dalla relazione virtuale.

In verità, l’avversione pregiudiziale e largamente condivisa per la didattica da remoto nasconde la concretissima preoccupazione per il possibile venir meno della funzione essenziale, l’unica universalmente riconosciuta alla scuola, ridotta al ruolo di badante a buon mercato per i figli minorenni. Infatti per le famiglie che non possono permettersi una baby sitter, o non dispongono di nonni e parenti prossimi e già pensionati sui quali fare affidamento – i sindacati invocano giustamente il diritto allo smart working, ai congedi parentali e/o il voucher baby sitter, che il mondo imprenditoriale e la pubblica amministrazione, all’unisono, considerano alla stregua di eversive minacce di sabotaggio per la ripresa economica del Paese.

2. A parte le generiche linee guida del Piano scolastico ufficializzate dal MIUR nello scorso anno, limitatamente alle scuole secondarie di secondo grado, per gli alunni dall’infanzia alla secondaria di primo grado non è infatti prevista, in alternativa alla deprecabile, forzosa sospensione delle attività, alcuna misura di didattica integrata. L’aggiornamento della formazione dei docenti e del personale assistente tecnico è interamente delegato alle singole istituzioni scolastiche, in assenza di qualsiasi programma specifico di promozione e/o di valorizzazione dell’insegnamento multimediale, anche nella forma minimalista dei “premi di produzione” per la docenza.

È facile prevedere che nell’ormai consueto contesto di precarietà gestionale della scuola in presenza, l’insegnante continuerà a ricoprire essenzialmente il ruolo del “badante” o di un “sorvegliante”: un semplice tutore che, anziché, dedicarsi alla formazione e all’apprendimento dei ragazzi, dovrà sostenerli e aiutarli nelle azioni più elementari del vivere quotidiano. Del resto, al di là delle fumose giaculatorie sulla “missione” educativa, lo stipendio medio netto di un docente di scuola primaria, è sostanzialmente paragonabile a quello di un badante o di una colf, con un assegno mensile di circa 1.300 euro, percepiti dopo un titolo di laurea magistrale e il superamento di un concorso.

Pertanto, nonostante il finanziamento della scuola pubblica previsto dalla legge di bilancio del 2022 (in gran parte riferibile all’edilizia scolastica e alla dotazione delle attrezzature multimediali) mostri un significativo incremento in termini assoluti, l’aumento degli investimenti resta comunque troppo basso rispetto agli standard europei. Dietro la corale, soporifera cantilena sulla “centralità” della scuola e dell’istruzione per le “future sorti e progressive” del nostro Paese, la realtà dei dati macroeconomici proietta piuttosto la conferma della sua perdurante marginalità. L’Italia è infatti il Paese europeo che, in percentuale rispetto alla propria spesa pubblica, investe meno in “educazione”, una categoria che comprende la scuola dell’obbligo, l’università, servizi sussidiari all’educazione e altri tipi di formazione. L’Italia destina l’8,0% della propria spesa pubblica in questo campo, posizionandosi all’ultimo posto della classifica dopo la Grecia (8,3%). La media Europea è del 10,0%. Paesi come la Svizzera e l’Islanda doppiano le nostre cifre, assestandosi intorno al 16%. Altri grandi Paesi europei comparabili con l’Italia hanno tutti percentuali nettamente più alte: 9,6% la Germania, 9,5% la Spagna e la Francia. Secondo i dati disponibili più recenti, l’Italia ha devoluto per l’istruzione 70 miliardi di euro, rispetto ai 122 del Regno Unito e ai 128 della Francia, Paesi con una popolazione di poco maggiore della nostra.

Questo il desolante scenario della scuola italiana, che il falso dilemma tra tradizione e innovazione tende a rimuovere e ad allontare. I veri problemi della snostra scuola restano perciò inascoltati, sepolti dall’inconcludente dissonanza alimentata sia dai trepidanti appelli al sostanziale ripristino dei modelli novecenteschi (gentiliani o gramsciani), sia dai futuristici proclami inneggianti, nella neolingua anglofona del pedagogismo d’avanguardia, al lifelonglearning attraverso le metodologie promosse da un project management basato sul blended learning o hybrid learning , virtualmente accreditato della capacità di trasformare ogni crisi sistemica in nuova opportunità.

 

(credit foto ANSA/ ANDREA FASANI)



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