“Fare nomi”. Intervista a Nunzio La Fauci

Il linguista La Fauci racconta a MicroMega il suo libro sul “nome proprio e quanto gli si correla”.

Redazione

Il suo Fare nomi è da poco in libreria, pubblicato da Bompiani, nella collana Campo Aperto diretta da Stefano Bartezzaghi. Sono trecento pagine che si aprono sulla Giulietta di Shakespeare e si chiudono sull’Adamo della Bibbia…
Beh, a dirla così… un libro che mena il can per l’aia. E forse è vero, non nelle intenzioni dell’autore, però. Nelle mie intenzioni è un libro con un tema preciso: il nome proprio e quanto gli si correla. Lo affronta prendendo di mira la lingua: cosa, altrimenti? A prendere di mira la lingua, si fanno gli incontri più vari: non solo Giulietta e Adamo, ma Odisseo, Dorian Gray, Alessandro Del Piero, Pier Paolo Pasolini, la Monaca di Monza, Narciso, Berlusconi, Virgilio, Cosa nostra. Persino Dio… E si frequentano luoghi in quantità e non tutti salubri: Racalmuto, l’antro di Polifemo, Auschwitz, casa Levi e poi Ginzburg, Mosca, il Westfalenstadion di Dortmund, Roma, Praga, Venezia, Palermo, York… Di passaggio, persino Blufi.

Blufi? E dov’è? Ma non importa. Un libro di linguistica, allora.
Sì. Di una linguistica che guarda alla lingua “en elle même et par elle même”, in se stessa e per se stessa. In conclusione del Cours de linguistique générale, i curatori misero sulle labbra di Ferdinand de Saussure parole che egli forse non proferì mai, ma che si attagliano alla perfezione al suo magistero. Se si vuole capire come funziona la lingua, non lasciarsi distrarre da tutto quello che la lingua tocca e organizza del mondo. Farci i conti, ovviamente, ma solo a partire dal momento in cui si comincia a intendere il funzionamento della lingua, sopra qualsivoglia tema. A procedere così, quei conti vengono peraltro sempre molto più accurati.

Un libro per specialisti…
Un libro per curiosi della lingua, piuttosto, dove i tecnicismi sono limitati al minimo indispensabile. In Fare nomi, è la lingua a parlare di se stessa. Niente può farlo meglio. Nessuna grammatica, antica o moderna, tradizionale o innovativa. Ecco il perché della presenza di Giulietta, di Adamo e di molti altri. A parlare, sono i testi che li hanno come personaggi. Nella lingua c’è sempre tutta l’informazione che consente di capirne il funzionamento. Basta che ci si faccia attenzione. Come ci fanno la massima attenzione i piccoli esseri umani non appena vedono la luce, anzi già prima di vedere la luce, perché stanno già in ascolto. Al linguista o, forse meglio, visto che la qualificazione è ormai molto abusata, a chi ha curiosità per la lingua conviene restare bambino.

E il nome proprio? Ha detto che tema del libro è il nome proprio.
Un misterioso garbuglio, collocato in un oscuro vicolo cieco. Fra gatti che, di nomi propri, ne hanno tre, di cui uno solo a essi noto. Un dio che avrà pure un nome proprio, ma ha messo la massima cura nel non rivelarlo ai credenti, costringendoli a servirsi di una panoplia di perifrasi e di antonomasie per menzioni e invocazioni. Al contrario, diavoli e malanni in quantità, molti forniti di nomi propri che basta sussurrare, per vederne apparire la coda. E poi filosofi e pensatori che, quando è questione del nome, litigano sui modi del riferimento e sopra ogni cruciale e connessa questione. E che dire di maghi e fattucchiere? Per avere in possesso una persona, pretendono basti conoscerne il nome. Ci sono poi genitrici e genitori, ormai in numero ridotto, come si sa, ma sempre a caccia di un nome da dare alla prole: originale e alla moda, bel paradosso. E infine gente d’ogni genere, età, gruppo etnico ed estrazione, attratta dal fascino etimologico dell’etimo, che, quando pensa ai nomi propri, si chiede anzitutto cosa significano il proprio o l’altrui, donde vengono e cosa svelano. Ecco, appunto. Con tutto ciò, Fare nomi non ha nulla da spartire.

E allora? In qual senso un libro sul nome proprio?
Fare nomi svicola e gira l’angolo del mistero. Così incontra problemi, futili, se si vuole, ma abbordabili da una prospettiva linguistica. È la prospettiva che vede nascere il nome proprio. Lo coglie nello stato nascente, nel momento in cui un’espressione acquista la funzione di denominare. È la funzione propria del nome proprio. E la sua sintassi è trasparente nel processo che, fin dall’antichità, è stato denominato antonomasia e considerato una semplice figura retorica.

Vede? Ecco i tecnicismi.
Saranno tecnicismi, ma quotidiani. Di quelli che si apre oggi un giornale o si ascolta un notiziario e se ne trova a bizzeffe: il Colle, il Cavaliere o l’ex-Cavaliere, el Pibe de oro  tutte denominazioni. Fatta la tara delle bellurie, equivalgono a nomi propri. Antonomasie di cui è tessuta la storia del Bel paese. Se ne ricorda, no? Così il Sommo poeta chiamò l’Italia, per lui (e, sulla sua scia, per chi le parla) una nazione linguistica. Un paese che non si è mai fatto mancare le denominazioni per antonomasia. Nomi comuni che si fanno propri, si dice: il Duce e la Resistenza, il Migliore e il Campionissimo, l’Eroe dei due mondi e il Re buono, il Vate e la Divina, la Tigre di Cremona e il Codino, la Vecchia Signora e il Diavolo, la Città eterna e la Capitale morale… Ecco come si fanno nomi senza fare i nomi.

Questo è vero.
Se, aprendo Fare nomi, va oltre l’esordio shakespeariano (“What’s in a name?”, si chiede appunto Giulietta: cosa c’è mai in un nome da impedirle di avere il suo Romeo), trova una decina di pagine che tracciano centocinquanta anni di storia italiana attraverso antonomasie che sono state e talvolta sono ancora correnti nel discorso pubblico. Non spetta a me dire se sono pagine spassose. Ma sono certamente documentarie e possono fare riflettere chi è curioso di storia patria e di lingua.

E nel séguito di Fare nomi cosa c’è?
C’è l’osservazione del modo con cui  la lingua produce espressioni atte a denominare e di cosa comporta, in termini di sistema, che un’espressione diventi atta a denominare. C’è poi l’illustrazione del processo inverso. Quello grazie al quale un’espressione smette di denominare e passa a descrivere, a qualificare. È quanto permette per esempio di dire di un attuale protagonista della scena politica mondiale che rischia di passare alla storia come un Hitler. Nel libro si parla poi del luogo comune: fare un nome proprio (o un’espressione equivalente) è produrre un luogo comune. Disfare un nome proprio è rendere il correlato luogo comune tanto perfetto da non parere più tale: dedalo, babele… E vi si parla dei meccanismi con cui, dai nomi propri e dai connessi luoghi comuni, la lingua trae verbi. Da Coventry, nome della città inglese bombardata a tappeto dalla Luftwaffe sul principio della Seconda guerra mondiale, pare sia stato proprio Joseph Goebbels a trarre un tragico e minaccioso coventrieren (in Italia, i giornali del regime lo resero con coventrizzare). Passa poco e “Das Verbum coventrieren liegt begraben unter dem Schutt deutscher Städte” (‘Il verbo coventrieren giace sepolto sotto le macerie delle città tedesche’), scrive Viktor Klemperer nel suo LTI. Oggi i dizionari tedeschi non ne menzionano l’esistenza.

Temi impegnativi, dai risvolti tragici.
Ma in Fare nomi trova anche cose più leggere: odierni andazzi onomastici. Sua nonna, forse ancora sua madre, poteva chiamarsi Elisabetta e, fosse stato cosi, a casa e per gli amici sarebbe stata Betta, per vezzeggiativo. Ora, una sua coetanea o sua figlia, caso mai facesse Elisabetta all’anagrafe, sarebbe Eli sulle sue labbra e su quelle della sua compagnia. Non mi dica che non ci ha fatto caso. Tutto rigorosamente, come se qualcuno avesse dato l’ordine di cambiare i vezzeggiativi del Bel paese e tutti avessero ubbidito. Aveva ragione Roland Barthes a dire che la lingua è per sua natura “fascista”? Forse la questione era mal posta da parte sua, ma certo, quanto a questo e ad altri andazzi, c’è da chiedersi come e perché. Cosa è successo, cosa sta succedendo al patrimonio onomastico della nazione, ribadisco, linguistica? Da dove parte questo ribaltamento? Ci sono stati segnali premonitori? E guardi, come professore rientrato ormai da più di un lustro in Italia ma molto presto in quiescenza, mi sono accostumato al prof che mi lanciano studenti e studentesse, anche come appello: “Prof, ci spiega di nuovo il fonema?”. Fuori d’Italia non mi succedeva; nel Bel paese pare vada così da un paio di decenni. Mi fossi rivolto con un prof ai miei docenti non dico dell’università, ma anche solo del liceo, la mia carriera di studi sarebbe stata probabilmente meno fortunata; difficilmente sarei stato qui con lei a discutere di Fare nomi. Con il nome, muta la figura: un o una prof, come intende, è cosa diversa da un professore o una professoressa. Magari è un cambiamento per il meglio.

Certamente è per il meglio.



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