L'articolo Tra memoria e attivismo, la società civile tedesca contro il dilagare dell’estrema destra proviene da Micromega.
]]>Fra le poche buone notizie degli ultimi mesi c’è l’ondata di proteste contro l’estrema destra che, da oltre un mese a questa parte, sta investendo tutta la Germania, dalle metropoli alla provincia, dall’ovest all’est postcomunista, e che pare ancora lontano dall’esaurirsi. Alcuni milioni di persone, di ogni origine, età e estrazione sociale, sono scese in strada in centinaia di manifestazioni spesso spontanee che, seppure non nuove – è almeno dalla crisi dei migranti del 2015 che ricorrono con periodica frequenza – stanno dimostrando, assai più di un governo in crisi di identità e consensi, che la società tedesca non è disposta a piegarsi al minaccia dei suprematisti etnici affini a Putin, Trump e al governo di Roma.
Fondamentale è però comprendere come questa ondata di proteste non nasca dal nulla. Sua origine e nutrimento sono una miriade di iniziative della società civile che, negli ultimissimi decenni, hanno cambiato il volto del Paese e la sua cultura, partendo dal basso. Certo, la forza di queste proteste è anche la sua debolezza, ovvero la mancanza di coordinamento e la lontananza dai partiti; ma è anche giusto ricordare – e lo sappiamo bene in Italia – che è impossibile immaginare una cultura di sinistra capace di vincere e convincere senza un radicamento che investa l’intero tessuto sociale.
Partendo dal territorio dove vivo e lavoro da ormai un decennio, ovvero Stoccarda e il Sud-Ovest tedesco, vorrei raccontare la battaglia che tanti attivisti stanno portando avanti negli ultimi anni per la memoria (o meglio, le memorie al plurale) sul corpo stesso della città. Perché sì, trattandosi della Germania, la questione della memoria è sempre al centro della politica – pur non senza errori e contraddizioni, come anche di recente, rispetto alla questione israelo-palestinese.
Se non è vero, come mi è capitato di leggere in Italia, che ai sostenitori della Palestina sia impedito di manifestare in Germania – ho assistito io stesso, fra le tante, a due manifestazioni assai partecipate e pacifiche a Stoccarda – è innegabile però che la politica e il mondo della cultura tedesca, dalla Fiera del Libro di Francoforte alla recente Berlinale, abbiano dato segni grotteschi di censura nei confronti di una legittima espressione di denuncia per i crimini di guerra compiuti dal governo Israeliano.
Una situazione di silenzio imposto che lamentano in molti, dal mondo della scuola a quello della cultura, e che può essere spiegato solo in parte dal clima di paura che denunciano le associazioni ebraiche tedesche dopo il 7 ottobre. Gli atti di antisemitismo si moltiplicano, e non mancano istituzioni – come mi è capitato di constatare di persona – che non li denunciano per non alimentare ulteriormente il clima di diffidenza nei confronti dei palestinesi e delle comunità musulmane.
L’estrema destra tedesca sta scommettendo tutto su quello che definisce un “antisemitismo migratorio” o “di importazione”, l’unico – a loro avviso – presente nella Germania di oggi. Se è innegabile che anche questo esista, al di là dalle categorizzazioni linguisticamente problematiche, la falsificazione al centro di questa operazione è lampante. Che poi, al contrario, vi siano sovrapposizioni fra questi due mondi, come nel caso dei Lupi grigi turchi – il maggior gruppo di estrema destra oggi in Germania, statistiche federali alla mano – è ugualmente innegabile.
Quello che sfugge a tante critiche spesso affrettate, però, è quanto questo clima sia il frutto di un percorso radicato e strutturale – e come il timore diffuso sia che una sua rimessa in discussione anche parziale possa corrispondere a un ritorno al passato, a un trionfo dell’estrema destra paragonabile a quello italiano. Qualcosa di assai rigido, certo, anche se in molti casi dettato da buone intenzioni. Credo quia absurdum diceva Nietzsche essere l’essenza dello spirito tedesco. Il supporto senza condizioni di Berlino all’avventura bellica di Netanyahu non sembra lontano da tale contraddizione.
Stoccarda, dunque. Una città di 636mila abitanti, di cui quasi la metà con un retroterra di migrazione, ma che con l’hinterland arriva a superare i 2,8 milioni di popolazione. Bosch, Mercedes, Porsche e Ritter Sport hanno tutte sede qui – ma importante è ricordare che è anche la città del filosofo Hegel, mentre Schiller, Hölderlin, Hermann Hesse sono tutti nati a pochi chilometri da qui. Una città di forte tradizione riformata e pietistica, non senza un influsso calvinista, che sembra fatta apposta per illustrare la tesi di Max Weber sulle origini del capitalismo.
Già caposaldo della destra liberale della Cdu nel dopoguerra, si è trasformata – anche grazie alla trentennale protesta contro Stuttgart 21, il più grande progetto infrastrutturale oggi in cantiere in Germania – in uno dei centri nevralgici della politica verde nel Paese. Di Stoccarda è il ministro dell’agricoltura Cem Özdemir, di origine turca, già alla guida dei Grünen per un decennio, e dello stesso partito – caso unico in Germania – è anche Winfried Kretschmann, il governatore del Land di cui Stoccarda è capoluogo, il Baden-Württemberg.
A pochi chilometri da Stoccarda c’è la cittadina di Leonberg, dove si trova un capo di concentramento in funzione dal 1944 al ’45 in cui furono deportati anche alcune decine di italiani. Mi racconta un’amica, nata e cresciuta a poche centinaia di metri da lì, come fino agli anni Novanta ne ignorasse del tutto l’esistenza. Nessuno ne parlava, neppure i più anziani – come nulla fosse mai avvenuto. Oggi è un fiorire di iniziative – visite guidate, progetti didattici, pubblicazioni, persino un film – legate a un’associazione di cittadini che si battono per la memoria.
Per chi, come me, è quarantenne, e a maggior ragione per i più giovani, è difficile immaginare cosa fosse la Germania del secondo dopoguerra. Oggi la memorializzazione della Shoah e dei crimini del nazionalsocialismo è ovunque, dalle strade ai banchi di scuola. Ma ben diverso è stato il lento risveglio, fitto di omertà e omissioni, che ha riguardato la Repubblica federale dopo le macerie del nazismo.
Un percorso accidentato e difficile, che va dalla questione della colpa (Schuldfrage) sollevata dal filosofo Karl Jaspers, al Sessantotto tedesco, che proprio sulle continuità fra nazionalsocialismo e potere economico e politico fece uno dei fulcri della sua protesta, al gesto del cancelliere Willy Brandt in ginocchio di fronte al monumento dedicato alla rivolta del ghetto a Varsavia. Ma, come ci spiega Günther Anders in quel capolavoro che è Dopo Holocaust 1979, edito in Italia da Bollati Boringhieri, la svolta, almeno da un punto di vista della diffusione popolare, fu un’altra, e ancor più tardiva.
Se fino ancora agli anni Settanta la memoria dei crimini del nazismo riguardava in modo quasi esclusivo intellettuali, studenti e una parte della classe dirigente – ci racconta il filosofo Anders in un diario che è una riflessione straordinaria sulla natura umana, oltre che sulla storia tedesca – fu un telefilm con Meryl Streep, intitolato Holocaust appunto, a decretare il risveglio definitivo di una popolazione tedesca che, con la scusa della ricostruzione, della guerra fredda e del boom economico, aveva fatto di tutto per non affrontare la pagina più oscura della sua storia. Come annota il filosofo: “Solo attraverso la finzione, solo attraverso i casi singoli, l’accaduto e l’innumerabile possono essere resi perspicui e rammemorabili. Ed è quanto è accaduto nel film”.
Diversa, ma certo non meno ambigua, fu la relazione fra la Repubblica democratica tedesca e i crimini del nazifascismo. Basti pensare – per limitarmi a un’immagine, in un discorso assai più complesso, naturalmente – a come il campo di Buchenwald, nella seconda metà degli anni Quaranta, fu usato ancora per imprigionarvi gli oppositori del regime comunista per poi essere in parte demolito, quasi a volerne cancellare le tracce. Ma torniamo a noi.
Complice anche un ricambio generazionale, la svolta a partire da allora fu straordinaria. Poco e male si riflette su come un tale cambiamento – radicale e diffuso – sia purtroppo un unicum, se si pensa a un secolo ed oltre di negazionismo che investe la Turchia, erede dell’Impero ottomano, rispetto al genocidio armeno, o alla Russia che ricade di nuovo e sempre nel suo passato di sangue; ma anche al disastro (come altro definirlo?) che negli ultimi anni sta investendo l’Italia, fra revisionismo e qualunquismo.
Un fiorire di iniziative, dunque, tanto a livello locale che nazionale. La più nota, forse, perché importata anche in Italia, è quella delle pietre d’inciampo, nata grazie all’artista berlinese Gunter Demnig. L’intero Paese ne è pieno. Nel maggio 2023 Deming, instancabile viaggiatore, ha annunciato di aver posto la sua centomillesima pietra d’inciampo a Norimberga, dove si trova peraltro uno bellissimo museo multimediale che ricorda il celebre processo.
Fuori dall’ordinario, anche perché nato da un’iniziativa popolare di cittadini e attivisti, è la storia dell’Hotel Silber, il quartier generale della Gestapo che doveva essere abbattuto per far nascere un centro commerciale di lusso. Ne è nato invece, nel 2018, un museo della memoria che ospita mostre ed eventi che affrontano raccontano dei carnefici e delle loro vittime, con una notevole cura e attenzione riservata anche ai Rom e Sinti che qui furono perseguitati.
Questi ultimi sono stati al centro di diverse iniziative portate avanti dagli attivisti dell’Hotel Silber che hanno coinvolto i membri di questa minoranza, di cui spesso dimentichiamo la persecuzione e la cui memoria pare quasi non aver dignità di menzione. Nella vicina Tubinga, sede di una delle università più prestigiose della Germania, troviamo una targa dedicata allo sterminio di Rom e Sinti in pieno centro, di fronte alla Stiftskirche.
Sempre grazie agli attivisti locali, nel 2020 sono stati celebrati i 110 anni dalla nascita di Gerda Taro, figura straordinaria di fotografa e combattente per la libertà nata a Stoccarda e immortalata, fra l’altro, da Helena Janeczek nel libro La ragazza con la Leica. Una piazza e un recente monumento, ricco di pannelli informativi, la ricordano qui a Stoccarda.
Una piazza, sempre nel capoluogo Baden-Württemberg, sarà finalmente dedicata anche a un’altra figura locale di rilevanza internazionale, Joseph Süß Oppenheimer – cui in precedenza era dedicata solo una via. Qui è in cantiere un progetto di memorializzazione, per ricordare uno degli episodi più terribili e simbolici della storia della città: l’esecuzione di Joseph Süß Oppenheimer, noto come Jud Süß, un macabro spettacolo a cui assistettero migliaia di spettatori a Stoccarda nel 1738. Un uccisione di Stato che concluse in modo inglorioso un processo penale caratterizzato dal risentimento antiebraico e che, non a caso, sarà al centro dal più noto (e orribile) film del nazismo.
La piazza e la sua memorializzazione sono avvenute anche grazie all’impegno della Fondazione Geißstraße 7, nata – sempre per iniziativa popolare – sul luogo stesso di un attacco contro migranti. Qui un incendio doloso, il 16 marzo 1994, uccise sette persone mentre sedici rimasero ferite in quello che fu il peggior incendio a Stoccarda dalla seconda guerra mondiale. Oggi il programma culturale della fondazione comprende conferenze, letture e discussioni su temi attuali, politici e non solo. Oltre al suo lavoro culturale, la Fondazione fornisce appartamenti temporanei a persone che hanno bisogno di un alloggio.
Sarebbero molte le storie da raccontare, come anche i progetti di valorizzazione della memoria del colonialismo tedesco e dei suoi crimini, cui molti sforzi sono stati dedicati negli ultimi anni dopo un lungo oblio. Scrivendo per un pubblico italiano, non si può però omettere il legame fra Stoccarda e Sant’Anna di Stazzema, nato ancora una volta da un’iniziativa di cittadini e attivisti che hanno saputo organizzarsi e agire.
Era il 2012 quando un gruppo di loro decise di recarsi lì sull’onda dello sdegno, subito dopo che la procura di Stoccarda, nella persona di Bernhard Häußler, aveva di deciso di archiviare il caso: estradizione rifiutata, nonostante la condanna in contumacia arrivata a La Spezia nel 2005 per i dieci membri delle SS responsabili del massacro di Sant’Anna. Dopo quel primo viaggio, un gruppo di cittadini si assunse la responsabilità di arrivare là dove non erano giunti la giustizia e la politica del loro Paese, di non dimenticare le colpe del passato e costruire un ponte verso Sant’Anna e l’Italia. Ne nasce un impegno che arriva fino ad oggi, e che porta alla nascita di molte pubblicazioni e progetti.
Uno di questi, il Campo della Pace/Friedenscamp, inaugurato nel 2017, raccoglie ogni estate a Sant’Anna molti giovani italiani e tedeschi, uniti a partire dalla memoria. Enio Mancini e Enrico Pieri, due dei sopravvissuti al massacro, hanno ricevuto nel 2013 il Premio della Pace dalla città di Stoccarda e vengono invitati in Germania, nel Paese che li aveva doppiamente feriti: prima con il massacro delle loro famiglie e di tutto il villaggio, e quindi con il disconoscimento di una verità giudiziaria che avrebbe potuto lenire, almeno in parte, le antiche ferite.
In una bella giornata di sole, a Stoccarda diecimila persone hanno attraversato tutta la città per protestare contro il pericolo dell’estrema destra e contro il razzismo. Ero insieme a loro. C’erano simboli di diversi partiti, di associazioni e chiese, e anche bandiere palestinesi. Un rituale che si ripete ogni settimana ormai, ma che continua a raccogliere adesioni, partecipazione, impegno da parte di più generazioni e da persone con idee politiche anche molto diverse. Difficile dire se sarà l’inizio di qualcosa di grande, forse anche capace di fermare la deriva nera del nostro continente, o solo un canto del cigno di una stagione straordinaria, che ci ha dimostrato come la memoria possa essere non solo un orpello da esibire in pubblico, ma un cardine del nostro presente.
CREDITI FOTO: EPA/FILIP SINGER
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]]>È il 27 marzo del 1924, cent’anni adesso, quando Sarah Vaughan nasce a Newark, nel New Jersey. La ascolto dal vivo per una pausa universitaria in un concerto a Siracusa, nel 1988. Ne vengo fuori estasiato. Non è solo per quella spaventosa estensione vocale, – lei parla di quattro ottave, “forse sono cinque”, dichiara – per l’innata possibilità di cantare in modo diverso ogni volta i pezzi che esegue, cambiando impostazione, improvvisando sempre nel modo giusto, ma anche per la capacità unica di tenere il palco, con un magnetismo che cattura. Pare giochi, ammicchi al pubblico per poi farsene gioco divertita un paio di minuti dopo. Sarah Vaughan è una cantante che non può avere eredi, è troppo semplicemente Sarah Vaughan. A quel concerto vado non solo per sentirla, voglio vedere quella donna così “altra”, voglio capire se si merita il soprannome di “Sass”, l’impertinente, che le hanno appiccicato addosso, oltre a quello di “Divina”. Mi capita, un po’ prima, di leggere il resoconto d’un suo concerto a Dusseldorf. Sta cantando i versi di Karol Wojtila messi in musica jazz da un gruppo di grandi del mestiere. In platea ad ascoltarla c’è un alto prelato, ha pure il cappellino porpora d’ordinanza. Lei si fa il segno della croce, non nasconde troppo il gioco, scatena le risa del pubblico con un “pregate per me”. Dal vivo Sarah pare il centro dell’universo, intorno non c’è altro che non sia lei e la sua voce. Certi virtuosismi sono l’espressione più tipica della sua personalità, d’una carriera straordinaria. Compete con i fiati di Gillespie, di Charlie Parker per come trascina fuori dai binari dell’ascolto consueto, per come indica la necessità di esplorare una possibilità altra, quella che racconta che ce n’è ancora una più in là.
Comincia in modo abbastanza tipico per le donne del jazz della sua generazione, in una modesta famiglia di afroamericani dell’America profonda. Sua madre è una lavandaia, canta nel coro della chiesa, suo padre fa il falegname ed anche lui ha la passione per la musica, suona la chitarra, il piano. È l’ambiente giusto, Sarah comincia a strimpellare il piano a soli tre anni e se ne palesa subito il talento. Il palco più vicino è quello della chiesa, fa la solista nel coro, suona l’organo. Ma è irrequieta, quella roba non le basta. Ascolta la radio, si appassiona alla musica popolare e comincia a frequentare i locali della sua città, si esibisce lì in modo non troppo lecito. È la sua strada, quella che a soli quindici anni le fa abbandonare la scuola per dedicarsi a ciò che sa fare meglio.
È ambiziosa e parte per la grande città. Al mitico Apollo Theatre di Harlem, tempio indiscusso della musica, c’è un concorso canoro. Quasi dieci anni prima debutta proprio lì Ella Fitzgerald, la regina indiscussa del Jazz, che dovrà dividere il suo trono proprio con Sarah, in un dualismo emozionante che dura per un bel po’ tirando dentro anche la più anziana Billie Holiday. Sarah ha solo diciotto anni, si iscrive al concorso e canta Body and Soul. Si prende dei rischi, sta sul trapezio del circo più prestigioso senza rete, quello è un brano che hanno fatto proprio gente come Louis Armstrong, Paul Whiteman, Benny Goodman, Coleman Hawkins. Ma l’impertinente, irriverente Sarah vince. Ad ascoltarla c’è Billy Eckstine che canta con l’orchestra di Earl “Fatha” Hines. È proprio lui che suggerisce ad Hines di prenderla come seconda cantante, se occorre anche per suonare il piano. Da quelle parti ci sono un altro paio di ragazzi interessanti che si muovono nel bop, si chiamano Dizzy Gillespie e Charlie Parker. Quando Eckstine forma la sua orchestra li porta con sé tutti e tre. Un paio di anni dopo Sarah lascia l’orchestra per intraprendere una carriera di successo da solista. Ma il legame con Eckstine non si rompe mai, per Sarah è una sorta di padre, “il mio sangue”, dice di lui, lui che le sta vicino, l’aiuta a superare le ansie e le fragilità di quell’altra sé, le sue paure dissimulate nelle istrioniche presenze sceniche sul palco.
Nel ’47 si sposa con George Treadwell, un trombettista piuttosto attivo che collabora, tra gli altri con Budd Johnson. George diventa il suo manager, si occupa di lei, della sua musica, anche del suo look, lo trasforma dagli abiti alla pettinatura, persino le fa applicare una corona protesica per chiuderle il diastema tra i due incisivi. Comincia a far parlare di sé, fa conoscere al mondo la versatilità di un’artista che sa cos’è il bebop, ne armeggia sapientemente la tecnica, ne conosce l’essenza, ma non si priva di dedicarsi alla musica più commerciale. Porta al successo brani mitici come Tenderly, It’s Magic, Nature Boy che registra con la sua sola voce accompagnata da un coro a cappella perchè i musicisti in quel momento sono in sciopero.
Negli anni a seguire continua a fare Jazz, lavora con Charlie Parker, Miles Davis, Kenny Clarke, Cannonball Adderley, una delle registrazioni più significative della sua storia artistica la produce con Clifford Brown, l’apripista dell’Hard Bop. Si esprime in territori sempre più vasti, esegue ancora classici come Misty, Broken-Hearted Melody, con Eckstine canta in duetto in Irving Berlin Songbook e con Passing Strangers mette sul piatto uno dei duetti uomo donna tra i più memorabili di sempre.
Si ritrova a fianco di giganti del Pop americano come Quincy Jones, Lalo Schifrin, Benny Carter, e canta la Bossa Nova come non avesse fatto altro per tutta una vita. Trova il tempo per sposarsi altre due volte, con un giocatore di football, Clyde Atkins e con Marshall Fisher, pure per partecipare al film Sindacato assassini. Se ne va nell’aprile del 1990 dopo una malattia che non le ha dato scampo. Con lei è andato via un pezzo di storia del Jazz, di quella della musica. Rimangono le sue canzoni, quel modo “impertinente” di rivendicare quanto fosse la più brava, “Sass”, Divina.
CREDITI FOTO: CREATIVE COMMONS / Los Angeles Times / Aurelio Jose Barrera
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]]>Il massacro compiuto a Mosca ha indignato anche l’Occidente che è tornato alla memoria del Bataclan: i terroristi della strage alla Circus City Hall, luogo simbolo della Russia modernizzata, hanno ucciso oltre 130 vittime civili, coinvolgendo famiglie inermi con giovani e bambini innocenti. L’Isis-K, Stato Islamico del Khorasan, ha rivendicato l’attacco contro il “raduno di cristiani russi”, ma l’attentato è stato subito posto in relazione con il conflitto in Ucraina. I servizi di sicurezza dell’Fsb nel dare la notizia dell’arresto dei sospettati hanno indicato di averli trovati con passaporti tagiki nella regione di Bryansk, prossima al confine ucraino. Putin ha dichiarato che i terroristi hanno agito “come i nazisti” – come tutti sanno è l’appellativo con cui etichetta Zelensky e gli ucraini che resistono – e che in Ucraina “era pronto un varco” per esfiltrarli. Siamo alle reciproche accuse di false flag: Kiev ha smentito ogni collegamento con l’atto terroristico e denuncia che sia stato orchestrato dal deep state russo per giustificare una reazione estrema contro l’Ucraina; gli Usa confermano l’estraneità degli ucraini e ricordano che la Russia era stata avvertita del rischio di attentati dell’Isis, annuncio al quale i russi avevano replicato imputando agli Usa una forma “ricatto”, quasi a ribadire anche stavolta che dietro i movimenti terroristi globali ci sia comunque la mano americana. La linea che emerge con chiarezza da Mosca è quella di alimentare la tesi che i terroristi hanno avuto mandanti o appoggi nei servizi ucraini e in quelli occidentali. D’altro canto non è una logica estranea alla Russia, che insieme all’Iran indirizza l’arma del terrorismo del c.d. “Asse della Resistenza”, la rete jihadista che dopo i fatti di Gaza si è rivolta contro israeliani e americani e vede uniti Hezbollah libanesi, milizie irachene e siriane, Hamas e Houthi yemeniti.
La Russia farebbe meglio invece a concentrarsi sulla minaccia reale dell’Isis-K. I segnali di allerta c’erano tutti: il 3 marzo in Inguscezia sei terroristi dell’Isis-K sono stati uccisi dall’antiterrorismo russo e già allora si era parlato di un progetto di attentati a Mosca. L’Isis del Khorasan guidato da Sanaullah Ghafari, alias Shahab al-Muhajir, vuole imporsi come attore destabilizzante nei principali teatri di crisi: ha compiuto l’attentato all’aeroporto di Kabul del 26 agosto 2021 in occasione del ritiro americano dall’Afghanistan concordato con i talebani, e nel gennaio scorso con la strage di Kerman ha colpito l’Iran sciita in pieno scontro con gli Usa e Israele dopo l’aggressione di Hamas. Il programma dell’Isis-K è divulgato sulla Voice of Khorasan: la Russia è considerata alla pari degli Stati Uniti nel “mondo infedele”, alleata dei talebani e del siriano Assad nemici dell’Isis, mentre la guerra in Ucraina è un dono di Allah perché “finalmente non riguarda i musulmani della Cecenia, né dell’Afghanistan né della Siria, ma i residenti delle pacifiche terre d’Europa”.
L’Isis-K vuole un Califfato che comprenda i territori di Afghanistan, Pakistan e Iran, delle repubbliche ex-sovietiche Turkmenistan, Tagikistan, Uzbekistan, Kazakistan, Kirghizistan e gli stessi spazi russi di Daghestan e Cecenia. E per raggiungere i propri obiettivi potrebbe sfruttare il sempre più diffuso malcontento delle comunità musulmane in Russia, che già protestano contro il coinvolgimento nella mobilitazione della «guerra tra cristiani» in Ucraina e che sono sempre più spesso oggetto di diffuso razzismo e discriminazione, elemento che gli analisti occidentali tendono a sottovalutare. Basti però guardare alle quotidiane campagne di stampa promosse ad esempio dalla testata ultranazionalista Tsargrad, ispirata alle tesi tradizionaliste del discusso primate cristiano-ortodosso Kirill, per rendersi conto di quanto pesi l’insofferenza russa verso i musulmani.
Ecco alcuni passaggi delle diverse “inchieste” sul tema delle migrazioni pubblicate dalla testata: “Le enclave etniche hanno già iniziato ad assorbire le città russe, a cominciare dalle principali metropoli della nazione. Questo fenomeno si accompagna a un aumento dei crimini commessi dai lavoratori ospiti, al loro rifiuto della nostra cultura e all’imposizione dei propri usi e costumi, all’espansione nelle scuole e nell’assistenza sanitaria”. Le analisi si concentrano in particolare sull’incidenza della criminalità tra i migranti: “Nelle nostre indagini abbiamo notato possibili legami tra gli immigrati locali dall’Uzbekistan e il grande business della droga”. E ancora: “Nel 2022 sono stati denunciati 1844 crimini commessi da lavoratori migranti provenienti dal Kirghizistan (…) il doppio dei delitti compiuti dagli immigrati provenienti dall’ Azerbaigian, dall’Armenia o dal Kazakistan”.
In sostanza anche nell’anima del “mondo russo” emergono logiche di esclusione su cui può alimentarsi – come accade in Occidente – il risentimento di alcune minoranze: è il substrato sociale su cui possono fare breccia i reclutatori dell’Isis e comunque può maturare l’insofferenza verso la verticale del potere che conduce a Putin. Sono queste le popolazioni emarginate che potrebbero davvero cominciare a stancarsi nel vedere i loro figli usati come “carne da macello” in una guerra che non comprendono.
È probabile che Putin non riesca ad intravedere questi scenari che i suoi apparati di sicurezza certamente non hanno il coraggio di prospettargli, perché il capo va assecondato nei suoi sogni di gloria. Se riterrà di non sottrarre risorse alla guerra in Ucraina è possibile che offrendo qualche contropartita ai talebani scaglierà la vendetta contro le roccaforti dell’Isis del Khorasan, ma intanto non rinuncerà a strumentalizzare il terrorismo per cospargere altro sangue in Ucraina.
L’Occidente farebbe bene a interrogarsi se non sia il caso di rilanciare una intesa anche con il Sud Globale per far sì che guerra e terrorismo non aprano a scenari ancora più distruttivi. L’Italia, che ha usato sempre il linguaggio della moderazione e del diritto internazionale, potrebbe cogliere l’occasione della guida del G7 per ridare forza ad un ruolo di responsabilità di tutta la comunità internazionale, anche proponendo un’iniziativa più incisiva di confronto sui temi della sicurezza globale davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Si tratta di ripartire da un’ idea di fondo, suggerita tra gli altri da Amin Maalouf nel suo ultimo saggio Il labirinto degli smarriti: non è troppo tardi per rilanciare un sistema internazionale in cui “tutta l’umanità possa riconoscersi per prevenire i conflitti e diffondere la prosperità”.
CREDITI FOTO: ANSA / VALERIY SHARIFULIN/SPUTNIK/KREML
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]]>L'articolo Autonomia Differenziata: l’opposizione lotti per bloccare il Ddl Calderoli proviene da Micromega.
]]>Appello agli onorevoli: Elly Schlein segretaria del Pd, Francesco Boccia capogruppo Pd al Senato, Giuseppe Conte segretario M5S, Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli Alleanza Verdi Sinistra.
e per conoscenza a: Stefano Bonaccini, Presidente dell’Emilia-Romagna, Assemblea legislativa ER, ai consiglieri Pd, Silvia Piccinini (M5S), Silvia Zamboni (Europa Verde), Alessandro Amico, (ER coraggiosa, ecologista, progressista).
Gentile segretaria del Pd,
il 16 gennaio Lei scese dalla Camera in piazza – insieme agli onorevoli Boccia, Provenzano, De Cristofaro ed un esponente dei Verdi – per incontrare chi stava manifestando contro l’approvazione del Ddl Calderoli e Marina Boscaino (portavoce del Tavolo NO AD e dei Comitati per il ritiro di ogni Autonomia Differenziata, per l’unità della Repubblica e l’eguaglianza dei diritti ).
Le rivolse questa domanda: “Siamo contenti che tu sia qui. Vorremmo sapere… la questione Bonaccini. Noi abbiamo lanciato, come Comitati dell’ER, una lip regionale per chiedere a Bonaccini di recedere dalle preintese. Dicci qualcosa, facci capire, è importante per noi, lealmente te lo stiamo chiedendo. Che cosa dobbiamo aspettarci?”.
Al che Lei rispose: “Grazie Marina di questa domanda. Come segretaria del Pd naturalmente raccolgo questa richiesta. C’è stato un congresso un anno fa che mi ha eletto segretaria e che già quel congresso ha sancito una linea chiara e inequivocabile per cui tutto il Pd oggi compattamente contrasta questa riforma Calderoli, ed è un risultato importante, perché capisco quello che mi dite, sono qui apposta”.
Gentile senatore Boccia,
il giorno successivo Lei al Senato ebbe a dichiarare, rivolto a Calderoli “Le garantisco che la pre-intesa della Regione Emilia-Romagna non esiste più…”.
Gentili onorevoli Boccia e Schlein,
a noi invece purtroppo risulta il contrario e cioè che la pre-intesa dell’ER non sia mai stata ritirata e che anzi addirittura – ai sensi dell’art. 11 del Ddl Calderoli – l’attuazione dell’AD partirà proprio dalle preintese già siglate coi governi precedenti.
Proprio per questo il Comitato ER ha raccolto quasi 6000 firme per una Legge di iniziativa popolare (Lip) regionale che chiede l’ “Interruzione del processo in corso diretto all’acquisizione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” e quindi – coerentemente e conseguentemente – di recedere formalmente da quelle preintese.
Pochi giorni fa la Lip è stata “validata” e, ai sensi del Regolamento regionale, dovrebbe essere discussa entro sei mesi. Ma sei mesi sono tanti e troppi, visto che il Ddl Calderoli è già in discussione in commissione alla Camera, dove le forze di opposizione sicuramente si batteranno, ma senza avere i numeri per contrastarne l’approvazione definitiva. Coerenza vorrebbe che “tutto il Pd che oggi contrasta compattamente la riforma Calderoli”, compreso il Presidente Bonaccini con le sue ultime dichiarazioni, (però solo dopo il cambio di governo) e la maggioranza dell’Assemblea Er intervenissero presto, subito. I sei mesi sono un limite “entro” il quale, sono un “al massimo”: la Lip potrebbe essere dibattuta immediatamente e approvata o – in alternativa – proposta nei suoi contenuti dal Presidente o da un/a o più consiglier/e di maggioranza. Nel primo caso saremmo orgogliosi di aver fornito all’Assemblea regionale uno strumento legislativo utile a un ripensamento, nel secondo caso non ci offenderemmo sicuramente, né parleremmo di “scippo”, comunque egualmente orgogliosi di aver contribuito a quel ripensamento. Perché il nostro, come quello dei tanti altri comitati, è “di scopo”: ed il nostro scopo è appunto quello di sconfiggere questo disegno eversivo. Scopo che dovrebbe essere anche il vostro, non solo con una forte opposizione parlamentare, ma anche togliendo dal campo tutti gli atti che lo possano agevolare e rendere attuabile, come appunto quelle preintese.
Fiduciosi che Lei – “come segretaria del Pd naturalmente raccolgo questa richiesta” come già appunto ebbe a dire due mesi fa – sappia ascoltare il nostro appello. Infine ci permettiamo di rivolgerci anche a Voi , onorevole Conte (anche lei ci raggiunse in piazza il 16 gennaio ed anche il 16 marzo a Napoli) e onorevoli Fratoianni e Bonelli, affinché vi esprimiate favorevolmente – pubblicamente e all’interno del cosiddetto “campo largo” – rispetto alla nostra richiesta del ritiro di quelle preintese e perché i vostri consiglieri in ER prendano un’iniziativa in tal senso. A tutti voi destinatari di questo appello inviamo cordiali saluti l’augurio di un buon lavoro, coerente e determinato.
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]]>Era piuttosto facile prevederlo che il Time l’avrebbe eletta persona dell’anno per il 2023. Il suo tour mondiale sta infatti polverizzando ogni record e anche il film che ne è stato tratto, Taylor Swift: The Eras Tour, ha ampiamente vinto al botteghino la sfida con l’omologo Renaissance: A Film By Beyoncé, una delle pochissime artiste che sembrava poter stare al suo passo. Ma con Taylor Swift, l’attuale Taylor Swift, non c’è niente da fare e il titolo che nel 2014 le aveva dedicato Bloomberg Newsweek, Taylor Swift Is the Music Industry, ormai sembra sottolineare l’ovvio. La cantante di West Reading nel 2023 ha infatti sbancato al botteghino dell’intrattenimento musicale globale e nemmeno i suoi competitor più recenti, ovvero i gruppi K-Pop BTS e Blackpink, hanno potuto contenderle lo scettro. Chiaramente la musica non è solo questione di numeri e classifiche ma queste considerazioni ci servono per comprendere il fenomeno Swift in relazione alla popolarità, all’impatto mediatico e alla capacità d’influenza ormai raggiunti dalla popstar.
Come nasce l’attuale Taylor Swift
A proposito di Beyoncé, nessuno nel 2009 poteva immaginare che un’allora nemmeno ventenne Taylor Swift (1989, il titolo di uno dei suoi album, richiama esplicitamente il suo anno di nascita), soffiandole il premio per il miglior video agli MTV Video Music Awards, avrebbe indirettamente posto le condizioni per la sua versione attuale. Come in ogni storia che si rispetti, ci voleva il villain a far risaltare le virtù dell’eroina e questa veste fu indossata da Kanye West, che fece irruzione in scena asserendo che a meritare il premio fosse proprio Beyoncé. Un duro colpo per la ragazzina che era abituata a piacere a tutti e a conquistarsi la simpatia di ognuno ricevendone il plauso. Su quell’evento il rapper tornerà nel 2016 con la sua canzone Famous, in cui apostrofa violentemente proprio Swift: “I feel like me and Taylor might still have sex / Why? I made that bitch famous!”. La conseguente manipolazione di cui fu vittima da parte di West e dall’allora consorte Kim Kardashian, che portò anche a una shitstorm su Twitter ai suoi danni attraverso l’hashtag #TaylorSwiftisOverParty, sembrò distruggere l’immagine immacolata della cantante, che trovò modo di reagire attraverso l’album del 2017 Reputation. Il suo concept verte proprio intorno alla distruzione della sua precedente reputazione, che quindi l’ha portata a ricostruire la sua immagine (il video di uno dei pezzi portanti dell’album, Look What You Made Me Do, si apre proprio con la scena della resurrezione della cantante). La reputazione distrutta era quella della brava ragazza che doveva e voleva piacere a tutti, ingabbiata però in un personaggio che la lasciava esprimere solo il suo lato sentimentale e romantico; facendo esperienza del suo completo disfacimento rimanendo a galla nonostante tutto, Taylor Swift ha capito di poter stare al mondo in un modo diverso, non dovendo essere sempre “educata a tutti i costi”, potendo così vivere più in armonia con il proprio autentico sentire. L’attuale Taylor Swift, che sarà oggetto di questo articolo, prende forma e inizia a emergere soprattutto in quel lasso di tempo, quello che precede Reputation e si conclude con l’uscita del documentario girato su di lei dalla regista Lana Wilson, Miss Americana. Soffermandoci particolarmente su quel periodo possiamo capire come si è passati dalla cantante apostrofata come “delegata alla trasmissione dei valori trumpiani” a quella che può spostare gli equilibri a favore di Biden nelle prossime presidenziali, tanto che finanche la sua presenza al Super Bowl vinto dai Kansas City Chiefs del fidanzato Travis Kelce ha fatto gridare al complotto i repubblicani proprio in vista delle elezioni. Per provare a portare a termine tale compito, sarà necessario concentrarsi sulla figura di Taylor Swift come attivista e influencer e in generale sulla sua figura a 360°, ponendo particolare attenzione al suo rapporto con i fan e soprattutto con le fan, che ripongono in lei un’ammirazione al limite della fede.
La nuova Taylor Swift e il suo attivismo politico
Chi ha visto Miss Americana ha potuto godere di un consistente assaggio dell’attivismo di Taylor Swift, venendo a conoscenza dei temi politici e sociali a lei cari, che la collocano senza alcun dubbio nello schieramento democratico. Un approdo non scontato per chi è sbocciata nell’alveo della musica country, feudo pressoché assoluto dei repubblicani, che però la stessa Swift aveva contribuito a svecchiare, avvicinando il genere a un pubblico giovane, grazie a musiche più accattivanti e testi che parlano di emozioni e vissuto personale anziché della bella vita agreste. Se in questa piccola rivoluzione va davvero trovata l’origine del talento della cantante di West Reading, è sempre nel mondo del country statunitense che va cercata l’origine delle sue prese di posizione, non scontante se ripensiamo alla giovane ragazza che si rifiutava di prendere posizione in occasione delle estremamente divisive elezioni presidenziali del 2016. Il gruppo femminile impegnato nel country più popolare negli Stati Uniti, The Chicks, tra il 2003 e il 2005 si schierò in maniera compatta contro la guerra in Iraq, condannando apertamente George W. Bush e partecipando nel 2004 a una serie di concerti del Vote for Change Tour in supporto alla campagna elettorale di John Kerry. The Chicks (allora Dixie Chicks) persero numerosi fan repubblicani, furono ostracizzate da numerose radio specializzate nella musica country eppure rimasero in piedi, tornando in seguito anche al successo. La ragazzina che anelava ai plebisciti e che era stata messa in guardia dal mettersi sulle orme di The Chicks, apprese (anche) da loro il coraggio di esprimere le proprie opinioni e rimanere fermi sulle proprie posizioni anche se ti possono alienare parte della simpatie di pubblico ed establishment. Il suo modo di ricambiare sarà quello di coinvolgerle in uno dei suoi brani più toccanti e personali, Soon You’ll Get Better.
L’album in cui la canzone è contenuta, Lover, è del 2019 e segue di un anno la prima drastica presa di posizione politica di Taylor Swift, che aveva già deciso di non seguire il monito Shut Up and Sing, come recita provocatoriamente il titolo del documentario dedicato dalla regista Barbare Kopple proprio a The Chicks. Tramite un post su Instagram divenuto una pietra miliare del suo percorso umano ancor prima che artistico, la popstar ha espresso per la prima volta il suo orientamento di voto, sostenendo nelle elezioni di midterm i candidati democratici Phil Bredesen e Jim Cooper in lizza nel suo Stato, il Tennessee. In quel post sono elencati tutti i temi cari all’artista, sia in maniera assertiva…
“Ho sempre espresso e sempre esprimerò il mio voto in base a quale candidato proteggerà e combatterà per i diritti umani che credo che tutti meritiamo in questo Paese. Credo nella lotta per i diritti LGBTQ e che qualsiasi forma di discriminazione basata sull’orientamento sessuale o sul genere sia SBAGLIATA. Credo che il razzismo sistemico che ancora vediamo in questo Paese nei confronti delle persone di colore sia terrificante, disgustoso e diffuso”
… sia in opposizione alla candidata repubblicana al Senato:
“Non posso votare per qualcuno che non sarà disposto a lottare per la dignità di TUTTI gli americani, indipendentemente dal colore della pelle, dal sesso o da chi amano. In corsa per il Senato nello Stato del Tennessee c’è una donna di nome Marsha Blackburn. Così come ho fatto in passato, vorrei continuare a votare per le donne in carica ma non posso sostenere Marsha Blackburn. La storia delle sue votazioni al Congresso mi spaventa e mi terrorizza. Ha votato contro la parità di retribuzione per le donne. Ha votato contro la riautorizzazione della legge sulla violenza contro le donne, che tenta di proteggere le donne dalla violenza domestica, dallo stalking e dallo stupro. Crede che le aziende abbiano il diritto di rifiutare il servizio alle coppie gay. Crede anche che non dovrebbero avere il diritto di sposarsi. Questi non sono i MIEI valori del Tennessee”.
I valori conclamati, difesi e propugnati da Taylor Swift sono quindi l’uguaglianza di genere, l’antirazzismo, la difesa dei diritti delle donne e della comunità LGBTQ. E queste tematiche trovano ampiamente spazio sempre nell’album Lover, in cui la disuguaglianza di genere viene attaccata nel brano The Man e la vicinanza alla comunità LGBTQ ribadita in You Need to Calm Down, il cui videoclip, uno dei più popolari e iconici della popstar, si è aggiudicato il premio di migliore dell’anno.
Riguardo i diritti delle donne, nella fattispecie la tutela contro le molestie sessuali, Taylor Swift si è esposta in prima persona portando in tribunale il presentatore radiofonico David Mueller, accusato di averle toccato il fondoschiena nell’ambito di un suo show a Denver nel 2013. Swift ha vinto la causa nel 2017, ricevendo come indennizzo quanto da lei espressamente richiesto, ovvero un dollaro. La cifra, meramente simbolica, è stata richiesta per sottolineare l’obiettivo dell’artista, ossia non quello di ottenere un risarcimento economico ma quello di “di poter aiutare tutte le persone le cui voci dovrebbero poter essere ascoltate”. Ed è proprio questo esporsi in prima persona per difendere i diritti per lei fondamentali, questo modo di ribadire costantemente la convergenza tra il suo vissuto personale e le sue composizioni, che ha permesso a Taylor Swift di far così ampiamente breccia nel suo pubblico. E proprio il rapporto dell’artista col suo fandom, fondamentale per comprenderne la capacità di influenza, anche in ambito politico, dinamiche di voto comprese, merita di essere uno degli oggetti della presente analisi.
Taylor Swift e il suo rapporto con i (e soprattutto le) fan
Per comprendere la capacità di influenza di Taylor Swift è necessario concentrarsi sulle dinamiche comunicative odierne che mettono in connessione l’artista-influencer e i fan, che vedono perfettamente integrati i piani della musica, della performance e della comunicazione. Disporre di un mezzo di comunicazione estremamente potente come i social network, che mettono almeno su un piano ipotetico la star direttamente in contatto con il suo fandom, contribuisce a mantenere un’interazione costante, che non si limita più al semplice rapporto di produzione e consumo. Attraverso di essi l’artista non mette più in condivisione solo le sue opere ma anche la sua vita al netto di intermediari che non siano gli strumenti offerti dal web e pochi sono stati bravi a sfruttare questa opportunità come Swift, riuscita a dare vita a un rapporto di fidelizzazione con il proprio pubblico che ha pochi eguali in Occidente (delle sasaeng sudcoreane magari parleremo in un’altra occasione).
Tramite un magistrale ricorso agli Easter eggs, l’artista di West Reading è stata ed è tuttora capace di coinvolgere costantemente i fan in un dialogo sì indiretto ma continuo, in cui i piani della vita privata e della produzione artistica si intersecano profondamente. Ne è un esempio il ricorso alla simbologia del serpente, che trae origine proprio dalla diatriba che la contrapposte alla coppia West-Kardashian, riferendosi a un tweet di quest’ultima, e ha accompagnato la cantante nella sua opera di rilancio. Gli esempi di come Taylor Swift si sia costantemente servita di questa simbologia su Internet sono numerosissimi e questa non è la sede adatta per sviscerare questa singola questione né chiamare in causa altri esempi più faceti; ciò che è importante comprendere è che l’aver coinvolto i fan in un momento centrale per la propria carriera, quello in cui sembrava poter affondare, averli coalizzati a difesa della sua reputazione e averli accompagnati attraverso una tempesta dalla quale è uscita rafforzata ha sicuramente contribuito a saldare il loro legame. Grazie alla sua musica, alla diffusa percezione dell’integrità della sua figura e alla sua abilità comunicativa Taylor Swift è quindi riuscita come pochi altri a guadagnarsi la fiducia e il supporto dei suoi fan, in un’epoca in cui la sfiducia verso la politica e le grandi narrazioni ha sovente portato il nostro bisogno di credere in qualcosa e in qualcuno a rivolgerci a singoli personaggi. Ed ecco quindi che anche sull’autorevole Financial Times ci si può prodigare in atti di fede nei confronti della cantante.
Ma come è costituita la galassia degli Swifties (così si fanno chiamare i suoi fan)? A rispondere alla domanda sul finire dell’anno scorso ci ha provato un sondaggio di Morning Consult riportato da Business Insider. Secondo il sondaggio, la maggioranza dei fan della cantante è costituita da donne che condividono con lei alcuni attributi fondamentali: le Swifties infatti sono bianche, Millennial e di orientamento democratico. Molti meno i consensi che giungono dai repubblicani, che magari come Donald Trump hanno iniziato ad “amarla un 25% in meno” dopo il suo primo post dal contenuto politico. Assenti dal sondaggio gli appartenenti alla generazione Z, perché minorenni, e allora ho cercato di colmare questo vuoto sulla prospettiva futura non interpellando un campione rappresentativo ma una mia giovanissima amica di 15 anni, Lucrezia, la cui passione e considerazione per Taylor Swift si inseriscono nel solco già tracciato dal fandom anagraficamente più maturo. Ecco quanto lei stessa mi ha scritto sulla sua beniamina:
“Allora… perché mi piace Taylor?
Devo ammettere che ormai la conosco da molto tempo, all’incirca quattro anni, se non cinque. Seguendo non solo la sua musica, ma anche la sua vita privata, mi sono fatta un’idea ben chiara su quale tipo di persona sia.
La stimo molto, non solo come cantante ma anche come essere umano in sé. Per quanto riguarda la sua musica, è l’artista in campo musicale che più mi ha attratto in assoluto, fin dall’inizio: le sue canzoni mi hanno da sempre trasmesso tanto, da quelle più movimentate a quelle meno. Spesso mi rivedo talmente tanto in certe canzoni che mi vengono i brividi, come se parlassero di me e della mia vita.
Aggiungerei che penso sappia cantare più che bene, oltre a saper produrre buonissima musica!
Come persona, la stimo sotto vari punti di vista. Prima di tutto, la stimo per come dal nulla e attraverso un sogno sia riuscita ad arrivare così in alto. A volte, mi fa pensare di avere qualche possibilità di poter riuscire a fare lo stesso. Di arrivare in alto.
La stimo per non aver mollato mai, durante i periodi più bui e difficili della sua vita, dato che nel corso di quest’ultima Taylor ha subito molte ingiustizie.
Ritengo che sia una donna forte, altruista, e soprattutto che riesca a vedere con gli occhi ben aperti la realtà del mondo.
Quando sono triste, è proprio la sua musica a tirarmi su di morale: mi fa sentire confortata e al sicuro sapere che una persona a cui sono così tanto affezionata abbia provato le mie stesse emozioni. Mi mette buon umore ballare e cantare le sue canzoni al massimo, chiusa in camera. Mi rende felice sapere che posso condividere la mia passione con le mie più care amiche, essendo anche loro grandi fan!
Per questo mi piace Taylor Swift”.
Per quanto io sia consapevole che una singola testimonianza non possa essere considerata esaustiva, ritengo che il sentimento, il senso di appartenenza e la consapevolezza dimostrati da Lucrezia siano esplicativi quanto e anche più di tanti possibili analisi e sondaggi. Nonostante sia italiana e non voti negli Stati Uniti, credo che quest’ultima ben rappresenti le giovani generazioni alle quali Taylor Swift si rivolge in Only the Young, chiamate a dare la svolta necessaria: “Only one thing can save us / Only the young”. Ma gli e le Swifties di oggi e domani possono davvero imprimerla?
La reale capacità di influenza di Taylor Swift
Ma poniamo domande più specifiche: Taylor Swift è davvero in grado di influenzare in maniera decisiva le sorti della politica? Un suo endorsement è davvero in grado di decidere i risultati di un’elezione, a partire dalle prossime presidenziali americane? È ragionevole il fatto che tanti politici americani la tirino, più che per la giacca, per gli splendidi costumi del suo The Eras Tour e che anche dall’Europa le giungano richieste per sensibilizzare il giovane elettorato?
Per dare una risposta, iniziamo dall’impatto del suo più volte citato post su Instagram in occasione delle elezioni di midterm del Tennessee del 2018. Nonostante questo abbia portato al picco delle ricerche su Google dei nomi di entrambi i candidati appoggiati dalla cantante, è stata proprio l’ultra-criticata Bradshaw a spuntarla contro Bredesen mentre il successo di Cooper, rieletto nel suo distretto, difficilmente si può attribuire all’endorsement. Negli altamente polarizzati Stati Uniti è arduo che le prese di posizione della cantante possano far cambiare idea agli elettori repubblicani ma di certo potrebbe riuscire a mobilitare chi, pur condividendo le sue idee, nutre un atteggiamento apatico nei confronti della politica in un Paese in cui è necessario attivarsi per votare attraverso l’iscrizione alle liste elettorali. Da questo punto di vista il post un impatto di sicuro lo ha avuto: secondo il sito vote.org, infatti, circa 65mila persone si sono registrate nelle 24 ore successive alla sua pubblicazione, con un picco di iscrizioni che ha riguardato anche il suo Stato, il Tennessee. Successivamente la popstar si è prodigata in un’altra chiamata alla registrazione alle liste elettorali, il 19 settembre del 2023 in occasione del National Voter Registration Day, che ha fatto registrare la giornata col maggior numero di registrazioni (35.252) a partire del 2020, con un incremento del 115% tra i diciottenni a confronto dei dati dell’anno precedente.
In vista delle presidenziali di novembre Taylor Swift ha pubblicato una storia su Instagram anche il 5 marzo di quest’anno, invitando i suoi follower a registrarsi in occasione del Super Tuesday, non dando però indicazioni di voto se non scegliere li candidato che rappresentasse davvero. Qualora si prodigasse in una ulteriore chiamata ai seggi proprio per le presidenziali è quasi certo che sortirebbe un nuovo effetto in termine di mobilitazione. Difficile dire quanto potrebbe spostare effettivamente gli equilibri ribadendo la sua preferenza per il candidato democratico, anche se va considerato che il suo maggior bacino di fan, ovvero le periferie americane, è quello in genere più altalenante, che presenta meno roccaforti, e quindi più soggetto a possibili oscillazioni. Dipenderà molto probabilmente da quanto sarà decisivo il voto dei Millennial, lo zoccolo duro dei suoi fan, molti dei quali in un sondaggio hanno affermato che voterebbero proprio per Taylor Swift anziché Biden o Trump – ed è probabile che avvenga lo stesso in futuro tra le file della Generazione Z, prossima ad affacciarsi sulla scena politica. Più che farsi domande sul possibile impatto della popstar sulla politica americana, quindi, forse bisognerebbe riflettere sulla profonda delegittimazione di cui gode quest’ultima (e non solo), che appare del tutto non in grado di intercettare il sentimento degli elettori più giovani, ai quali non offre prospettive e di cui non riesce a stimolare la fantasia.
Ciò che è sicuro è che Taylor Swift, grazie al consenso e all’influenza di cui gode, continuerà a sensibilizzare milioni e milioni di persone su temi quali l’uguaglianza di genere, l’antirazzismo, la difesa dei diritti delle donne e della comunità LGBTQ. Magari non cambierà il mondo, magari non determinerà l’elezione del prossimo Presidente USA ma possiamo considerarlo un contributo niente affatto trascurabile, quello dato dalla ragazzina che un tempo voleva piacere a tutti e si sentiva inadeguata nell’esprimere proprie posizioni politiche, che di strada da allora sicuramente ne ha fatta.
CREDITI FOTO: EPA/JOEL CARRETT
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]]>L’Alta Corte di Londra ha stabilito che Julian Assange, fondatore di WikiLeaks, non può essere immediatamente estradato negli Stati Uniti: le autorità americane devono prima offrire garanzie sul suo trattamento, compresi i diritti derivanti dal Primo Emendamento e la tutela dalla pena di morte. La Corte ha stabilito che concederà il permesso di ricorrere in appello per motivi limitati, a meno che non venga fornita una garanzia soddisfacente da parte del governo degli Stati Uniti d’America, cui sono state concesse tre settimane a questo scopo. Se tali assicurazioni non verranno fornite, allora ad Assange verrà concesso il diritto a un’udienza di appello completa. Se gli Stati Uniti forniranno invece le garanzie richieste, ci sarà un’ulteriore udienza il 20 maggio per decidere se “sono soddisfacenti e per prendere una decisione definitiva sull’autorizzazione al ricorso”. Riproponiamo qui di seguito l’articolo di Rossella Guadagnini scritto il 16 febbraio scorso.
“Day X” lo chiamano i sostenitori di Julian Assange: è il momento in cui si conoscerà il suo destino. Tra il 20 ed il 21 febbraio, infatti, sarà riunita l’Alta Corte di Giustizia Britannica per decidere in merito all’istanza d’appello, presentata dai legali del giornalista australiano, al fine di scongiurare la sua estradizione negli Stati Uniti. Questo provvedimento lo sottoporrebbe a un processo per 18 capi d’imputazione, in cui rischia un condanna fino a 175 anni di reclusione, oltre ai quattro che il fondatore di Wikileaks ha già trascorso, senza alcun processo e in regime di isolamento, nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh a Londra, detta la Guantanamo inglese. Che hanno seguito alla ‘reclusione’ volontaria nell’ambasciate dell’Ecuador nella capitale britannica per sfuggire a chi voleva incarcerarlo.
La storia incredibile di Assange assomiglia a una matrioska: più si torna indietro e più si trovano condanne per reati mai commessi. Dal presunto stupro in Svezia degli anni 10 ai giorni nostri. Assange ha subito condanne, ingiustizie, negazioni per nascondere, mascherare e delegittimare le verità che ha condiviso con il mondo.
È accusato di aver ottenuto e divulgato illegalmente documenti classificati relativi alla difesa nazionale degli Usa, comprese prove che rivelano crimini di guerra compiuti dagli americani in Iraq e Afghanistan. Tuttavia le carte pubblicate da Wikileaks fino a oggi non avrebbero causato alcun danno alla rete di persone coinvolte, stando alle cronache. Ma allora cos’è che ha messo in moto l’infernale macchina da guerra di un processo che – secondo alcuni – è il caso Dreyfus del XXI secolo?
Alice Jill Edwards, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, ha di recente chiesto al governo del Regno Unito di bloccare la possibile estradizione di Julian Assange negli Usa. L’esperta ha invitato le autorità britanniche a valutare l’appello del fondatore di Wikileaks “alla luce del timore fondato che, se estradato, sarebbe a rischio di trattamenti equivalenti alla tortura o ad altre forme di maltrattamento o sevizie”.
“Assange soffre di un disturbo depressivo ricorrente e di lunga data. È considerato a rischio di suicidio. Negli Stati Uniti deve rispondere di numerose accuse, anche in base a una legge sullo spionaggio del 1917 per la presunta diffusione illegale di cablogrammi e documenti diplomatici e di altro tipo tramite Wikileaks. Se estradato, potrebbe essere detenuto in isolamento prolungato in attesa del processo o come prigioniero. Potrebbe essere condannato fino a 175 anni di carcere”, ha dichiarato Edwards.
“Il rischio di essere messo in isolamento prolungato, nonostante il suo precario stato di salute mentale, e di ricevere una condanna potenzialmente sproporzionata, solleva dubbi sulla compatibilità dell’estradizione del signor Assange negli Stati Uniti con gli obblighi internazionali del Regno Unito in materia di diritti umani. In particolare ai sensi dell’articolo 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, nonché dei rispettivi articoli 3 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e della Convenzione europea sui diritti umani”, ha aggiunto la relatrice speciale dell’Onu.
“Le assicurazioni diplomatiche di trattamento umano fornite dal governo degli Stati Uniti non sono una garanzia sufficiente per proteggere Assange da questo rischio”. – ha continuato Edwards – “Non sono legalmente vincolanti e hanno una portata limitata”. Pertanto “invito il governo del Regno Unito a rivedere attentamente l’ordine di estradizione del signor Assange, al fine di garantire il pieno rispetto del divieto assoluto e inderogabile di consegna alla tortura o ad altre forme di trattamento o di punizione crudeli, inumani o degradanti. Invito inoltre a prendere tutte le misure necessarie per salvaguardare la salute fisica e mentale del signor Assange”.
La relatrice Onu segue perciò le orme del suo predecessore, Nils Meltzer, autore de Il processo a Julian Assange (pubblicato in Italia da Fazi editore) in cui si racconta – come recita il sottotitolo – la storia di una persecuzione. E come altro si può definire l’accanimento su un uomo a cui è stata preclusa qualsiasi forma di esistenza e di espressione?
In Italia intanto si moltiplicano le iniziative per concedere la cittadinanza onoraria al fondatore di Wikileaks. La Giunta comunale di Bari ha approvato poco tempo fa la delibera che conferisce ad Assange ufficialmente la cittadinanza onoraria, a seguito del voto unanime in Consiglio Comunale del 28 Dicembre scorso. “È un segnale importante da parte del sindaco Antonio Decaro, presidente dell’Anci”. – sostengono gli attivisti dell’associazione Free Assange Bari – “Ci auguriamo che questa notizia possa dare slancio a tutto il Paese nel proseguire la lotta per la sua liberazione”. Una battaglia che riguarda non solo la sua persona, ma la libertà dell’informazione nel mondo occidentale di cui Assange è divenuto il simbolo.
Il 15 febbraio il Comune di Roma ha attribuito la cittadinanza onoraria della capitale al giornalista australiano. Un gesto simbolico, ma significativo: “Civis romanus sum” dicevano i latini con orgoglio. Frase ripetuta da diversi personaggi storici, per far valere i privilegi concessi loro dall’avere la cittadinanza romana. Anche ai prigionieri, se potevano vantare tale prerogativa, veniva riservato un trattamento di favore. E se c’è un prigioniero che negli ultimi anni è stato al centro dell’attenzione nel mondo è proprio Julian Assange.
Sua moglie, Stella Moris, che ha sposato in carcere, è un’avvocata sudafricana che difende i diritti umani. In una conferenza stampa a Londra, tenuta nello stesso giorno dell’attribuzione del riconoscimento capitolino, ha lanciato l’allarme, sostenendo che “se Julian verrà estradato morirà”. Descrive un uomo molto provato, sia psicologicamente che fisicamente, che “rischia ogni giorno la vita in carcere”. La detenzione rigida lo ha logorato e le forze diminuiscono sempre più col passare dei giorni. Nel caso in cui l’appello dovesse essere respinto dalla Corte suprema, ha aggiunto Moris, Julian si rivolgerà alla Corte Europea per i diritti dell’uomo contro quello che definisce ”un caso politico”.
Si mostra preoccupato anche il primo ministro australiano, Anthony Albanese. Il Parlamento ha approvato a larga maggioranza, con 86 voti a favore e 42 contrari, la mozione presentata dal deputato verde Andrew Wilkie, che chiedeva di liberazione del fondatore di Wikileaks.
“Questo sarà il momento per tutti noi di prendere posizione, di stare dalla parte di Assange, di difendere i principi della giustizia, i principi della libertà dei media e i diritti dei giornalisti di fare il loro lavoro (…). Questa storia è andata avanti troppo a lungo e deve finire. Sono certo che se il Parlamento sosterrà questa mozione oggi, invierà un segnale politico molto forte al governo britannico e a quello statunitense”, ha dichiarato Andrew Wilkie, prima del voto, conclusosi con l’approvazione della mozione da lui presentata.
“L’accusa di spionaggio è una classica arma di offesa politica.Se la pubblicazione di notizie viene inquadrata come spionaggio o collegata ad una cospirazione tesa allo spionaggio, allora si giustifica un’estradizione di natura politica, impiegata a scopo di difesa”. Così Assange, che ha sempre difeso il diritto ad informarsi delle persone. Non siamo molto lontani dal clima di sospetto di Complotto contro l’America, di cui ha scritto Philip Roth. Solo che questo non è un romanzo di fantapolitica.
CREDITI FOTO: ANSA-ZUMAPRESS /Alexander Pohl
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]]>L'articolo Intervista a Jan Brokken: i viaggi e l’Olanda, ancora preda del passato colonialista proviene da Micromega.
]]>Jan Brokken, autore olandese di madre russa, è capace di raccontare vite di personaggi fuori dall’ordinario, di grandi protagonisti del panorama musicale e letterario: lo ha fatto con Jurij Egorov (Nella casa del pianista, 2011), con Dostoevskij (Il giardino dei cosacchi, 2016). Ha anche raccontato il suo Paese e Amsterdam attraverso lo sguardo di Mahler (L’anima delle città, 2021) e ha affrontato il passato coloniale dei Paesi Bassi (La suite di Giava, 2023). I suoi scritti, nelle traduzioni di Claudia Cozzi, sono pubblicati dalla casa editrice Iperborea.
Di chi è figlio Jan Brokken?
Mio padre era uno studente di teologia dell’Università di Leyden, una delle più antiche d’Europa, che poi si è specializzato sull’islam. Mia madre, invece, era una donna poco istruita, ma che aveva iniziato a studiare il pianoforte all’età di otto anni. Poi, nelle Indie Orientali Olandesi (oggi Indonesia), ha imparato a scrivere e leggere il makassar e il buginese, lingue estremamente difficili. Si era trasferita da quelle parti con mio padre, che doveva condurre alcune importanti ricerche scientifiche sui movimenti islamici di conversione.
Era praticamente un missionario.
Sì, di base a Makassar, sull’isola di Sulawesi. Da allora miei genitori hanno vissuto vicende alterne: sette anni felici in quel paradiso e sette anni terribili nel campo di prigionia giapponese e durante la guerra di indipendenza. Io sono nato dopo il loro ritorno in Olanda. Mio padre, nel frattempo, era diventato un pastore protestante in un piccolo villaggio a sud di Rotterdam. Che cos’altro poteva fare in quegli anni con tutta la sua conoscenza dell’Islam? Il destino di mia madre, invece, fu ancora più triste: non sapendo come sfruttare la sua conoscenza delle lingue austronesiane e del pianoforte, divenne madre.
Come ha scoperto il suo talento nella scrittura?
Ho scritto le mie prime storie all’età di otto anni. Mio padre mi ha fornito carta, penna e dei bellissimi quaderni blu: è stata la cosa migliore che abbia fatto per la mia educazione. Ho scritto il mio primo diario quando avevo undici anni ed il mio primo resoconto di viaggio quando ne avevo dodici, in Danimarca, dove mio fratello aveva trovato l’amore. In realtà, non volevo proprio essere uno scrittore, volevo soltanto scrivere.
Si è mai spiegato il perché?
Ne avevo bisogno per esprimere le mie impressioni, i miei sentimenti, per capire il mondo intorno a me. Non avevo neanche diciotto anni quando mi sono iscritto alla scuola di giornalismo e, già nel corso del primo anno, il direttore mi disse che sarei diventato un giornalista speciale. Il mio primo romanzo, tuttavia, non era così sorprendente. Posso dire di essere cresciuto a poco a poco e di aver maturato lentamente il mio stile di scrittura, che è questo mix di biografia, autobiografia, saggistica, romanzo.
Quali sono le penne che l’hanno influenzata maggiormente?
Mi dicono spesso che la mia vita è stata la realizzazione dei sogni dei miei genitori: sono diventato viaggiatore, ricercatore e antropologo culturale, quello che mio padre avrebbe voluto essere e non è stato. Il gusto per la parola, però, l’ho ereditato da mia madre: aveva uno stile bellissimo, cosa che si evince dalle lettere che ho incluso in La suite di Giava. Ma certamente i primi libri che ho letto appartenevano alla biblioteca di mio padre. È stato abbastanza saggio da non raccomandarmi mai dei libri. Ho dovuto scoprirli e leggerli io stesso. Ma ho visto autentiche lacrime nei suoi occhi quando mi ha sorpreso a leggere I dolori del giovane Werther, in tedesco! È stata un’esperienza travolgente.
E sua madre, invece?
Con mia madre ho esaminato tutti i miei saggi. Mi diceva “Puoi formulare questo più brevemente” oppure “Non hai un modo più elegante di esprimerlo?”. Quando avevo circa quindici anni, mi ammalai gravemente di una malattia allergica, che mi tenne a letto per molto tempo con gli occhi gonfi ed un terribile prurito. Così lei tirò fuori la sua natura slava e, per distrarmi, cominciò a leggermi gli autori russi, tutti i giorni, tutto il giorno: il Dottor Zjivago, Guerra e pace, Anna Karenina. Il modello della mia prosa è sempre stato Tolstoj, il suo ritmo, la sua bellezza. Solo lui e Thomas Mann, a volte, hanno saputo essere così profondi e così puri senza diventare pesanti. Ma devo ammettere che, da giovane giornalista, sono rimasto assai impressionato anche dall’enorme potere narrativo di Gabriel García Márquez, non solo dai suoi romanzi e dalle sue novelle, ma anche dal suo lavoro giornalistico. Era un grande osservatore dei potenti, penso a L’autunno del Patriarca, ma anche dei più poveri tra i poveri. Nel 1981, gli ho fatto un’intervista di due giorni, a Parigi. Dopo tre domande, mi ha interrotto dicendo: “Giovane uomo, non sei un giornalista, ma un autore che lavora al suo primo romanzo”. Aveva completamente ragione.
Le ha dato qualche spunto?
Mi suggerì di smettere di registrare e di prendere appunti e di cominciare ad ascoltare veramente. Mi disse che, durante i suoi dodici anni di carriera giornalistica, non prese mai una sola nota. “Devi ascoltare ed osservare, tutto qui”. Odiava le interviste, ma si mostrò molto felice di darmi qualche consiglio durante le ore e ore trascorse ad un tavolino del caffè La Coupole o sulle panchine degli splendidi parchi parigini. Tutto quello che ho imparato nella scrittura, lo devo a lui, a Gabo. Lo penso molto spesso. Ancora. Anche quando ha detto sciocchezze, perché a volte poteva esagerare enormemente, sapeva inventare le sciocchezze più interessanti che avessi mai ascoltato.
Che libro ha in serbo?
Ho appena pubblicato un nuovo libro, nella mia madrepatria, che si chiama La scoperta dell’Olanda. Sarà pubblicato la prossima primavera anche in Italia. Un critico ha scritto che è in cima alla sua lista. Personalmente ho la sensazione di non aver ancora dato il meglio. Vorrei raggiungere la leggerezza pura.
Ma di cosa ha bisogno per scrivere una storia?
Direi una frase, un’immagine, una scena. Sto leggendo ora quello che è certamente uno dei migliori romanzi mai scritti in olandese, Le diecimila cose, di Maria Dermoût. È la Virginia Woolf olandese. Il romanzo, ambientato nelle Indie Orientali proprio nel periodo in cui anche i miei genitori erano lì, inizia con cinque o sei pagine di descrizioni di paesaggi, scritte meravigliosamente. Ma non ho mai potuto iniziare un libro in questo modo. Mi sembra troppo statico. Voglio che succeda sempre qualcosa nel primo paragrafo, una grande svolta. Ho bisogno di movimento, è un riflesso condizionato del viaggiatore.
Ma cosa pensa dei Paesi Bassi?
È un Paese che si sta perdendo. Non sa più dove andare. Un Paese che si vergogna di sé stesso, mentre una volta era così orgoglioso di essere un esempio di solidarietà e tolleranza. Ne La scoperta dell’Olanda esamino come la popolazione di un piccolo villaggio di pescatori reagisce all’arrivo di 1400 artisti stranieri negli anni 1881-1932. Gli artisti, tra cui 200 donne, hanno vissuto chi tre mesi, chi diversi anni in un hotel di questo villaggio, stranamente cattolico, non protestante. Gli artisti sono stati completamente integrati nella società. Odio la letteratura moralistica, ma ogni lettore si renderà conto che questi pescatori, pur non essendo ben istruiti, hanno risposto agli stranieri con una mente molto più aperta di molti giovani contemporanei.
Nel suo L’anima delle città (Iperborea, 2021), scrive che Mahler ha preferito fuggire da Amsterdam per raggiungere le dune di Zandvoort o la brughiera vicino Laren. Vale anche per lei?
Mahler era molto sensibile ai suoni e Amsterdam era ed è tuttora una rumorosa città portuale. Io vivo dietro un canal warehouse, un magazzino di trasbordo del diciassettesimo secolo, e non sento nulla. Si sta più tranquilli qui che in un villaggio dell’Ardèche. Mahler odiava anche il nostro clima. Qui c’è sempre vento e piove spesso. Ma devo confessare che, quando sono nella mia casa estiva sulla costa atlantica, mi manca qualcosa: forse proprio il vento di Amsterdam che è anche un vento di libertà. Ho come l’impressione di essere tagliato fuori dal mondo e dalla contemporaneità. Mahler non amava il clima di Amsterdam, ma comunque la considerava la sua seconda città natale per l’apertura mentale con cui la gente ha trattato lui e la sua musica.
Jules Renard ha detto: “Nei Paesi Bassi, le persone sono così addestrate ai servizi igienici che quando sentono il bisogno di sputare, prendono il treno per farlo in campagna”. C’è del vero in quella battuta?
Amsterdam era una città molto sporca. Tutti questi bei canali erano praticamente delle fogne a cielo aperto. I villaggi, invece, erano estremamente puliti perché tutti lavavano il proprio pezzo di marciapiede. Per uno straniero, l’Olanda è semplicemente l’Olanda, ma per noi olandesi, esistono come due Paesi in uno: Amsterdam e il resto. Il resto è monarchico, Amsterdam è repubblicana. Il resto è conservatore, Amsterdam progressista. Amsterdam ha questa natura perché è stata enormemente influenzata dalla cultura ebraica e ugonotta. Se ci pensiamo, i filosofi più influenti di Amsterdam erano Baruch Spinoza ed anche René Descartes, che ha trascorso gran parte della sua vita qui.
Ma lei può dire di aver davvero capito il suo Paese?
Da viaggiatore incallito quale sono, mi sento di dire che forse è più facile conoscere un Paese straniero che il proprio, perché fuori casa si ha più occhio per le cose singolari e strane. Io, ad esempio, ho capito molte cose sui Paesi Bassi quando ho sposato una francese e ho iniziato a guardarmi col suo sguardo. Poi ho visto, per esempio, che l’intera società è posseduta da una certa moralità cristiana e benpensante.
Il suo La suite di Java (Iperborea, 2023) affronta tra le altre cose, il passato coloniale del suo Paese. Pensa che questa ferita sia guarita?
Nient’affatto. La ferita è ancora ben aperta. Scrivendo La suite di Giava e attingendo alle lettere di mia madre, sono riuscito a ricostruire anche il modo in cui i miei genitori esprimevano la mentalità coloniale. Perché erano andati in Indonesia nel 1935? Per governare? Per imporsi? Per sentirsi più importanti? No, erano guidati non tanto dalla volontà di potenza quanto dal pensiero di essere nel giusto e di fare la cosa giusta, di stare compiendo una missione civilizzatrice, alleviando le paure esistenziali della popolazione attraverso il cristianesimo. Ma dalle lettere si capisce che mia madre si è resa conto abbastanza rapidamente di aver sbagliato quando si trovò faccia a faccia con una civiltà molto più antica di quella europea ed almeno altrettanto ricca e diversificata.
Cosa fa quando ha paura della tempesta? Si rivolge ad un dio, ad un antenato?
La mia vita è iniziata dopo due tempeste devastanti: quella della Seconda guerra mondiale e quella della decolonizzazione. I miei genitori arrivarono completamente indigenti nei Paesi Bassi. Quando finalmente trovarono un posto, una destinazione, un lavoro, una casa, scoppiò una terza tempesta. Durante la notte del 31 gennaio 1953, centinaia di dighe si ruppero a causa di una disastrosa tempesta. Nel villaggio dove avevamo vissuto poco prima, centocinquanta case e fattorie rimasero distrutte e sette persone finirono annegate. Il mio primo ricordo risale proprio a quella notte, avevo tre anni e otto mesi. Dormivo come una rosa, perciò non sentii nulla. Solo quando mi alzai ed aprii le tende, mi resi conto che c’era acqua ovunque. Gridai molto forte: “mamma, mamma, sto sognando”.
La rivista che ci ospita si chiama MicroMega, da un racconto filosofico di Voltaire in cui si scopre che l’essenza delle cose è in una pagina bianca, tutta da riempire… Lei scriverebbe qualcosa su questa pagina?
La notte della tempesta ho confuso il sogno con la realtà. Quando scrivo, cerco di trovare parole per rendere tangibile sia l’uno che l’altra. Questo è il mio senso.
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]]>[*] Coloro che, in Italia e nei consessi internazionali, invocano il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza (meglio sarebbe dire in quel che ne resta), il ripristino dei finanziamenti all’UNRWA, una missione internazionale di pace e recitano l’immancabile mantra “due popoli, due Stati”, fanno sicuramente una cosa buona e giusta, ma irrimediabilmente insufficiente e in buona misura di una sconfinata ipocrisia. Continuare a sermoneggiare sulla necessità di realizzare lo Stato di Palestina nei territori occupati da Israele nel 1967, quando questi territori sono ridotti ad un cumulo di macerie (Gaza) o ad un colabrodo fatto di bantustan palestinesi, ghetti separati uno dall’altro da colonie di fanatici ebrei ultraortodossi armati, sostenuti e foraggiati dallo stesso governo israeliano, non so dire se appaia più ipocrita o ingenuo, posto che qualcuno diceva, giustamente, che in politica l’ingenuità è un crimine. In quei consessi non si trova nessuno che abbia il coraggio politico e culturale di dire che il problema stia nel peccato originale della costruzione dello Stato di Israele come entità etnoreligiosa, colonialista e suprematista e che questo peccato originale sia – purtroppo – il fondamento stesso dell’esistenza dello Stato ebraico teorizzato e descritto da Theodor Hertzl nell’omonimo pamphlet che preconizza il ritorno di un “popolo senza terra in una terra senza popolo”, ignorando l’esistenza su quella terra di un altro popolo che la abita da secoli. Vale la pena di citare il passaggio del testo di Herzl in cui l’autore, impegnato nella captatio benevolentiae delle potenze dell’epoca, si preoccupa dei “luoghi santi della cristianità”, per i quali “si potrebbe trovare una forma di diritto internazionale, per garantirne l’extraterritorialità. Costituiremmo la guardia d’onore intorno ai luoghi santi e ci renderemmo garanti, a prezzo della nostra stessa vita, dell’adempimento di questo dovere”. Proposito lodevole, salvo per il piccolo particolare che la stragrande maggioranza della popolazione palestinese dell’epoca era costituita da persone di fede islamica, completamente ignorate da Herzl, nonostante – a proposito di luoghi santi – Al Quds (nome arabo di Gerusalemme) sia il terzo luogo santo dell’Islam per importanza, subito dopo Medina e La Mecca.
Consiglio vivamente la lettura del testo fondante del sionismo a tutti quelli che parlano del suo carattere democratico e addirittura socialisteggiante, sorvolando sulla sua natura intrinsecamente colonialista e, in quanto tale, segnata profondamente dall’indifferenza e dal disprezzo verso le popolazioni native.
Osservando – con partecipazione – il movimento di solidarietà con il popolo palestinese in Italia, i numeri mostrano impietosamente il suo declino nel corso degli ultimi anni. È sufficiente paragonare i numeri delle manifestazioni contro l’operazione “Piombo fuso” – da quelle locali a quella nazionale del 17 gennaio 2009 – con quelle attuali per rendersi conto che molto è cambiato e non in meglio, soprattutto alla luce della gravità degli accadimenti. “Piombo fuso” nella Striscia di Gaza durò tre settimane e provocò 1.203 vittime palestinesi, di cui 410 bambini, oltre ad ingenti distruzioni materiali. Numeri certamente tragici, ma che impallidiscono nel confronto con quelli attuali. Oggi, a fronte di oltre 32.000 vittime e la riduzione in macerie della Striscia, la partecipazione appare molto ridotta. Cosa è cambiato?
Il massacro indiscriminato di persone inermi compiuto da Hamas e da altri gruppi palestinesi il 7 ottobre 2023 è stato uno choc anche per il mondo della solidarietà con il popolo palestinese. La mia opinione su quel crimine l’ho espressa, fra l’altro, anche su MicroMega e penso che come avvenimento pesi non poco nelle attuali difficoltà nel mobilitare contro il genocidio in atto a Gaza, aldilà dello sfruttamento propagandistico che ne fa l’hasbara israeliana. Tuttavia, se si osserva quello che accade nel mondo, si deve notare che la decrescita della solidarietà di piazza in Italia con il popolo palestinese si manifesta nel momento in cui non è mai stata così forte la consapevolezza generale dell’enormità dell’operato del governo israeliano. Persino le condanne della cosiddetta comunità internazionale (occidentale), solitamente molto benevola e comprensiva verso lo Stato ebraico, non sono mai state tanto esplicite e anche i più convinti sostenitori del “diritto di Israele a difendersi” sono costretti a dissociarsi dalle azioni efferate del gabinetto di guerra di Netanyahu.
Personalmente, non avrei mai creduto di ascoltare certe dichiarazioni da parte di un Presidente degli Stati Uniti o dell’Alto Rappresentante della politica estera dell’Unione Europea, anche al netto dell’incoerenza mostrata da chi condanna un massacro che avviene con le armi che lui stesso continua a fornire al massacratore. Altrettanto, non avrei mai immaginato di vedere migliaia di cittadini ebrei statunitensi occupare la Stazione Centrale di New York in solidarietà con i palestinesi. Per la tanto vituperata informazione mainstream vale la stessa percezione: se si escludono gli house organs dei gruppi sionisti e alcune testate di estrema destra, non si può non notare il disagio anche di chi ha sempre difeso, anche contro ogni evidenza, le ragioni dello Stato di Israele.
È comprensibile che nelle manifestazioni di piazza si parli esclusivamente della resistenza alla guerra di sterminio scatenata da Netanyahu e dal suo gabinetto di guerra. Molto meno comprensibile il fatto che, anche dopo mesi, non vi sia stata alcuna riflessione, alcun dibattito e che, anzi, abbia prevalso un’attitudine talmente settaria da provocare rotture fra gli stessi palestinesi, oltre che allontanare molte persone dalle piazze.
Fra i sostenitori dei diritti del popolo palestinese, oltre che fra gli stessi palestinesi, la ferocia della rappresaglia israeliana sembra avere indotto quello che in Germania chiamano denkverbot, termine che significa “divieto di pensare”. In questo senso, il dibattito aperto dalla redazione di MicroMega si rivela salutare per chiunque intenda contrastare il piano genocida di Netanyahu ma voglia anche ragionare in prospettiva, per quanto difficile possa essere.
Fuori da ogni ipocrisia e/o strumentalizzazione: la soluzione dei due Stati non è una soluzione. A causa della massiccia colonizzazione operata dai vari governi israeliani dopo l’assassinio di Yitzhak Rabin da parte di un fondamentalista ebreo, non è pensabile che si possa costruire un’entità statuale degna di questo nome in un “territorio” costituito da enclave separate l’una dall’altra e con i confini esterni, lo spazio aereo e quello marino controllati dalle forze di un altro Stato, così come non appare credibile che le centinaia di migliaia di coloni fanatici e armati fino ai denti accettino di farsi da parte senza colpo ferire o – e qui siamo proprio nella fantascienza – di diventare cittadini dello Stato palestinese. Quella dei due Stati, anzi, dello Stato e 1/2 può essere, nella migliore delle ipotesi, una situazione transitoria, che consenta di avviare un percorso – che sicuramente non sarà breve – di pacificazione e decantazione degli odi reciproci, e sono convinto che sia questa la strada che la solidarietà internazionale debba perseguire.
Poiché, come sempre, “primum vivere, deinde philosophari”, la priorità oggi è quella di fermare il genocidio nella Striscia di Gaza. Inutile girarci intorno: come ammesso persino dal leader di Hezbollah e dagli ayatollah iraniani, la sola entità che può imporre ad Israele di cessare lo sterminio sono gli Stati Uniti, semplicemente adottando lo stesso metodo utilizzato oltre trenta anni or sono da George Bush padre per imporre all’allora premier israeliano Yitzhak Shamir – soggetto non molto differente da Netanyahu – la conferenza di pace di Madrid, minacciando di tagliare gli aiuti economici se Israele non avesse sospeso la costruzione di colonie nei territori palestinesi occupati: “per ogni mattone posato, un dollaro in meno”, risultò un ammonimento molto persuasivo. Purtroppo, oggi i cittadini statunitensi si trovano ad avere come unica scelta quella “fra un delinquente e un deficiente”, come ha affermato un noto giornalista che non può certo essere etichettato come antiamericano. In questo scenario che anche definire tragico è un pallido eufemismo, un barlume di speranza arriva dai tantissimi ebrei statunitensi che, senza timore di scontrarsi con le potenti organizzazioni sioniste locali, si mobilitano in solidarietà con i palestinesi. È un fenomeno del tutto nuovo in queste dimensioni, importante anche per il dibattito aperto dalla redazione di MicroMega.
Fermare il genocidio è, dunque, necessario e urgente, ma lo è altrettanto spezzare il denkverbot che impedisce ai sostenitori della causa palestinese di andare oltre la pur sacrosanta denuncia dei crimini israeliani e, dall’altra parte, di superare l’ideologia colonialista e suprematista, anche quando mascherata, come da chi definisce Israele “la sola democrazia del Medio Oriente”. Non sono tanto ingenuo da illudermi che sia semplice portare avanti l’idea di una realtà completamente diversa dall’attualità. L’idea di un luogo dove la vita sociale sia regolata dal diritto di cittadinanza, anziché da precetti religiosi o da farneticazioni fondamentaliste e razziste. Però, l’idea che oggi appare un’utopia irragionevole, quella di uno Stato laico e democratico, secolare, basato sullo ius soli piuttosto che sullo ius sanguinis o sull’apartheid, appare come la sola in grado di prospettare un futuro diverso dalla perenne riproposizione degli scenari di morte e distruzione che ci accompagnano ormai da decenni.
[*]La risposta di Germano Monti al testo su Israele e Palestina scritto dalla redazione di MicroMega.
CREDITI FOTO: ANSA-ZUMAPRESS / James Petermeier
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II. Gli atomisti greci rappresentano, in un passaggio centrale di Théorie du sujet, anch’esso* dell’82 (ma frutto di un seminario iniziato sette anni prima), coloro che anche per Badiou affrontarono per primi (cioè prima di Mallarmé e prima di Lacan) i problemi della dialettica strutturale: posta la differenza qualitativa tra atomi e vuoto (eterogenei assolutamente, marcano una “differenza forte”), il clinamen, in quanto “forza” agglomerante, rappresenta l’operatore teorico che li dialettizza (marca tra loro una
“differenza debole”). Il clinamen fa del vuoto lo spazio di posizionamento degli atomi agglomerati secordo una logica dei posti (cioè strutturati sotto la legge dell’Uno). Badiou chiama quello spazio esplace. Il clinamen, in quanto forza causativa e condizionale del mondo, non esiste, cioè non figura nella sua produzione ed è perciò fuori posto. Badiou chiama quella forza horlieu. La contraddizione tra forza e posto, al di là del caso atomistico, è la contraddizione tra un horlieu e un esplace, tra un posto e un fuori posto che è, in quanto termine evanescente (“il clinamen è fuori del tempo, non fa parte della catena degli effetti”), causa assente (“l’effetto è la soppressione retroattiva della causa”) del sistema delle posizioni.
Tra horlieu ed esplace, tra causa assente e molteplicità distribuita, non sussiste tuttavia un rapporto analitico di esteriorità. Qui come altrove, per Badiou passa la differenza tra metafisica (che è il pensiero del lieu, cioè del sistema di posizioni: Althusser, in quanto strutturalista, non farebbe eccezione) e dialettica (che è il pensiero della divisione: “È il Due che dà il suo concetto all’Uno, non l’inverso”). È uno degli insegnamenti che trae dalla Logica di Hegel (Etwas und Anderes…): recupero della matrice materialista (l’Hegel della scissione), esclusione di quella idealista (l’Hegel dell’alienazione). Che vi sia un termine evanescente con funzione causativa, che vi sia una distinzione tra un horlieu e un esplace, è dettato dal fatto che un essente posizionato (indicizzato nel tutto in cui figura come strutturato) non può essere pensato, proprio in quanto è quell’essente che è, che in una relazione di eccedenza rispetto allo spazio di posizionamento, una eccedenza che è determinata dalla sua (dell’essente) stessa inclusione. È il titolo della prima lezione: “Tutto ciò che è parte di un tutto gli fa ostacolo in quanto vi è incluso”. Un modo per dire che ogni molteplicità di indicizzazioni è inconsistente: ogni elemento dell’agglomerato è in posizione di inclusione contraddittoria perché è scisso in se stesso – è “il qualche cosa in sé e il qualche per l’altro”, dove il sé e l’altro sono i lati della sua stessa identità differita perché “tutto ciò che esiste è anche al contempo se stesso e se stesso secondo il suo posto”.
III. Si tratta, per Badiou, di pensare il passaggio dalla mancanza a essere all’essere della mancanza, dall’eccesso come causa assente della struttura all’eccesso come consistenza nella struttura: in breve, il punto sta nel pensare il passaggio dal reale come genesi al reale come distruzione. È un punto lacaniano: “Vi sono all’incirca due Lacan successivi, quello della mancanza a essere e quello dell’ontologia del buco, del topos nodale, dunque dell’essere della mancanza. Dal primato del simbolico alla consistenza del reale”‘. Se è vero che tuffo ciò che è costituito, in quanto molteplice sussunto alla legge dell’Uno, è governato dalla perdita di ciò che lo costituisce – “le operazioni dell’ ‘esplace’ sono delle sostituzioni (metafore e metonimie). È dunque impossibile riconoscere la perdita come tale” – allora la distruzione ha a che fare con una certa padronanza della mancanza. L’eccesso è infatti articolato in un doppio registro, cosi come avviene per ogni nozione che, nel Badiou di questi anni, è sottoposta al trattamento della divisione: è preso nel “suo effetto causale” e nel suo “effetto secondo” per il quale “il suo movente principale è quello di caricare una virtualità d’eccesso sulla collocazione ripetitiva messa in moto dalla mancanza a essere”. Nel sistema di posizioni accade qualcosa (non si sa dove, non si sa quando) che, emergendo, ne interdice la ripetizione. È un accadere che, differenziato qualitativamente dal sistema di permutazioni dei posti, taglia corto con la dialettica che lo legava al sistema di posizioni. È una dimostrazione, questa, che in Théorie du sujet passa dalla rilettura de Il tempo logico di Lacan alla relazione epistemologica (engelsiana) tra riflessione – metafora della tesi dell’identità perché soggetto e oggetto fanno l’Uno speculare – e asintoto – che rileva uno scarto o un frammento irriflesso che fa della stessa riflessione un punctum imaginarium irraggiungibile.
È sufficiente riportare un esempio che Badiou trae ancora una volta dai greci. Per la matematica pitagorica il dominio del numerabile è composto da interi o da rapporti tra interi. Si apre una crisi (non si sa dove, non si sa quando) “che ha le caratteristiche di un evento”: il rapporto tra la diagonale e il lato di un quadrato non è misurabile né da un numero intero né da un numero razionale. Se l’ordine della legge delle posizioni è l’ordine degli interi o dei rapporti tra interi, allora la crisi che vi si produce forza la legge del luogo e chiede, in quanto impossibile di quell’ordine, di essere legalizzata in virtù di una distruzione forzata e di una nuova ricomposizione. È ciò che è accaduto con la teoria delle proporzioni di Eudosso: “Il numerabile si allarga. Spezzando le antiche prescrizioni un nuovo sistema di leggi forgia su nuovi fondamenti un concetto del numero”. L’innumerabile è preso, così, in una doppia funzione: è causa assente del numerabile nella misura in cui, emergendo come interruzione nell’esplace delle posizioni dei numeni ordinati, determina di volta in volta nuovi ordini e configurazioni: “Il non-numerabile (il non-nominabile) resta come supporto asintotico per la retroazione che vuole risolvere i problemi di cui prescrive l’esistenza possibile”.
Badiou intende pensare il nuovo in situazione sul presupposto dell’impossibilità della chiusura strutturale. È un pensiero delle durate topologiche della storia (dei punti di insorgenza) contro quelle semplicemente algebriche (delle commutazioni). Mao contro Stalin. È un pensiero che fa di un comunista un dialettico materialista: “Periodizzare e passare oltre. Nessun punto di arresto, di fine”.
Badiou chiama “soggettivazione” il reale come causa assente (si perde simbolicamente nello spazio di indicizzazione in cui il soggetto è preso in un regime di sostituzioni) e “processo soggettivo” la presa in carico distruttiva dell’asperità che spezza la ripetizione (che quindi sospende la legge dei posti come “buco” dell’esplace). Il soggetto è il nome di due processi distinti ma non separati: “Non avete due concetti per un processo, ma piuttosto due processi (ripetizione/interruzione, mancanza/distruzione) per un concetto (quello di soggetto)”.
Teoria della contraddizione, del ’75, e Il nocciolo razionale della dialettica hegeliana, del ’78 (cioè in pieno svolgimento del seminario), preannunciano o integrano molte delle suggestioni teoriche che in II. e III. è stato necessario riportare soltanto rapidamente. Soprattutto il primo testo rappresenta il momento originario dell’elaborazione teorica della relazione tra forza e posizione, così centrale in Théorie du sujet (una relazione non ancora dialettizzata da quella accennata in III. tra “man-canza a essere” e “essere della mancanza”). È sufficiente sottolineare che Badiou chiama la logica dello spostamento dei termini della struttura “processo secondario”, la sua dissoluzione “processo primario”. In una guerra interimperialista come il primo conflitto mondiale, ad esempio, la vittoria o la sconfitta – determinate dalla quota di accumulazione quantitativa di potenza offensiva di uno dei due (o più) poli della contraddizione (che perciò è debole) –, lungi dal rilevare la revisione della struttura in cui esse accadono, non farebbero che ratificare semplici “inversioni di spazio”. “La stima delle forze si dispiega nel pensiero quantitativo, nell’elemento dell’omogeneità”, e “non porta altro che una redistribuzione indifferente dei posti”. Perché? Perché entrambe escludono – cosi come lo spazio pitagorico escludeva i numeri irrazionali da quelli interi – “i milioni di operai e contadini morti durante il massacro del 14-18”. È per questo, precisamente, che la forza popolare rappresenta qualcosa di qualitativamente diverso da quelle semplicemente strutturali: perché se queste ultime fanno della prima un medesimo termine da sottrarre affinché possa avvenire una risoluzione che perciò è soltanto di superficie (che si parli di vittoria o di sconfitta, “nulla di essenziale le differenzia”), quella popolare ridefinisce lo stesso spazio di posizionamento delle contraddizioni dopo la sua (dello spazio) distruzione. Quella di Badiou non è una metafisica della qualità. L’eterogeneità qualitativa sta in rapporto alla procedura di distruzione-ricomposizione strutturale, e “soggetto” è il nome di questa eterogeneità. Se è vero che il proletariato è una classe sfruttata e come tale è indicizzato secondo il posto che deve occupare nel processo di produzione (nei termini di Teoria della contraddizione: è un “essere-per-la-struttura”), è altrettanto vero che come classe rivoluzionaria (il cui essere è l”essere-per-la-dissoluzione-della-struttura”) “porterà all’annientamento del modo di produzione capitalista”, e con ciò – cioè con la distruzione dell’altro polo della contraddizione (che perciò è forte) –, distruggerà anche se stesso come soggetto indicizzato della vecchia struttura.
Quando si parla di devastazione non c’è spazio per alcuna Aufhebung. Si tratta, ancora una volta, di fare i conti con Hegel: “Non c’è vero pensiero rivoluzionario se non quello che porta il riconoscimento del nuovo fino al suo ineluttabile contrario: il vecchio deve morire”. Se, come visto alla fine di III., non c’è nessun punto di arresto, è perché l’imperativo di un comunista è: stare alla larga, ogni volta, dai rischi della secondarizzazione e mantenersi nella “conservazione della dimensione primaria del processo”. Come direbbe in Théorie du sujet: “Bisogna tenersi horlieu“.
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