Dai maltrattamenti all’assassinio: 
la spirale 
del controllo

A seguito dei femminicidi di Giulia Tramontano e dell'agente Pierpaola Romano condividiamo l'articolo di Nadia Somma sulla violenza maschile pubblicato nel numero 6/2022 di MicroMega “Libere dalla violenza”.

Nadia Somma

I femminicidi, lo sappiamo, sono solo l’espressione più drammatica di un prisma della violenza contro le donne che ha mille facce. Dalla violenza psicologica a quella economica, dallo stalking alle molestie sessuali fino all’uccisione, le diverse forme di violenza possono presentarsi in diversi gradi e forme di combinazione. Tutte però hanno un elemento in comune: l’ossessione del controllo.

“Perché non lo lasci?”, “Perché non denunci?”. Le domande che vengono rivolte alle donne che subiscono violenza interrogano una passività che sembra incomprensibile se non si conosce il fenomeno della violenza nelle relazioni di intimità. Solo se gettiamo alle ortiche facili giudizi e approfondiamo che cosa significa vivere la condizione di un ostaggio prigioniero tra le pareti di casa possiamo avere le risposte. Le donne non lasciano i partner violenti per diverse ragioni: perché hanno paura di essere uccise, perché sono dipendenti economicamente, perché temono di perdere i figli o di non essere credute (e spesso non lo sono) e soprattutto perché vivono in una gabbia psicologica, conseguenza del trauma, che si è rinchiusa su di loro gradualmente, giorno dopo giorno. 

Secondo le stime dei centri antiviolenza D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza), una donna resta in media sette anni in una relazione violenta e dice basta quando un’aggressione è stata più violenta del solito o, più spesso, quando la violenza avviene alla presenza dei figli o quando questi, una volta cresciuti, cercano di difenderla. Le indagini Istat 1 hanno svelato che una donna su tre in Italia ha subìto almeno un episodio di violenza, il dato è coerente con il rapporto presentato all’Onu nel 2015 che ha rilevato come il 35% delle donne di tutto il mondo ha dichiarato di aver subìto violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita e il 38% delle donne che vengono uccise lo sono per mano del partner. Le indagini sulla violenza domestica ci dicono che l’84% delle vittime di violenza sono donne e il 93% degli autori sono uomini 2. Il fenomeno è tanto diffuso nel mondo quanto collegato a cause sociali e culturali e va affrontato a più livelli. Fondamentale è sostenere le donne che ne sono vittime perché interrompere una relazione con un uomo violento, soprattutto se ci sono figli, significa cominciare una corsa a ostacoli. 

La presenza dei figli in un contesto di applicazione rigida della bigenitorialità anche in casi di violenza paterna è un altro grave problema che coinvolge in particolare i tribunali civili e i servizi sociali che non considerano il maltrattamento e colpevolizzano le madri quando i figli rifiutano il padre. Nel report Il (non) riconoscimento della violenza domestica nei tribunali civili e dei minori presentato nel giugno 2021 3 dalle avvocate di D.i.Re, è emerso come gli atti che documentano violenze commesse dai padri raramente vengono presi in considerazione dai giudici civili che spesso stabiliscono l’affido condiviso esponendo le donne a ulteriori violenze. 

Un “termometro” della violenza
Allora come possiamo comprendere senza giudicare? Ti do i miei occhi è un film spagnolo, uscito nelle sale nel 2003, che racconta la storia di Pilar, sopravvissuta alla violenza del marito Antonio, fatta soprattutto di umiliazioni e denigrazioni, che ci aiuta a capire che dobbiamo guardare alla violenza con lo sguardo delle sopravvissute. 

I centri antiviolenza associati nella rete D.i.Re, che ogni anno accolgono circa ventimila donne, hanno classificato le tipologie della violenza domestica in violenza fisiche, psicologiche, sessuali, economiche. Se è facile identificare e riconoscere l’evidenza di una violenza fisica, è molto più difficile riconoscere la violenza psicologica o quella economica, e le loro dinamiche. Non lo è per le donne stesse, per i famigliari, per le forze dell’ordine e i tribunali. Ci remano contro secoli di storia che hanno bloccato uomini e donne in ruoli imposti strutturando una disparità di potere tra i sessi. Il nostro sistema legislativo ha cominciato solo a partire dagli anni Duemila a sanzionare la violenza nelle relazioni di intimità, prima la violenza maschile, strumento per imporre l’ordine paterno, era stata per secoli legittimata. Il delitto d’onore garantiva sconti di pena al coniuge, padre o fratello che uccidesse una donna della famiglia per motivi d’onore; il matrimonio riparatore estingueva il reato di stupro con le nozze. Entrambe le fattispecie sono state abolite nel 1981 e solo nel 1997 il reato di stupro è diventato un reato contro la persona abolendo il precedente articolo del Codice penale che lo definiva un reato contro la morale.

Le leggi cambiano, se ne varano altre, ma le nostre radici culturali restano e quelle che hanno dato forma alle relazioni uomo-donna sono profonde, sono abiti mentali, sono ruoli, sono identità che con grande difficoltà riusciamo ad abbandonare. Le cose si fanno più complesse se ci soffermiamo a riflettere su quanto la violenza maschile sia stata erotizzata ed estetizzata nell’arte, nella letteratura, nel cinema: tutti elementi che fanno parte del nostro immaginario. A scuola si studia ancora il Ratto delle Sabine come mito fondativo di una città senza uno sguardo critico? Pare di sì. Un sequestro di donne e uno stupro di gruppo ci sono stati raccontati fin dalla nostra infanzia come una azione eroica guidata da un re che ha dato inizio a una grande civiltà. 

I motivi per cui la violenza maschile è socialmente rimossa, giustificata, non riconosciuta sono legati alla nostra storia e alla nostra memoria ma sulle donne che vivono a stretto contatto con quella violenza entrano in gioco anche altri fattori legati alle conseguenze traumatiche del maltrattamento e alle resistenze di una società restìa ad accettare che la famiglia possa essere un luogo infernale. Se esistesse un termometro della violenza si potrebbe misurare il controllo, l’isolamento, l’umiliazione, la manipolazione e la minaccia che fanno parte del maltrattamento. Non necessariamente nelle relazioni violente esiste una escalation dalla violenza psicologica a quella fisica e poi sessuale. Queste manifestazioni di violenza possono coesistere tutte assieme o può esserci un contesto di violenza psicologica, la più frequente, e sporadiche violenze fisiche. Infine, non è detto che in assenza di violenze fisiche ci sia un minor pericolo: alcuni femminicidi sono stati commessi senza precedenti aggressioni fisiche ma non sono mai un fulmine a ciel sereno.

Il raptus, il delitto d’impeto, così cari alla narrazione della stampa e alle motivazioni di alcune sentenze, distorcono la realtà del fenomeno. La Corte d’Appello di Palermo, il 30 settembre scorso, ha ridotto a 19 anni e 4 mesi la pena dell’ergastolo inflitta in primo grado ad Antonio Borgia, l’uomo che nel 2019 assassinò Ana Maria Lacramaiora, accogliendo la tesi della difesa del delitto di impeto e rigettando le aggravanti per crudeltà, futili e abietti motivi e premeditazione. In attesa della pubblicazione delle motivazioni della sentenza è importante evidenziare che nelle dinamiche della violenza intima non esiste il raptus o la perdita di controllo. L’uccisione di una donna, quando avviene, è la cronaca di una morte annunciata, esito finale di una serie di violenze o vessazioni commesse con la determinazione di assumere il controllo definitivo sulla partner. 

Dietro ogni femminicidio c’è una relazione sbilanciata e asimmetrica che produce comportamenti che possono sembrare non particolarmente gravi: controllare il cellulare della partner giustificando il controllo come gelosia, esigere l’accesso alle chat dei social o alla mail, chiedere alla compagna di comunicare l’orario di arrivo al lavoro e, ancora, pedinare la partner o raggiungerla senza aver ricevuto nessun invito quando esce con le amiche. Queste e altre richieste che hanno come scopo il controllo sono indicatori di una strategia di limitazione della libertà della compagna. Da questo punto di vista i cellulari, i computer, i social sono diventati un formidabile strumento di assoggettamento della partner e anche un’arma di violenza psicologica feroce quando per vendetta si diffondono foto o video intimi scambiati (o imposti), il cosiddetto revenge porn.

I dati statistici della D.i.Re 4 ci dicono che il tipo di violenza più frequente è quella psicologica (77,3%), seguita da quella fisica (60% circa dei casi); la violenza economica viene esercitata su un numero di donne abbastanza elevato (33,4%), mentre la violenza sessuale e lo stalking riguardano percentuali più basse (15,3 e 14,9%, rispettivamente). Le statistiche sul tipo di relazione del maltrattante non lasciano dubbi: è quasi sempre il partner (60,2% dei casi) oppure l’ex partner (22,1%). Questo significa che nel 72,3% dei casi la violenza viene esercitata da un uomo in relazione con la donna. Se si aggiunge la percentuale dei casi in cui l’autore è un familiare si arriva alla quasi totalità (82,3%). Molto raramente è un conoscente o un collega o un amico e quasi mai un estraneo. Si tratta, quindi, di violenze attuate prevalentemente da persone in forte relazione con la donna, e dirette a esercitare e a mantenere una relazione improntata al controllo e alla sopraffazione. 

La giornalista Leslie Morgan Steiner ha affidato alla rete la sua lucida testimonianza di sopravvissuta alla violenza, sfatando lo stereotipo della vittima come persona fragile, priva di risorse e di strumenti culturali, insicura e dipendente 5. Aveva 22 anni, una laurea in una prestigiosa università americana, un lavoro e una promettente carriera quando incontrò Conor in metropolitana a New York. Quel giovane dall’aspetto dolce e inoffensivo la persuase, all’inizio della relazione, di essere lei la figura dominante nella coppia. La idolatrò, esaltò ogni sua qualità e le affidò se stesso, investendola della responsabilità di prendersi cura di quell’ex bambino maltrattato che era stato. Poi a cinque giorni dalle nozze avvenne la prima aggressione. Morgan racconta che dieci giorni dopo, quando i lividi si erano attenuati, indossò l’abito da sposa e convolò a nozze. 

Nelle relazioni violente può accadere che all’inizio tutto sia straordinario e magnifico, proprio come nelle storie d’amore che fanno parte del nostro immaginario dove “sei mia” o “sono tua” sono, ancora oggi, il sogno romantico che molte donne e molti uomini vorrebbero vedere realizzato. Il sogno purtroppo si infrange con la prima imprevedibile violenza. Imprevedibile perché la violenza non ha reali motivazioni ma solo il controllo fine a sé stesso e tutto comincia con l’isolamento della partner, secondo uno schema che si ripete, in qualunque forma si esprima il maltrattamento: verbale, psicologico, fisico o sessuale, è mirato innanzitutto a disorientare la vittima e a renderla vulnerabile e priva di risorse e relazioni significative. Quasi tutte le donne che si rivolgono ai centri antiviolenza raccontano di aver perso i contatti con familiari o amici. Le scuse accampate dai violenti per privare la compagna di relazioni sono tante: il vittimismo (non piaccio ai tuoi genitori/ ai tuoi amici), la gelosia (il tuo amico ti corteggia, mi tradisci), la scusa di proteggere la relazione (ti mettono contro di me, ci fanno litigare) e così via. Molte raccontano di essere state costrette o persuase a lasciare il lavoro o gli studi e di aver rinunciato a progetti di vita per essere fagocitate in una relazione che ha impoverito il loro mondo. Ho incontrato donne che sono state costrette a licenziarsi anche se erano l’unica fonte di reddito della famiglia: il bisogno di controllo sulla compagna è prioritario e supera necessità quali comprare cibo, pagare le bollette o il mutuo; altri invece controllano le risorse economiche della compagna, costringendola ad assumere impegni economici con la minaccia o l’inganno. 

Diversi studi hanno definito la violenza domestica come un vero e proprio lavaggio del cervello. Quali caratteristiche ha il brainwashing 6? L’isolamento, le minacce alternate alle aggressioni, la monopolizzazione dell’attenzione della partner che si trova costantemente concentrata sulle esigenze del compagno in un illusorio tentativo di evitare le violenze. Ci sono uomini che dopo le aggressioni chiedono perdono e promettono di cambiare, fanno regali, si mostrano premurosi in un’alternanza di aggressioni e gratificazioni che costituiscono le fasi del “ciclo della violenza” descritto da Leanore Walker che individuò un modello comportamentale comune a tutte le situazioni di maltrattamento. Secondo Walker la violenza nelle relazioni di intimità segue uno schema ciclico: la fase della luna di miele, la tensione, l’esplosione di violenza, le richieste di perdono. Le violenze fisiche o sessuali, le violenze psicologiche che si manifestano con giudizi degradanti – l’estrema volgarità del linguaggio con riferimenti alla sessualità è una costante – inducono nelle donne la sensazione della perdita di controllo e sollecitano il senso di colpa e la vergogna. La paura di reagire e di scatenare reazioni violente o rappresaglie sui figli (non sono rari casi di figlicidio per punire la ex) scoraggiano le donne dal rivelare ciò che stanno vivendo rinunciando a prendere qualunque iniziativa. 

Perché non denuncia?
La studiosa Angela Browne 7 ha colto delle affinità tra i comportamenti delle donne abusate e quelli dei prigionieri di guerra: entrambi i gruppi invece di concentrarsi sulle strategie di fuga mettono in atto delle strategie di sopravvivenza e di resistenza. La ricercatrice Lee Browker 8, autrice di Masculinities and violence, ha criticato le tesi sulla passività delle vittime dopo aver raccolto la testimonianza di migliaia di donne che avevano fatto molti tentativi per porre fine agli abusi come pretendere un cambiamento dal partner, affermare la volontà di separarsi, cercare di controllare le reazioni del partner o andar via di casa per alcuni periodi. Secondo Browker le donne restano con gli autori di violenza soprattutto per le difficoltà che incontrano nel contesto sociale in cui si consuma il maltrattamento. 

Si discute ormai da tempo sulla vittimizzazione secondaria operata da tribunali, servizi sociali e forze dell’ordine che contribuisce a ricacciare le donne nel silenzio e nella rinunzia. Secondo l’Istat 9 il 39,6% delle donne non denuncia il partner perché cerca di gestire la situazione da sola, il 10,1% per paura, il 7,1% per vergogna e il 5,9% per sfiducia nelle forze dell’ordine e una percentuale non trascurabile, il 13,8%, perché non voleva che il partner fosse arrestato. Il tema della vittimizzazione istituzionale delle donne è centrale perché fino a che le donne non troveranno sostegno nei tribunali o nei servizi sociali, difficilmente sveleranno la violenza che subiscono. Intraprendere un’azione giudiziaria vuol dire affrontare un percorso lungo e doloroso e il non riconoscimento della violenza può essere fonte di un trauma che si aggiunge a quello della violenza vissuta col partner.

L’Italia dal punto di vista della vittimizzazione istituzionale presenta molte criticità. Tra il 2017 e il 2022 la Corte europea dei diritti umani ha condannato lo Stato italiano per ben cinque volte 10. Nel 2017 per il caso di Elisaveta Talpis, una donna che aveva denunciato il marito per maltrattamenti senza ottenere giustizia e protezione adeguata fino all’uccisione del figlio che cercò di difenderla mentre lei venne gravemente ferita. Lo Stato italiano è stato condannato al risarcimento di Elisaveta Talpis e anche a fornire documentazione che dimostrasse di aver rimosso le cause che portarono alla morte di Ion Talpis. L’Italia è stata però inadempiente ed è stata sottoposta a procedura di vigilanza rafforzata. Sono seguite altre quattro condanne: V.C. v. Italia (2018), J.L. v. Italia (2021), Landi v. Italia e De Giorgi v. Italia (entrambe nel 2022). Nei casi Landi, De Giorgi e Talpis la Cedu ha rilevato l’inadeguatezza del sistema giudiziario italiano nel tutelare le vittime di violenza per lentezza e inerzia o incapacità di riconoscere la violenza anche per pregiudizi misogini (caso Talpis).

Nel caso J.L. v. Italia la Cedu ha stigmatizzato i pregiudizi e gli stereotipi sessisti che persistono nella società italiana e nei tribunali dopo aver accolto il ricorso di una giovane donna contro le motivazioni della sentenza di assoluzione di sei uomini processati per stupro, fondata su considerazioni moralistiche sulle sue scelte e comportamenti sessuali. Nonostante siano trascorsi 43 anni dal documentario Processo per stupro realizzato da Loredana Rotondo, le donne che denunciano violenze sessuali rischiano di non essere credute sulla base di valutazioni morali che condizionano il giudizio dei magistrati.

Nella scorsa legislatura la Commissione di inchiesta sul femminicidio presieduta dalla senatrice Valeria Valente ha rilevato le stesse criticità riscontrate dalla Cedu. Nella relazione presentata in occasione del 25 novembre 2021 sono emerse le criticità del sistema giudiziario italiano, a partire dalla mancanza di un’adeguata formazione dei giudici e delle forze dell’ordine. In 211 casi di femminicidio esaminati, il 63% delle vittime aveva vissuto le violenze che avevano preceduto la morte in totale silenzio, solo il 29% aveva denunciato e in 15 casi non era stato garantito alcun sistema di protezione. Resta elevato il numero delle archiviazioni: di tutti i procedimenti esaminati nel biennio 2017- 2018, il 37% è stato archiviato, un dato spiegabile con il pregiudizio sulle “false denunce”, in base al quale si pensa che le donne denunciano per esempio per vendicarsi durante una separazione. 

E questo nonostante un numero non trascurabile di donne sia stata uccisa proprio dopo l’archiviazione di una denuncia: Marianna Manduca ne fece dodici prima si soccombere sotto i colpi di Saverio Nolfo il 3 ottobre del 2007. Silvia De Giorgi ne fece sette e si vide negare dal Tribunale di Padova la protezione per gli atti persecutori dell’ex con la motivazione che «non appaiono essere molestie, ma piuttosto l’espressione di un livello elevato di conflitto, tipico di certe separazioni». La Corte europea dei diritti umani le ha riconosciuto un danno e un risarcimento con una sentenza che ha un forte valore simbolico, oltre che giuridico, perché per una vittima di violenza domestica come per tutte le vittime, ottenere giustizia è un fattore di sostegno e protezione contro le ricadute nel disturbo post-traumatico da stress di cui molte donne vittime di violenza soffrono per molti anni. 

Nonostante i diritti acquisiti e le leggi che sanzionano la violenza persiste insomma la resistenza al cambiamento culturale e una forte tendenza a rimuovere le violenze che avvengono nelle segrete stanze e nelle famiglie, nei luoghi dove dovremmo vivere tranquilli e protetti. Svelare l’indicibile è una sfida contro le aspettative sulle donne alle quali è stato chiesto per secoli di custodire le relazioni familiari ad ogni costo e in silenzio. 

Questo articolo è stato pubblicato nel numero 6/2022 di MicroMega “Libere dalla violenza” interamente dedicato alla lotta delle donne. Scopri di più. 

1 Istat, «Il numero delle vittime e le forme della violenza», 2014, bit.ly/2Qm5esk.

2 Paola Di Nicola Travaglini, Francesco Menditto, Codice Rosso, Giuffrè Francis Lefebvre, 2020.

3 Disponibile al seguente link: bit.ly/3T8Ha9a.

4 Disponibili al seguente link: bit.ly/3MBTlJk.

5 Il video è disponibile al seguente link: bit.ly/3yJMXtM.

6 Cfr. Elvira Reale, Maltrattamento e violenza sulle donne, vol. II, Franco Angeli, 2011, p. 100. 

7 Cit. in ivi, p. 102.

8 Cit. in ivi, p. 105.

9 Istat, «La consapevolezza e l’uscita dalla violenza», 2014, bit.ly/3MBHElJ. 

10 Tutte le sentenze sono disponibili al seguente link: bit.ly/3TncHUL.



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