Misogino, sessista, patriarcale: fenomenologia del femminicidio

Dalle barricate del maschilismo contro la rivoluzione delle "nuove streghe" agli stereotipi di oggi. Perché soggezione, sopportazione, obbedienza, rassegnazione è ciò che l'uomo si aspetta dalla donna.

Maria Mantello

«Tutte le inclinazioni egoiste, il culto di se stessi, le faziosità a proprio vantaggio, cose che vediamo tutte presenti nell’umanità, hanno la loro origine e le loro radici nell’attuale strutturazione dei rapporti fra uomini e donne, e ne traggono il loro principale nutrimento. Pensiamo alla deformazione che determina nella mente di un ragazzo la credenza che per il solo fatto di essere nato maschio si deve ritenere superiore a tutti e a ciascuno dei membri di un’intera metà della specie umana nata femmina». – John Stuart Mill e Harriet Taylor Mill, La servitù delle donne, 1869

Per definire l’omicidio di una donna da parte di un uomo cui lei era sentimentalmente legata, nell’Inghilterra di metà Ottocento cominciava a fare la sua comparsa nei registri di polizia la parola «femicide». Erano gli anni dell’affermazione dei primi movimenti femministi che scompaginavano il sistema gerarchico sessista patriarcale. E quel termine feminicidio/femminicidio nella sua nuova associazione di «significato» e «significante» evidenziava una specificità non più rubricabile nella generalità di un comune assassinio. Non era certamente ancora una categoria sociologica. Ma la diceva lunga sulla sua caratterizzazione inferibile di omicidio di genere.

E non è un caso che in questa accezione venga ripreso nel contesto della rivoluzione femminista degli anni Settanta del ‘900. «Omicidio di genere» lo definisce la criminologa ed esponente del femminismo mondiale Diana Russell, che nel 1974 aveva lottato per l’istituzione di un Tribunale internazionale sui Crimini contro le Donne a Bruxelles nel palazzo del Congresso. E qui, due anni dopo, davanti a oltre duecento donne dei più diversi paesi del mondo dichiarava: «Femmicidio è l’omicidio di femmine in quanto femmine operato da maschi». La Russell evidenziava così la fenomenologia sociale di questo crimine. E nel 1992 nel libro-antologia Femicide. The Politics of Woman Killing, scriveva: «Il termine femicide va ben oltre la definizione giuridica di assassinio, in quanto deve includere le situazioni in cui la morte della donna configura il risultato/la conseguenza di comportamenti o pratiche sociali misogine».

Su questa strada, per una più strutturale e ampia definizione dei comportamenti ginocidi/femminicidi, restano fondamentali le osservazioni dell’antropologa e politica messicana Marcela Lagarde, che nei suoi scritti e conferenze delinea le responsabilità socio-istituzionali, che tra silenzi e connivenze alimentano la subcultura della trama di violenze verso le donne: «Nella società si accetta che ci sia violenza sulla donna. Una violenza che la società ignora, zittisce, oscura, sminuisce, normalizzando la violenza contro le donne. E a loro volta le comunità (famiglia, quartiere e le diverse forme di organizzazione sociale) minimizzano questa violenza, adottando e promuovendo meccanismi violenti di relazione comportamentale con le donne. L’organizzazione sociale è tale che la violenza è parte delle relazioni parentali, di lavoro, educative, in generale delle relazioni sociali […]. Siamo di fronte al paradosso di una violenza illegale ma legittimata. Questo è uno dei punti chiave del femminicidio» (Conferenza del 12 gennaio 2006 all’università di Oviedo).

Ma la questione è scomoda, e l’attenzione mediatica si sposta sulle discettazioni se sia più o meno bella la parola “femminicidio”, liquidato come cacofonico neologismo, il termine femminicidio ha l’ostracismo dei dizionari.

In Italia compare per la prima volta nell’edizione del 2009 del Devoto-Oli, che alla voce femminicidio spiega: «È qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte». L’ufficializzazione da vocabolario è fondamentale, perché finalmente erode la zona d’ombra del maschilismo; ne smuove il magma profondo, ne svela la prepotenza che si reitera facendo leva sul più retrivo arcaico simbolico misogino di modelli stereotipati, che sedimentati per secoli e accettati nella passività dell’abitudine, creano quell’omertosa solidarietà sociale che è l’invisibile supporto, funzionale al perdurare di asimmetrie sessiste di potere per il controllo del corpo della donna.
Come ai tempi della mattanza istituzionalizzata che fu la caccia alle streghe, quella costruzione simbolica arbitraria tenta oggi di risorgere nella riproposizione di moduli gerarchici di genere.
Le “nuove streghe” sono le donne “colpevoli” di non voler obbedire agli schemi sessisti in cui le si vorrebbe ancora ingabbiate; ma che esse hanno spezzato conquistando leggi di dignità, parità, autodeterminazione.
Una rivoluzione maldigerita dal maschilismo, che per questo è alla ricerca di un risarcimento contro la nuova antropologia di donna che irreversibilmente avanza. Un maschilismo alla riconquista della superiorità perduta, e che emerge nella ferocia di maschi assassini la cui unica legge è il sopruso, espressione del più becero controllo patriarcale sulle donne di cui violano e deturpano il corpo, per lasciare il segno tangibile del loro possesso… fino all’omicidio.

Ecco allora che al maschilismo non si deve dare tregua. Ed è importante smascherarlo nella sua strategia di abuso, invasività che nulla ha a che fare con l’affettività. Anche quando s’insinua per circuire con parvenze di protezione, che calibra tra «tenerezza amorosa» e «ricatto affettivo» per ottenere meglio la subordinazione dell’«altra da sé», che resta sempre e comunque l’oggetto dell’egoità narcisistico-maschilista, che nella mistificazione misogino-sessista rispolvera la favola dell’«eterno femminino», in esercizi di stile sulle “connaturate” doti delle donne: dolcezza, sentimento, amabilità, grazia. Che disvelate significano: soggezione, sopportazione, obbedienza, rassegnazione su cui tanti maschi continuano ad accomodarsi pensando di aver diritto a quel ruolo stereotipato di servizio sacrificale delle donne.

Una “normalità” supposta che dilegua solo con l’avanzare della democrazia reale e di uguaglianza che essa impone tra gli individui.

Ma gli stereotipi resistono. E in particolare rispetto al problema della violenza sulla donne il più recente rapporto – inchiesta ISTAT evidenzia che il 7,4% delle persone ritiene accettabile sempre o in alcune circostanze che un ragazzo schiaffeggi la sua fidanzata; il 6,2% che in una coppia ci scappi uno schiaffo del maschio… ogni tanto però.

Inquietante la resistenza a minimizzare lo stupro. Addirittura il 39,3% della popolazione è convita che una donna è in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole. Il 23,9% pensa che siano le donne a indurre la violenza sessuale, e un 15,1%, è dell’opinione che una donna che subisce violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile. Per il 10,3% della popolazione spesso le accuse di violenza sessuale sono false. Inoltre un 7,2% afferma che di fronte a una proposta sessuale le donne spesso dicono no ma in realtà intendono sì, e per il 6,2% le donne serie non vengono violentate. C’è poi uno zoccolo duro dell’ 1,9% che persiste nel ritenere che non è violenza se un uomo obbliga la moglie o compagna ad avere un rapporto sessuale contro la sua volontà.

Che dire? Il virus maschilista perdura.
E certo non aiuta che dai pulpiti più alti capita di sentir definire le donne assassine perché accedono all’interruzione volontaria di gravidanza servendosi di sicari-medici, o snaturate perché programmano la nascita di un figlio e desiderano magari anche che nasca sano.
Come poi pensare. allora che quei pregiudizi seminati sempre dagli stessi pulpiti per secoli (a cominciare da quel santo padre della chiesa che ha dato vita all’adagio: “chi dice donna dice danno”) non continuino a veicolare nelle menti di maschi violenti?

Sul tema: 65 femminicidi dall’inizio dell’anno. Il fallimento dello Stato e un modello da ripensare


CREDIT FOTO: Alcune donne, rappresentanti del gruppo Non una di meno, scrivono con i gessetti colorati in piazza Castello i nomi delle donne assassinate per femminicidio dai loro compagni, Torino, 05 marzo 2021. ANSA/TINO ROMANO



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