Femminismo ed economia politica

Un recente volume collettaneo – “La natura dell’economia. Femminismo, economia politica, ecologia” (Deriveapprodi) – esamina i contributi del femminismo alla critica dell’economia politica.

Nicolò Bellanca

La natura dell’economia: è questo il titolo di un recente volume collettaneo, che esamina i contributi del femminismo alla (critica della) economia politica[1]. Fin dagli anni 1970, le femministe italiane hanno ripensato il funzionamento dei sistemi economici contemporanei, mediante un’ampia gamma di esperienze militanti e grazie a contributi teorici di assoluto rilievo internazionale, come quelli di Mariarosa Dalla Costa, Silvia Federici, Leopoldina Fortunati e Antonella Picchio[2]. Senza entrare qui in una ricostruzione minimamente adeguata di quel dibattito, possiamo considerarne una tesi portante: mentre nelle fabbriche e negli uffici si producono le merci da consumare, è nelle case che si produce la merce forza-lavoro senza cui le fabbriche e gli uffici non funzionerebbero. Se il venditore di forza-lavoro costituisce il presupposto del capitalismo, la casalinga rappresenta il presupposto del venditore della forza-lavoro.

Com’è noto, nel capitalismo le persone devono trovare un’occupazione retribuita per poter provvedere al proprio sostentamento. Ma la retribuzione che ricevono basta soltanto per una frazione dei costi di riproduzione delle persone e dei loro figli. In effetti, il valore economico della forza-lavoro può essere rappresentato come la somma di tre voci: il “salario diretto”, per il sostentamento del lavoratore durante il suo periodo di impiego; il “salario indiretto”, per il mantenimento del lavoratore durante i periodi di non impiego (malattia, disoccupazione, pensionamento); le “attività di cura” (nutrire, allevare, vestire, pulire, proteggere dal freddo e dalle malattie, erogare amore e affettività, insegnare a stabilire relazioni e a vivere in comunità; esse servono anche per il mantenimento della prole del lavoratore e quindi per la sua sostituzione da una generazione all’altra). In un modello tipico di capitalismo, l’impresa paga la prima voce; l’impresa e lo Stato, in proporzioni variabili, pagano la seconda; infine la terza voce, in continuità con la divisione sessuale del lavoro delle società patriarcali, è assolta principalmente dalle donne all’interno delle case: in Europa, «secondo le ultime stime Eurofound, le donne trascorrono in media 26 ore in lavoro di cura contro le 9 degli uomini»[3].

Nella Figura qui sotto, la diagonale rappresenta una situazione in cui le donne svolgono molto più lavoro non pagato che pagato, rispetto agli uomini, ed in cui il lavoro non pagato femminile sostiene quello pagato maschile[4].

Le attività di cura sono centrali in qualunque economia, in quanto soddisfano un insieme di bisogni riguardanti l’integrità corporea, emotiva e relazionale delle persone. Inoltre, esse sono onerose: pur non essendo associate ad un prezzo, in quanto si effettuano fuori dal mercato, esprimono un costo-opportunità; se fossero affidate a squadre di pulizia, a ristoratori, a baby-sitter, e così via, reclamerebbero prezzi precisi e, nel loro complesso, estremamente elevati. Questa centralità e onerosità delle attività di cura – il loro sostenere l’intera riproduzione sociale – dovrebbero conferire a chi le pratica una posizione di elevato prestigio e potere. Al contrario, nei moderni sistemi economici si afferma la separazione tra il processo di produzione di merci, affidato agli uomini, e il processo di riproduzione della forza-lavoro, svolto dalle donne. Le attività di riproduzione o di cura vengono relegate nella sfera domestica, e non ricevono un’adeguata ricompensa – in termini di riconoscimento e di retribuzione – da parte degli altri membri della famiglia, o da parte di chi compravende sui mercati, o da parte dell’autorità pubblica. Mentre gli uomini sono retribuiti con il salario in quanto produttori, le donne, che sostengono il circuito della ricchezza sociale, vengono retribuite con la “moneta” dell’amore e della virtù. La subordinazione della sfera riproduttiva a quella produttiva, e la specializzazione forzata nelle attività riproduttive o di cura, diventano quindi la principale ragione economica della subalternità femminile.

Peraltro, la riproduzione sociale “femminilizzata” è intrinsecamente connessa alla natura. «Produrre cibo ed esseri umani è un’esperienza e una pratica qualitativamente diversa dal produrre [beni qualsiasi o] macchine, in quanto richiede una costante interazione con processi naturali di cui non possiamo controllare le modalità e i tempi. Per questo, il lavoro riproduttivo genera potenzialmente una più profonda comprensione dei limiti naturali del nostro operare»[5]. Il femminismo ha quindi esteso l’analisi critica delle attività di cura all’ambiente ecologico, inteso come un’altra “risorsa libera” che, assieme al lavoro domestico, nel capitalismo viene espropriata e usata strumentalmente. La divisione delle mansioni nel sistema economico stabilisce forzatamente che il lavoro domestico sia al servizio di quello salariato, che è al servizio del capitale; allo stesso modo impone che i cicli naturali e minerali della biosfera siano al servizio dei processi produttivi, che a loro volta sono al servizio della crescita economica[6].

Per rovesciare questa logica appropriativa e distruttiva, il femminismo abbandona il concetto di economia – permeato dalle gerarchie dicotomiche riportate nella Tabella qui sopra[7] – e introduce quello di approvvigionamento (provisioning), che abbraccia ogni aspetto della sopravvivenza umana, dal bisogno di nutrimento a quello di affetto, che sia retribuito o meno. L’orizzonte storico dell’approvvigionamento riguarda una società inclusiva che asseconda il criterio del “quanto basta”: il troppo e il troppo poco vengono sostituiti da un’idea di sufficienza applicata a tutti, ossia dal poter vivere dei propri mezzi sociali ed ecologici[8]. È la proposta di una cultura del limite e della cooperazione, dei beni comuni e della loro cura, per ridefinire e restituire il senso della comunità in rapporto alla natura e alle sue risorse.

 

NOTE

[1] Federica Giardini, Sara Pierallini e Federica Tomasello (a cura di), La natura dell’economia. Femminismo, economia politica, ecologia, Deriveapprodi, Roma, 2020. In questa nota non richiamo tutte le riflessioni contenute nel libro, soffermandomi unicamente sul nesso tra riproduzione sociale e sostenibilità.

[2] Tra le opere di queste studiose, si vedano: Mariarosa Dalla Costa, Potere femminile e sovversione sociale, Marsilio, Venezia, 1972; Leopoldina Fortunati, L’arcano della riproduzione. Casalinghe, prostitute, operai e capitale, Venezia, Marsilio, 1981; Silvia Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, Verona, Ombre corte, 2014; Antonella Picchio, Social Reproduction. The Political Economy of the Labour Market, Cambridge University Press, Cambridge, 1992. Sulle prime tre autrici, si legga Morgane Merteuil, “Traiettorie femministe dell’operaismo” (2016), all’indirizzo http://effimera.org/traiettorie-femministe-operaismo/

[3] La natura dell’economia, op.cit., p.53.

[4] La natura dell’economia, op.cit., p.36. Questa Figura è dovuta ad Antonella Picchio.

[5] Silvia Federici, Reincantare il mondo. Femminismo e politica dei commons, Ombre Corte, Verona, 2018, p.217.

[6] Il testo più potente, nell’argomentare questa tesi, è probabilmente Maria Mies, Patriarchy and Accumulation on a World Scale: Women in the International Division of Labour, Zed Books, London, 1986, capitolo 3.

[7] La Tabella è ripresa da Mary Mellor, “Ecofeminist political economy and the politics of money”, in EcoSufficiency and Global Justice: Women Write Political Ecology, Pluto Press, London, 2009, p.253.

[8] La natura dell’economia, op.cit., pp.108-110. Il concetto di approvvigionamento rimanda alla fondamentale opera di Maria Mies e Veronika Bennholdt-Thomses, The Subsistence Perspective, Zed Books, London, 1999.



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