Fermare il genocidio: oltre il suprematismo colonialista e il “divieto di pensare”

Non si può comprendere l'invasione di Gaza e la colonizzazione della Cisgiordania senza una profonda presa di consapevolezza della natura suprematista del progetto coloniale sionista. La priorità oggi è impedire il genocidio, ma è anche necessario superare l’ormai fallimentare soluzione dei “due popoli due Stati” a favore di una radicale trasformazione della mentalità delle due parti, oltre l’apartheid e il suprematismo israeliano e il “divieto di pensare” oggi diffuso anche tra le linee degli oppositori di Israele. 

Germano Monti

[*] Coloro che, in Italia e nei consessi internazionali, invocano il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza  (meglio sarebbe dire in quel che ne resta), il ripristino dei finanziamenti all’UNRWA, una missione  internazionale di pace e recitano l’immancabile mantra “due popoli, due Stati”, fanno sicuramente  una cosa buona e giusta, ma irrimediabilmente insufficiente e in buona misura di una sconfinata  ipocrisia. Continuare a sermoneggiare sulla necessità di realizzare lo Stato di Palestina nei territori  occupati da Israele nel 1967, quando questi territori sono ridotti ad un cumulo di macerie (Gaza) o ad  un colabrodo fatto di bantustan palestinesi, ghetti separati uno dall’altro da colonie di fanatici ebrei ultraortodossi armati, sostenuti e foraggiati dallo stesso governo israeliano, non so dire se appaia più ipocrita o ingenuo, posto che qualcuno diceva, giustamente, che in politica l’ingenuità è un crimine. In quei consessi non si trova nessuno che abbia il coraggio politico e culturale di dire che il problema stia nel peccato originale della costruzione dello Stato di Israele come entità etnoreligiosa, colonialista e suprematista e che questo peccato originale sia – purtroppo – il fondamento stesso dell’esistenza dello Stato ebraico teorizzato e descritto da Theodor Hertzl nell’omonimo pamphlet che preconizza il ritorno di un “popolo senza terra in una terra senza popolo”, ignorando l’esistenza su quella terra di un altro popolo che la abita da secoli. Vale la pena di citare il passaggio del testo di Herzl in cui  l’autore, impegnato nella captatio benevolentiae delle potenze dell’epoca, si preoccupa dei “luoghi  santi della cristianità”, per i quali “si potrebbe trovare una forma di diritto internazionale, per  garantirne l’extraterritorialità. Costituiremmo la guardia d’onore intorno ai luoghi santi e ci renderemmo garanti, a prezzo della nostra stessa vita, dell’adempimento di questo dovere”. Proposito lodevole, salvo per il piccolo particolare che la stragrande maggioranza della popolazione palestinese  dell’epoca era costituita da persone di fede islamica, completamente ignorate da Herzl, nonostante – a proposito di luoghi santi – Al Quds (nome arabo di Gerusalemme) sia il terzo luogo santo dell’Islam  per importanza, subito dopo Medina e La Mecca.
Consiglio vivamente la lettura del testo fondante del sionismo a tutti quelli che parlano del suo  carattere democratico e addirittura socialisteggiante, sorvolando sulla sua natura intrinsecamente  colonialista e, in quanto tale, segnata profondamente dall’indifferenza e dal disprezzo verso le  popolazioni native.
Osservando – con partecipazione – il movimento di solidarietà con il popolo palestinese in Italia, i  numeri mostrano impietosamente il suo declino nel corso degli ultimi anni. È sufficiente paragonare  i numeri delle manifestazioni contro l’operazione “Piombo fuso” – da quelle locali a quella nazionale  del 17 gennaio 2009 – con quelle attuali per rendersi conto che molto è cambiato e non in meglio, soprattutto alla luce della gravità degli accadimenti. “Piombo fuso” nella Striscia di Gaza durò tre settimane e provocò 1.203 vittime palestinesi, di cui 410 bambini, oltre ad ingenti distruzioni materiali. Numeri certamente tragici, ma che impallidiscono nel confronto con quelli attuali. Oggi, a  fronte di oltre 32.000 vittime e la riduzione in macerie della Striscia, la partecipazione appare molto ridotta. Cosa è cambiato?
Il massacro indiscriminato di persone inermi compiuto da Hamas e da altri gruppi palestinesi il 7  ottobre 2023 è stato uno choc anche per il mondo della solidarietà con il popolo palestinese. La mia  opinione su quel crimine l’ho espressa, fra l’altro, anche su MicroMega e penso che come avvenimento pesi non poco nelle attuali difficoltà nel mobilitare contro il genocidio in atto a  Gaza, aldilà dello sfruttamento propagandistico che ne fa l’hasbara israeliana. Tuttavia, se si osserva  quello che accade nel mondo, si deve notare che la decrescita della solidarietà di piazza in Italia con  il popolo palestinese si manifesta nel momento in cui non è mai stata così forte la consapevolezza  generale dell’enormità dell’operato del governo israeliano. Persino le condanne della cosiddetta  comunità internazionale (occidentale), solitamente molto benevola e comprensiva verso lo Stato  ebraico, non sono mai state tanto esplicite e anche i più convinti sostenitori del “diritto di Israele a  difendersi” sono costretti a dissociarsi dalle azioni efferate del gabinetto di guerra di Netanyahu.
Personalmente, non avrei mai creduto di ascoltare certe dichiarazioni da parte di un Presidente degli  Stati Uniti o dell’Alto Rappresentante della politica estera dell’Unione Europea, anche al netto  dell’incoerenza mostrata da chi condanna un massacro che avviene con le armi che lui stesso continua a fornire al massacratore. Altrettanto, non avrei mai immaginato di vedere migliaia di cittadini ebrei statunitensi occupare la Stazione Centrale di New York in solidarietà con i palestinesi. Per la tanto  vituperata informazione mainstream vale la stessa percezione: se si escludono gli house organs dei  gruppi sionisti e alcune testate di estrema destra, non si può non notare il disagio anche di chi ha  sempre difeso, anche contro ogni evidenza, le ragioni dello Stato di Israele.
È comprensibile che nelle manifestazioni di piazza si parli esclusivamente della resistenza alla guerra di sterminio scatenata da Netanyahu e dal suo gabinetto di guerra. Molto meno comprensibile il fatto  che, anche dopo mesi, non vi sia stata alcuna riflessione, alcun dibattito e che, anzi, abbia prevalso un’attitudine talmente settaria da provocare rotture fra gli stessi palestinesi, oltre che allontanare  molte persone dalle piazze.
Fra i sostenitori dei diritti del popolo palestinese, oltre che fra gli stessi palestinesi, la ferocia della  rappresaglia israeliana sembra avere indotto quello che in Germania chiamano denkverbot, termine  che significa “divieto di pensare”. In questo senso, il dibattito aperto dalla redazione di MicroMega si rivela salutare per chiunque intenda contrastare il piano genocida di Netanyahu ma voglia anche  ragionare in prospettiva, per quanto difficile possa essere.
Fuori da ogni ipocrisia e/o strumentalizzazione: la soluzione dei due Stati non è una soluzione. A  causa della massiccia colonizzazione operata dai vari governi israeliani dopo l’assassinio di Yitzhak Rabin da parte di un fondamentalista ebreo, non è pensabile che si possa costruire un’entità statuale  degna di questo nome in un “territorio” costituito da enclave separate l’una dall’altra e con i confini  esterni, lo spazio aereo e quello marino controllati dalle forze di un altro Stato, così come non appare  credibile che le centinaia di migliaia di coloni fanatici e armati fino ai denti accettino di farsi da parte  senza colpo ferire o – e qui siamo proprio nella fantascienza – di diventare cittadini dello Stato  palestinese. Quella dei due Stati, anzi, dello Stato e 1/2 può essere, nella migliore delle ipotesi, una  situazione transitoria, che consenta di avviare un percorso – che sicuramente non sarà breve – di  pacificazione e decantazione degli odi reciproci, e sono convinto che sia questa la strada che la  solidarietà internazionale debba perseguire.
Poiché, come sempre, “primum vivere, deinde philosophari”, la priorità oggi è quella di fermare il  genocidio nella Striscia di Gaza. Inutile girarci intorno: come ammesso persino dal leader di  Hezbollah e dagli ayatollah iraniani, la sola entità che può imporre ad Israele di cessare lo sterminio  sono gli Stati Uniti, semplicemente adottando lo stesso metodo utilizzato oltre trenta anni or sono da  George Bush padre per imporre all’allora premier israeliano Yitzhak Shamir – soggetto non molto  differente da Netanyahu – la conferenza di pace di Madrid, minacciando di tagliare gli aiuti economici  se Israele non avesse sospeso la costruzione di colonie nei territori palestinesi occupati: “per ogni  mattone posato, un dollaro in meno”, risultò un ammonimento molto persuasivo. Purtroppo, oggi i  cittadini statunitensi si trovano ad avere come unica scelta quella “fra un delinquente e un deficiente”, come ha affermato un noto giornalista che non può certo essere etichettato come antiamericano. In questo scenario che anche definire tragico è un pallido eufemismo, un barlume di speranza arriva dai tantissimi ebrei statunitensi che, senza timore di scontrarsi con le potenti organizzazioni sioniste locali, si mobilitano in solidarietà con i palestinesi. È un fenomeno del tutto nuovo in queste dimensioni, importante anche per il dibattito aperto dalla redazione di MicroMega.
Fermare il genocidio è, dunque, necessario e urgente, ma lo è altrettanto spezzare il denkverbot che  impedisce ai sostenitori della causa palestinese di andare oltre la pur sacrosanta denuncia dei crimini  israeliani e, dall’altra parte, di superare l’ideologia colonialista e suprematista, anche quando mascherata, come da chi definisce Israele “la sola democrazia del Medio Oriente”. Non sono tanto  ingenuo da illudermi che sia semplice portare avanti l’idea di una realtà completamente diversa  dall’attualità. L’idea di un luogo dove la vita sociale sia regolata dal diritto di cittadinanza, anziché  da precetti religiosi o da farneticazioni fondamentaliste e razziste. Però, l’idea che oggi appare  un’utopia irragionevole, quella di uno Stato laico e democratico, secolare, basato sullo ius soli  piuttosto che sullo ius sanguinis o sull’apartheid, appare come la sola in grado di prospettare un futuro diverso dalla perenne riproposizione degli scenari di morte e distruzione che ci accompagnano ormai  da decenni.
[*]La risposta di Germano Monti al testo su Israele e Palestina scritto dalla redazione di MicroMega.
CREDITI FOTO: ANSA-ZUMAPRESS / James Petermeier



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