“Filosofia dell’Ottocento. Dall’Idealismo al Positivismo”, di Vladimiro Giacché

Nel suo libro, Vladimiro Giacché intreccia spiegazioni storiche e teoriche, parole degli autori e commenti di filosofi successivi, tentano di rendere la storia della filosofia un compito da vivere oltre che da studiare.

Enrico Di Meo

Il volume di Vladimiro Giacché si presenta imponente già allo sguardo. Ciò fa da specchio, in una stretta correlazione tra forma e contenuto, ad uno dei principali intenti che animano questo libro: rilanciare l’utilità, per non dire la necessità, dello studio della storia della filosofia. Nelle 672 pagine che compongono questo viaggio attraverso buona parte della filosofia dell’Ottocento, Giacché si propone di fornire degli strumenti tanto per comprendere il nostro presente sulla base dei suoi presupposti storico-culturali, quanto per criticare sensatamente la realtà in cui viviamo fornendo degli «orizzonti teorici diversi».

Dopo una breve introduzione che chiarisce gli intenti dell’autore, il lettore è subito immerso nell’esposizione manualistica, in un senso non dispregiativo ma letterale, di una storia che ripercorre lo sviluppo diacronico delle teorizzazioni e dei dibattiti filosofici che si sono succeduti da dopo Kant (o dopo la Rivoluzione Francese) fino alla filosofia positivista di metà Ottocento. Il tono e lo stile non mirano ad essere specialistici, ma tentano, nei limiti del possibile, di rendere accessibili (anche a coloro che di filosofia siano digiuni) i nuclei teorici essenziali del pensiero degli autori trattati. A questo proposito, la suddivisione in piccoli paragrafi, dotati di titolo in neretto, consente al lettore di avere un costante appiglio a cui aggrapparsi: le informazioni vengono consegnate in piccoli gruppi teorici, al termine dei quali è possibile fare una verifica di ciò che si è capito o meno prima di procedere ulteriormente. Alle lunghe esposizioni disarticolate, Giacché contrappone una forma compartimentata ed organizzata, ma non per questo meno organica, del discorso.

Oltre alla parte esplicativa della storia narrata, che pure la fa da padrona, ciascun capitolo, autore principale o tema di rilievo trattato, è accompagnato da una antologia di testi. Anzi, per essere più precisi, da due tipi di antologie di testi. È bene sottolineare questo punto perché qui risiede una delle originalità del volume in questione. Alle più classiche antologie di testi degli autori, che pure offrono un confronto diretto imprescindibile per chi voglia avvicinarsi davvero al discorso filosofico, Giacché affianca una piccola antologia critica, ovvero uno o più saggi di studiosi (più o meno contemporanei all’autore trattato) che si siano confrontati direttamente con i nodi più rilevanti o più dolenti di un particolare pensiero. Quest’operazione è originale almeno in due sensi: innanzitutto perché, almeno nella personale esperienza da studente di chi scrive, non si trova quasi mai nei manuali classici un’antologia di saggi della critica; inoltre, è il tentativo concreto di perseguire l’obiettivo di cui si parlava all’inizio. Se davvero la storia della filosofia deve essere riattivata e rivalutata, allora è necessario renderla viva, pulsante; è necessario mostrarne il carattere problematico che, anche a distanza di decenni o secoli, non smette di assillare chi voglia confrontarsi con determinati temi.

Due domande possono sorgere spontanee a chi si imbatta in questo volume su di uno scaffale di una libreria: perché se, come si legge nell’introduzione, l’intento è quello di rilanciare la necessità della storia della filosofia, si parte dalla filosofia dell’Ottocento? E ancora, a chi è rivolto esattamente questo libro?

Per rispondere alla prima domanda si possono ancora seguire le direttive fornite dallo stesso Giacché nella sua introduzione. L’Ottocento non viene scelto dall’autore idiosincraticamente, sulla base di una semplice preferenza. Al contrario, il periodo selezionato viene presentato come un vero e proprio “laboratorio” del nostro presente. Se infatti da un lato «molti dei modelli di pensiero con cui interpretiamo il mondo […] sono stati costruiti nel periodo trattato in questo libro», ed è quindi uno scavo archeologico necessario per comprendere veramente il nostro tempo, d’altro canto è pur vero che lo stesso periodo «offre anche un vastissimo repertorio di soluzioni teoriche risultate “perdenti” […], ma oggetto di riscoperte che le hanno rese influenti in periodi successivi». Si tratta allora di confrontarsi con una fucina di idee che ha prodotto tanto ciò che diamo per scontato nei nostri giorni, quanto le possibilità teoriche di criticare ciò che ci appare come ovvio. E dunque da un lato abbiamo il racconto di come si sia giunti a Hegel, il pensatore sistematico per eccellenza, uno dei pochi filosofi che ha lasciato una traccia davvero indelebile nella storia della nostra cultura, e dall’altro il racconto di come coloro che sono venuti dopo, sospettosi della spinta sistematica tout court, abbiano disgregato l’edificio della tradizione sino all’apparente scomparsa e messa da parte della filosofia a favore delle scienze moderne.

In questo racconto, che ovviamente non è una storia lineare quanto piuttosto un inanellarsi e riannodarsi di problemi e questioni impellenti per coloro che li hanno vissuti, voce e spazio vengono dati anche a poeti, scienziati e pensatori di varia natura che hanno partecipato al dibattito tratteggiato nella storia in questione (è il caso di Hӧlderlin, Goethe, Darwin, Proudhon e molti altri). Da questo punto di vista, un’apertura che sta avvenendo nel mondo della filosofia, e di cui qui Giacché offre un’ulteriore testimonianza, è quella nei confronti di Giacomo Leopardi, a cui sempre di più sta venendo riconosciuto il ruolo di filosofo a tutto tondo.

Rispondere alla seconda domanda è in parte più semplice ed in parte più difficile. Più semplice perché per un verso Giacché rivolge il suo lavoro a «chiunque sia interessato alla riflessione filosofica», e dunque ad un pubblico che spazia dallo studente liceale in cerca di approfondimenti, allo studioso di filosofia specializzato in altri ambiti, fino semplicemente al lettore curioso. Per altro verso però è più difficile rispondere. Per la sua struttura interna, per la sua intelaiatura, il libro di Giacché si colloca in uno spazio intermedio tra la manualistica adoperata nei licei e la manualistica adoperata e consultata nelle università. La mole degli autori trattati, l’ampiezza del respiro, il tentativo di fornire un resoconto complessivo che si inserisce in un progetto più ampio (la trattazione di autori capitali dell’800 come Marx e Nietzsche è rimandata ad un prossimo volume), rendono questo libro un esperimento sui generis. Lo spazio intermedio in cui si colloca, in linea con la sfida che Giacché si propone, è in un certo senso da costituire. I possibili lettori di questo libro, spinti inizialmente da una curiosità propria, devono ritrovarsi attratti dal campo di forze e dal fascino che il confronto con una storia della filosofia suscita, una storia della filosofia che, abbiamo detto, viene presentata viva e accesa, ricca di dibattiti e problemi che più vengono risolti più tendono a riproporsi. Allora, se quanto detto è appropriato, il volume di Giacché sembra aspirare a rompere i confini degli “addetti ai lavori”: chiunque, con una media cultura, che provi un certo interesse ed una certa curiosità verso la storia del pensiero, o verso temi specifici quali lo strutturarsi del problema dell’«autocoscienza», lo sviluppo delle riflessione liberali, socialiste e utilitariste, il rovesciamento dei rapporti tra scienze e filosofia, e ne ricerchi le basi storiche e teoriche, può tentare di approcciarsi a questo libro.

A questo proposito è possibile sollevare un rilievo critico che possa funzionare da suggerimento per i volumi futuri (previsti dal progetto complessivo dell’autore). L’andamento rapsodico delle antologie, specialmente quelle critiche, rischia di non rendere giustizia all’intuizione originale che sta alla base del loro inserimento. Sarebbe forse molto interessante concentrare maggiormente l’attenzione nei confronti di più luoghi teorici salienti, specialmente nei confronti degli autori più discussi (come Hegel, Schopenhauer, e i venturi Marx e Nietzsche), rendendo più corposo l’apparato critico. Certo, questo potrebbe comportare il sacrificio di alcune deviazioni del racconto o di alcuni autori minori, ed in fondo si tratta di un gusto o di una scelta di metodo. Tuttavia, mi sembra propositivo suggerire che ciò che funziona bene venga potenziato e incrementato, al fine di restituire il concreto proliferare dei dibattiti sorti intorno a questioni di centrale importanza.

In conclusione di questa breve recensione, proverò a restituire un’esperienza diretta con il testo di cui si sta parlando, così da fornire una base concreta a quanto ho provato a dire fino ad ora. E dunque, in linea con l’originalità che penso si debba riconoscere all’idea di inserire un’antologia critica, ho scelto come luogo di questa esperienza diretta proprio delle pagine tratte dall’antologia dedicata ad Hegel (che, come non poteva non essere, è uno dei cuori pulsanti di questo volume). Ci troviamo tra le pagine 263 e 269 ed il pensiero di Hegel è stato già presentato e ricostruito nelle sue grandi linee. A questo punto Giacché passa a presentare un problema concreto, di enorme portata e fonte di inesauribile dibattito, incentrato sulla celebre affermazione hegeliana «ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale e razionale». Innanzitutto, in apertura di questa «controversia filosofica», la parola viene data allo stesso Hegel, ed in particolare a quel luogo della Prefazione dei Lineamenti di filosofia del diritto dove per la prima volta il filosofo tedesco afferma ed argomenta quella proposizione. Sconcertante già per alcuni lettori contemporanei di Hegel, la frase venne rapidamente interpretata come «un’adesione alla situazione della politica della Germania della restaurazione»; ma questa lettura suscitò la reazione in primo luogo di Hegel, il quale sentì la necessità di chiarire la sua posizione. E così il secondo brano dell’antologia è ancora tratto da Hegel, questa volta dall’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, dove l’autore in prima persona ha occasione di tornare a confrontarsi con se stesso e con i suoi critici. Già a questo livello l’excursus antologico fornisce al lettore una base concreta in cui inserire quanto appreso: la filosofia viene restituita alla sua dimensione quotidiana di dialogo, incomprensioni, spiegazioni, fraintendimenti, nuovi tentativi di comprensione e così via.

Per rendere ancora più vivida l’impressione di un ripresentarsi, anche a distanza di decenni, dei problemi fondamentali aperti dalla filosofia, i testi 3 e 4 dell’antologia in esame sono dedicati a due commentatori critici: Rudolf Haym e Friedrich Engels. A distanza di 37 e 68 anni, rispettivamente, i due studiosi tornano a confrontarsi con la sentenza hegeliana offrendo interpretazioni opposte. Per il primo, nel suo Hegel e il suo tempo, la frase hegeliana viene ricompresa nel «suo zelo antidemagogico e antisoggettivistico»; nella visione di Haym Hegel starebbe celebrando l’esistente contro qualsiasi istanza di sovvertimento e cambiamento. «Lo scopo della filosofia del diritto», scrive infatti Haym, «non può consistere nel costruire uno Stato così come dovrebbe essere, ma di comprendere lo stato così com’è».

Di avviso completamente opposto è la lettura offerta da Engels nel suo Ludovico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca. La frase hegeliana viene riportata alla distinzione cruciale tra realtà ed esistente, rifiutando dunque la lettura di una «consacrazione filosofica del despotismo, dello Stato poliziesco, della giustizia di gabinetto e della censura». Nella visione di Engels, al contrario, ciò che è veramente razionale in Hegel è il mutamento, è il movimento dialettico che trasforma ogni cosa nel suo opposto e poi tenta di ricomprenderlo in un risultato.

Quanto ho tentato di restituire brevemente qui è un percorso che, sebbene in poche pagine, renda il procedere del volume di Giacché. L’intreccio di spiegazioni storiche e teoriche, parole degli autori e commenti di filosofi successivi, tentano di rendere la storia della filosofia un compito da vivere oltre che da studiare.



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