Fine dell’impero del falso Stelle-e-Strisce. Ma non riesco a esultarne

Pierfranco Pellizzetti

Già dieci anni fa lo scaltro e spregiudicato generale pluristellato David H. Petreaus, signore delle guerre in servizio permanente sul fronte medio-orientale, ci aveva fatto capire quale fosse l’ultimo puntello del declinante impero americano: “quello che i decisori politici pensano sia accaduto in ogni caso specifico è ciò che conta – più di quanto sia effettivamente accaduto”. Dunque, il segreto del successo consisterebbe nel successo della percezione. Alla faccia della realtà e delle sue impietose repliche. Tesi già anticipata nel lontano 1976 da un altro personaggetto mica male dell’armamentario guerresco statunitense – il rieccolo Edward N. Luttwak – secondo il quale “il vero scopo dell’apparato militare è la dissuasione”; con tutte le declinazioni illusionistiche che comporta. Per cui, quando l’avversario è così stupido da non capire il messaggio della messa in scena bellica e insiste a guerreggiare, per generali in carriera e consulenti a tassametro si preannunciano dolori. Dalle risaie del Sud-Est asiatico alle giogaie afghane.

La costruzione di scenari virtuali come ultima trincea di un’egemonia nel sistema-Mondo che fece definire il “lungo Novecento” (1918-2021) come il “secolo americano”.

Molti indizi inducono a pensare che potrebbe trattarsi niente meno che della fine di una fase storica durata – grosso modo – mezzo millennio; in un Occidente trionfante che si riposizionava nel susseguirsi di centralità (olandese, inglese e – appunto – americana) come baricentri del dominio economico-finanziario globale.

Una centralità entrata già da tempo nel suo periodico “autunno”, rappresentato in economia da un’ulteriore prevalenza del simulato sull’effettivo: la finanziarizzazione, con l’abituale ripartizione indecente della società tra l’opulenza e il sordido. Come possiamo constatare dalla cronaca corrente, che ci fa assistere alla fuga nella dimensione transnazionale esentasse delle mega-imprese di Silicon Valley e dintorni; accompagnata dall’espatrio nei paradisi fiscali degli stra-ricchi: i membri del club che associa i possessori di almeno cento miliardi di dollari (Bloomberg Billionaire Index).

Dunque una condizione dominante fondata sulla finzione prima ancora che sulla prepotenza. Il regno del falso, le cui modalità argomentative basate sulla retorica dei diritti umani risultavano ormai insopportabilmente ipocrite alle orecchie degli esclusi dall’area del privilegio. Quella sempre meno efficace propaganda di un principio laico, inteso paternalisticamente come la one-best-way di una retorica neo-coloniale.

Eppure, davanti all’ennesima fuga di americani e alleati tipo ambasciata di Saigon, chi scrive questo post non riesce a esultare. E non solo perché lo smascheramento dell’ennesima finzione e l’esaurimento dell’egemonia stelle-e-strisce avviene nella totale assenza di una nuova ricomposizione del sistema-Mondo che ci eviti l’irrompere di un prefigurabile caos sistemico. Perché le alternative sono – al tempo – inesistenti quanto preoccupanti. Di certo incapaci di assicurare quanto Ralf Dahrendorf definiva “la quadratura del cerchio”: creazione di ricchezza, coesione sociale e libertà politica. Prospettiva da cui la Cina continua a essere lontanissima.

Quello che inquieta ancora una volta sono i soggetti che emergono come vincitori, portatori malsani di oscurantismo e arcaicità (nel caso, il retroterra sociale che trionfa in Afghanistan è costituito dai leader tribali proprietari terrieri e dagli studenti fondamentalisti islamici Taliban, in attesa di accordi o rese dei conti). Mentre giacciono definitivamente sul terreno colpite a morte le strategie mistificatorie del democracy building e i suoi trombettieri. Quelli che – come Paolo Guzzanti – teorizzavano per l’Iraq una democratizzazione a “calci nel c…”.

Insomma se l’Occidente in declino vuole recuperare un po’ della sua perduta saggezza (ma Gandhi alla domanda “cosa pensa della civiltà occidentale?” rispondeva “se ci fosse non sarebbe una cattiva idea”), se volessimo salvare un lascito che continuo a considerare prezioso, dovremmo liberarci da pretese impositive e recuperare un’antica lezione da Erasmo da Rotterdam ad Habermas: promuovere valori nel contesto sociale attraverso pratiche discorsive e testimonianze coerenti. Non interventi legislativi e/o polizieschi. Magari scopriremmo finalmente che il velo islamico delle terze generazioni di immigrate maghrebine è il simbolo identitario di critica a una società che le esclude.



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