Rimembranze alla fine della stagione Neo-Lib

Una riflessione a partire da "Una civiltà possibile – la lezione dimenticata di Federico Caffè" di Thomas Fazi e "Contro la Sinistra Neoliberale" di Sahra Wagenknecht.

Pierfranco Pellizzetti

«Per il governo non è importante fare le cose che
vengono già fatte da singoli individui, e farle un
po’ meglio o un po’ peggio, ma fare quelle cose
che al momento non vengono fatte per niente»[1].
John Maynard Keynes

 «La Gran Bretagna, durante la guerra, ha introdotto
una generale pianificazione dell’economia, eppure le
libertà pubbliche non sono mai state così protette».[2]
Karl Polanyi

Thomas Fazi, Una civiltà possibile – la lezione dimenticata di Federico Caffè, Meltemi, Milano 2022
Sahra Wagenknecht, Contro la Sinistra Neoliberale, Fazi, Roma 2022

Rendere giustizia a un’eredità intellettuale

La riproposta del pensiero inattuale di una figura altrettanto inattuale quale quella di Federico Caffè come operazione che prende avvio da uno spunto assolutamente attuale, ossia il battage mediatico per magnificare l’assunzione della leadership politica nazionale da parte di Mario Draghi presidente del Consiglio; presunto allievo del più coerente e agguerrito propugnatore nell’accademia e nella politica nazionali delle tesi controcorrente espresse nel secolo scorso da John Maynard Keynes. Appunto, Caffè.

L’operazione mendace finalizzata a presentare il Migliore dei Migliori, il cui percorso «ricalca il passaggio dal keinesismo al monetarismo; l’ascesa e la crisi dell’egemonia liberale. […] Dello strapotere della finanza, che ha finito per inghiottire l’economia reale. E di come gli artefici della crisi (tra cui Draghi) siano riuscititi a cavarsela, e anzi oggi vengano persino accolti come salvatori della patria» (T.F. pag. 20). Grazie a quelle doti camaleontiche per il proprio riposizionamento senza tentennamenti dalla parte dell’industria finanziaria. Le imprese produttrici di denaro che – come sottolinea Wolfgang Streeck – «sono state generosamente rifornite di denaro a basso costo, creato dal nulla per loro conto dagli amici delle banche centrali – tra cui spicca l’ex uomo di Goldman sachs, Mario Draghi, al timone della BCE – denaro su cui poi siedono o che investono in debito pubblico»[3].

Quella finanza che era la bestia nera del Maestro del Maestro – J. M. Keynes – paventandone il contagio speculativo: «gli speculatori possono non causare alcun male, come bolle d’aria in un flusso continuo di intraprendenza; ma la situazione è seria quando l’intraprendenza diviene la bolla d’aria in un vortice di speculazione. Quando lo sviluppo del capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò da gioco è probabile che ci sia qualcosa che non va bene»[4]. E Keynes teorizzava la possibilità di trasfondere nella società ‘uno spirito del mondo’ opposto a quello dominante – appunto – negli ultimi quarant’anni. L’altra ipotesi di cui Federico Caffè – il più keynesiano degli economisti italiani – ha rappresentato il rigoroso propugnatore in un ambiente sordo e refrattario. Per cui il primario scopo del saggio in questione diventa esplicitamente quello di «rendere giustizia all’eredità di Caffè, vittima in questi anni di un’infelice operazione di revisionismo storico finalizzata ad addomesticare e istituzionalizzare il suo pensiero» (T.F. pag. 19).

La rivoluzione keynesiana secondo Caffé

A proposito di weltanshauung egemonica, Draghi viene arruolato nel campo dei vincenti già l’anno dopo la laurea, mentre frequenta il MIT bostoniano per conseguire il dottorato di ricerca, e i suoi maestri sono gli economisti di successo del tempo; coloro i quali hanno “imbastardito” (come diceva Joan Robinson) la lezione keynesiana in chiave mercatista. E anche per questo premiati con il Nobel: Samuelson, Solow, Modigliani. Quest’ultimo sarà relatore della tesi di dottorato del giovane ex allievo di Caffè, ormai perfettamente sintonico con il mainstream vincente e i suoi paradigmi, caratterizzati dalla iper-matematizzazione e l’ossessivo ricorso a modelli econometrici. «La trasformazione della polical economic dello stesso Keynes, a tutti gli effetti una scienza storico-sociale, in economics, una pseudo-scienza dura, de-socializzata e destoricizzata, che pretende di mettersi sullo stesso piano della chimica e della fisica» (T.F. pag. 92). La pretesa abbastanza fondamentalistica di predire in maniera scientifica – dunque, oggettiva – fenomeni complessi quali la crescita economica, i cicli congiunturali o gli effetti della politica monetaria. Con un’assertività diventata protervia del potere, che tenderà a fare tabula rasa del proprio ruolo analitico, trasformandolo in quello dell’economista-sciamano. Sicché Keynes prescriveva ai futuri “signori dei numeri” un bagno di modestia e il modello odontoiatrico: «guardiamoci dal sopravvalutare l’importanza del problema economico o di sacrificare alle sue attuali necessità altre questioni di più profonda e duratura importanza. Dovrebbe essere un problema da specialisti, come la cura dei denti. Se gli economisti riuscissero a farsi considerare gente umile, di competenza specifica, sul piano del dentista, sarebbe meraviglioso»[5].

Dunque un pensiero oggi dominante che – in effetti – è una contro rivoluzione: il ritorno al passato dello ‘spirito del tempo’ ottocentesco (dominato – secondo Karl Polanyi – del mito pervasivo del mercato autoregolato, per cui «un’economia di mercato può esistere soltanto in una società di mercato»[6]) realizzato mediante la rimozione del mood novecentesco, che si era imposto grazie all’impatto sulla mentalità collettiva dei due conflitti mondiali, intramezzati da una depressione sistemica di entità inaudita, che avevano predisposto l’intera popolazione all’inevitabilità dell’intervento pubblico. E – al tempo stesso – l’avevano orientata a confidare in esso. Il singolare sincronismo “sforzo bellico-apprendimento al coordinamento” teorizzato già nel 1950 da Karl Polanyi nella conferenza alla Columbia University (a cui qui fa riferimento anche la citazione in epigrafe). Ossa il ribaltamento di prospettiva che l’economia di guerra aveva prodotto nei confronti dell’azione collettiva solidale e del ruolo pubblico; di quello Stato che Hobbes rappresentava come il Leviatano preposto al mero mantenimento dell’ordine e i primi liberali la minaccia da tenere sotto controllo, trasformatosi nel tutore della società democratica (mentre il nuovo Leviatano minaccioso si rivela essere l’interesse economico privo di controlli, da riportare all’ordine attraverso la programmazione democratica).

Keynes aveva dato forma teorica compiuta a questo stato d’animo emergente, portandola a paradigma dominante; declinato in sede politica nel cosiddetto “compromesso keynesiano-fordista” basato sul trade-off accettazione dell’ordine capitalistico a fronte della promessa di piena occupazione tendenziale. Un processo di integrazione democratica alla base tanto del New Deal rooseveltiano come del Welfare State, che indubbiamente rappresentano il modo più civile di organizzare la società mai sperimentato nella storia umana. Nel caso europeo il trentennio 1945-1973, che i francesi chiamano “i gloriosi Trenta” ed Eric Hobsbawm “l’età dell’oro”. Quella rivoluzione intellettuale che – secondo Fazi – Caffè interpreterebbe come una vera e propria rivoluzione tout court. E su questo chi scrive ha qualche dubbio: rappresentare il distinto gentiluomo frequentatore del Circolo Blosbury, il Lord Keynes impegnato a riparare il motorino d’avviamento inceppato dell’economia occidentale, colui che – a suo stesso dire – «la lotta di classe mi troverà dalla parte della borghesia colta»[7], come il teorico della transizione post-capitalista sembra francamente eccessivo. Semmai Keynes – e con lui Caffè – risultano leali propugnatori della priorità democratica che tenga a freno l’avidità dell’individualismo acquisitivo, nella «ridefinizione del lavoro da merce in diritto» (T.F. pag.122); un tema fondamentale nella lettura di Caffè del keynesianesimo. L’operazione coesiva che funzionerà al meglio fino agli anni Settanta del secolo scorso. Quando avviene il paventato arretramento nei confronti del concetto stesso di democrazia, scardinata attraverso la deregolamentazione finanziaria: la ritirata intellettuale dall’azione pubblica, «spianando la strada alla controrivoluzione neoliberale degli anni Ottanta» (T.F. pag. 96). Il decennio in cui sono saltati i contrappesi welfariani a sigillo del Vaso di Pandora che imprigionava il Turbocapitalismo: la sconfitta della classe operaia organizzata – dalla “marcia degli ottantamila Fiat” a Torino (14 0ttobre 1980), al massacro dei minatori a Orgreave, nello Yorkshire, da parte delle forze dell’ordine della Thatcher in tenuta antisommossa, il 18 giugno 1984 – poi la dissoluzione dell’Unione Sovietica, a partire dalla caduta del muro di Berlino (9 novembre 1989).

Transumanze politiche

L’offuscamento della concezione di Stato garante del benessere sociale, avvenuto all’inizio dei lunghi decenni “ingloriosi” (copy Thomàs Piketty) appariva agli occhi di Caffè “inconcepibile”, tanto da chiedersi: possibile che «di fronte a un’involuzione economica che è stata giudicata la più grave dopo quella del 1930, non si trovi nulla di meglio da proporre che ‘la riscoperta del mercato’?» (T.F. pag. 123). Un ritorno al passato analizzabile con strumenti diversi da quelli economici. Magari la lettura dell’ascesa del privatismo di David Harvey, secondo cui «è possibile interpretare la neoliberalizzazione come un progetto utopico finalizzato a una riorganizzazione del capitalismo internazionale, oppure un progetto politico per ristabilire le condizioni necessarie all’accumulazione di capitale e ripristinare il potere delle élite»[8].

Progetto impostosi grazie a vaste coalizioni che lo hanno reso irresistibile. A livello della teoria economica la convergenza dei neokeynesiani (“bastardi”) sulle posizioni mercatiste dei liberisti, offrendo argomenti al livello politico per la trasmigrazione di vasta parte della Sinistra (di “Terza Via”) dal campo di una classe operaia, ormai data perdente, a quello reputato vincente della finanza globalizzata. Il rapido arretramento del fronte progressista, poi la sua completa liquefazione.

Non a caso «Caffè riteneva che molto più insidioso delle posizioni ‘estremiste’ degli ultraliberisti, che proponevano un (impossibile) ritorno al laissez faire prekeynesiano, fosse l’atteggiamento ‘a mezza strada’, e dunque più pragmatico» (T.F. pag. 126). Il pragmatismo – per non dire l’opportunismo – di quella “Sinistra neoliberale” subalterna alla finanza, contro cui ora si indirizza la critica di Sahra Wagenknecht.

La recentissima denuncia – da parte della bestseller tedesca, già vicepresidente di Die Linke – di un’avvenuta mutazione della sinistra “sociale” in sinistra “alla moda” (Lifestyle-Linke), che ha «preparato l’ascesa delle destre dal punto di vista economico, distruggendo le garanzie sociali, liberando i mercati da ogni vincolo e amplificando all’estremo le disparità sociali e l’incertezza economica dei cittadini». Spesso, appoggiandone «l’ascesa anche dal punto di vista politico e culturale, schierandosi dalla parte dei vincitori. Mentre molti dei [suoi] portavoce invitavano a disprezzare i valori e il modo di vivere di quello che un tempo era il loro elettorato, con i suoi problemi, le sue rimostranze e la sua rabbia» (S.W. pag. 7). Quando i decenni trascorsi hanno ormai messo a nudo le promesse non mantenute del credo neoliberale, che «non pone più al centro della politica di sinistra problemi sociali e politico-economici, bensì domande riguardanti lo stile di vita» (S.W. pag. 24). Lo schematismo di chi cerca l’identità nella propria collocazione dalla parte presunta vincitrice nel proprio tempo; già identificata dalla vulgata marxista nella classe operaia “levatrice della storia” e oggi – grazie al giudizio ribaltato da parte della retorica mainstream – eleggendo tale il campo della finanza globalizzata emersa come egemone alla “fine della storia”.

Sicché la decrescente capacità di critica razionale mostrata dagli intellettuali induceva Zygmunt Bauman a ritenere che vi sarebbe un nuovo totalitarismo all’orizzonte, non imposto da dittatori pazzi ma prodotto da un adattamento volontario alle nuove dimensioni sociali del potere[9]. Una repressione del giudizio politicamente incorretto, in quanto non in linea con il pensiero mainsream, attraverso la censura linguistica; che ha fatto scrivere a Jonathan Friedman come «il politicamente corretto rappresenti uno strumento di controllo nei periodi in cui nuove élite si contendono l’egemonia. La fragilità delle loro posizioni appena acquisite porta con sé la paura di esporsi e il bisogno di controllare la sfera pubblica. Un controllo strumentalizzato attraverso l’elusione del contenuto semantico delle questioni e mettendo invece in atto un discorso morale di classificazione»[10]. E se invece – ci si chiede – si trattasse soltanto di bieco opportunismo, nella convinzione che il possesso dei giusti codici apra l’accesso alla struttura del potere? Fatto sta che – mentre si occulta il privilegio nel vittimismo del politicamente corretto; appunto, alla moda (S.W. pag. 134) – la messa all’indice delle opinioni di gran parte della cittadinanza (a partire dalla convinzione che il governo dovrebbe proteggere i soggetti più fragili della popolazione interna) ha spinto la maggioranza degli elettori a trovare rifugio sotto i vessilli della destra demagogica del “prima noi” (S.W. pag. 35). Che bel autogol! A fronte del fatto che «per milioni di persone l’esperienza fondamentale non sia più l’ascesa professionale, ma la caduta sociale o la paura che ciò accada» (S.W. pag.93).

Lo scenario già prefigurato (e paventato) da Federico Caffè. Una perturbazione nello spirito del tempo, della composizione sociale e delle logiche egemoniche di cui la Wagenknecht individua e censisce con dovizia di particolari sintomi ed effetti, seppure riferendone le cause a un’entità indefinita – quale la “sinistra alla moda” – da cui fa discendere una tassonomia di scarsa definizione e dubbia utilità: l’ampia panoplia che va dal Neoliberismo (il radicalismo anti-statalista e iper-individualista, ispirato da Friedrich Hayeck e Milton Friedman, che ripropone i miti ottocenteschi della Mano invisibile e del mercato auto-regolato) alla Sinistra Liberale (che fa riferimento alle Tesi di Friburgo del 1971 in cui si promuoveva l’interventismo liberal-democratico e il principio di Stato forte; tradotto nel progetto politico tedesco di alleanza tra partito liberale FDP e partito socialista SPD, che nel porterà Walter Scheel alla presidenza della Repubblica), per arrivare al Liberalismo (Illiberalismo) di Sinistra (la Terza Via del conformismo universalistico pro élite, promosso dalla globalizzazione finanziaria; ossia la macchina da guerra funzionale a estrazioni di ricchezze secondo logiche inique che ha sedotto politici in carriera; da Tony Blair a Bill Clinton, a Gerhard Schröder).

Nel lungo interregno

Dunque, Sahra Wagenknecht ci illustra dettagliatamente la tesi che quanto abbiamo chiamato “lo spirito del tempo” dominante negli ultimi quattro lustri sta mostrando tutti i propri limiti. A partire dal blocco sociale egemone scaturito dall’alleanza tra élite e borghesia benestante, quest’ultima inserita nell’area del potere grazie alle professioni valorizzate dalla globalizzazione – analisti simbolici e intermediari strategici (mentre gran parte del ceto medio precipita nella condizione di proletariato precarizzato)[11]. Una sedicente sinistra (neoliberale) in perdita della capacità di rappresentanza causa smascheramento delle sue ricette politiche truffaldine che promettono di ovviare alla crisi del welfare con l’alternativa dello workfare, l’occupabilità attraverso la formazione; mentre dilagano le ristrutturazioni labour saving e le mattanze di occupazione. Il caso singolare di masochismo politico praticato da questa sinistra – a vantaggio della destra – che favorisce la trasmigrazione nel campo opposto da parte della maggioranza del corpo elettorale, cui «l’orientamento liberale di sinistra, quello che domina la stampa, ha dato la sensazione che i suoi valori e il suo modo di vivere non fossero più rispettati» (S.W. pag. 225). Ed è forse questo il contributo più fertile della politica/politologa tedesca: il crescente distacco del ceto politicante alla moda nei confronti dell’elettorato un tempo captive, che ora esprime i propri disagi nei confronti delle trasformazioni indotte dalla globalizzazione: vedi la precarizzazione che distrugge la sicurezza del posto sicuro in una società multietnica. Istanze che la “sinistra alla moda” considera “conservatorismo tendente al reazionario”, con la conseguente irritazione dei perdenti nei confronti di chi in altri tempi avrebbe assunto il ruolo di loro difensore.

Semmai il punto dolente dell’analisi della Wagenknecht sta nel “che fare” per invertire la tendenza, dato che anche le sue indicazioni rimangono a livello di buoni sentimenti: ripristino dei valori comunitari, ritorno allo Stato sociale, controllo democratico della politica, ricostruzione di un settore pubblico forte, re-industrializzazione dell’Europa e nascita di una vera identità europea… In sostanza il remake dei “Trenta gloriosi”.

A conferma che quanto emerge è la carenza di pensiero creativo e progressista per il governo della transizione. Come Federico Caffè prefigurava proprio nel suo ultimo saggio dal titolo icastico – “In difesa del Welfare State” – prima della misteriosa scomparsa: «è necessario introdurre nel sistema di pensiero keynesiano nuovi ingredienti»[12]. In questo lungo interregno in cui stiamo vegetando, mentre l’antico ordine va in consunzione.

E continuerà a farlo dalle nostre parti finché imperverseranno dirigenti politici come l’attuale ministro del lavoro, che dichiara impunemente: «il nostro Paese sconta una perdita di competitività cui si è pensato di far fronte con una flessibilizzazione del costo del lavoro, ma questa strategia non ha funzionato»[13].

Povero Federico Caffè maestro inascoltato.

Anche se – nel caso – è stato fortunatamente Alessandro Robecchi a premurarsi di replicare all’imbarazzante (e presunto) esponente della sinistra italiana di governo: «è come se i passeggeri del Titanic chiamati a votare, confermassero il vecchio capitano, anche se la sua strategia non ha funzionato. Sennò (lo sentirete dire milioni di volte) arriva un capitano di destra che magari ci fa affondare»[14].

NOTE

[1] J. M. Keynes, Sono un liberale? E altri scritti, Adelphi, Milano 2010 pag. 222

[2] K. Polanyi, Per un nuovo Occidente, il Saggiatore, Milano 2013 pag. 189

[3] W. Streck, Come finirà il capitalismo, Meltemi, Milano 2021 pag. 81

[4] J. M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, UTET, Torino 1971 pag. 299

[5] J. M. Keynes, Esortazioni e profezie, il Saggiatore, Milano 2017 pag. 273

[6] K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974 pag. 92

[7] J. M. Keynes, Sono un liberale?, cit. pag.160

[8] D. Harvey, Breve storia del Neoliberismo, il Saggiatore, Milano 2007 pag. 29

[9] Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma Bari 2006 pag. 15

[10] J. Friedman, Politicamente corretto, Meltemi, Milano 2018 pag. 322

[11] R. Reich, L’economia delle nazioni, il Sole 24Ore, Milano 1991

[12] F. Caffè, In difesa del Welfare State, Rosemberg & Seller, Torino 1986 pag. 111

[13] Andrea Orlando, intervista de la Stampa del 31 maggio 2022

[14] A. Robecchi, “Gli strateghi adesso ammettono gli errori”, il Fatto Quotidiano 1 giugno 2022



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