Tassa piatta: la penultima provocazione del governo

Dopo il ponte sullo stretto, il blocco alle Ong, l'autonomia differenziata, ecco l'ennesima provocazione del governo Meloni, come se non aspettasse altro che vendicarsi di settant’anni di antifascismo.

Mauro Barberis

Uno potrebbe chiedersi perché un governo che ha una chiara maggioranza in Parlamento, e che potrebbe durare in carica cinque anni, rovesciando l’Italia come un calzino, da mesi avanzi una provocazione al giorno. Risultato: spaventa l’elettorato sino a pochi mesi fa rassicurato da Draghi, radicalizza l’opposizione, costringendola a unirsi, e aizza il proprio elettorato, come se non aspettasse altro che vendicarsi di settant’anni di antifascismo. In più, la destra si aliena gli alleati europei e gli stessi ex alleati russi: come se il secondo paese più indebitato al mondo non avesse, ancora e sempre, bisogno di aiuto.

Forse non governa davvero la Meloni, ma i suoi colonnelli inebriati dal potere; forse questi credono che in cinque anni possano rabberciarsi anche i provvedimenti più sgangherati, come hanno fatto sin qui. Oppure non ci credono neppure loro, ai cinque anni, e allora rovesciano il calzino, pardon l’Italia, tutto e subito, dall’oggi al domani. Fatto sta che ogni giorno avanzano una proposta da urlo: dal presidenzialismo all’autonomia differenziata; dal fermo delle Ong al ponte sullo Stretto, il classico dei rivoltatori di calzini. La penultima provocazione – perché tempo mezz’ora se ne inventeranno un’altra – è la tassa piatta (flat tax).
Qui, almeno, il senso si capisce. Soddisfatte le promesse fatte ai lavoratori autonomi, rassicurandoli che i loro cento miliardi di evasione non si recupereranno mai, ora il governo deve promettere qualcosa anche a dipendenti e pensionati i quali, come ha ricordato Maurizio Landini al congresso della CGIL, pagano già ora il 94% dell’Irpef, e vedono il loro lavoro tassato più delle rendite finanziarie. A costoro, e all’esercito di commercialisti, consulenti, patronati con le mani nei capelli già a marzo per le prossime dichiarazioni dei redditi, la destra promette addirittura il «fisco amico».

Così, dinanzi a decine di milioni di italiani assetati di una qualsiasi semplificazione, la Meloni e i suoi, senza discuterne con nessuno e con una delega fiscale che gli permetterà di non doverne più discutere neppure in Parlamento, hanno deciso la tassa piatta.
Per questo biennio, una riduzione delle aliquote fiscali da quattro a tre, per la fine della legislatura un’aliquota unica, uguale per ricchi e poveri. Una tassa che, sperimentata solo in una mezza dozzina di paesi est-europei – gli unici veri alleati della destra – ha solo ridotto la spesa sociale aumentando il divario fra ricchi e poveri.

Una provocazione, perché viola a favore dei ricchi il principio della progressività delle imposte (art. 53 Cost), ma che la Meloni ha avuto il coraggio di presentare come se niente fosse al congresso della CGIL, costringendo Landini, una volta tanto d’accordo con gli altri sindacati, a minacciare lo sciopero generale. Sapete però qual è il problema? È difficile mobilitare un paese che ignora, o vuole ignorare, i condoni per gli evasori già previsti a bilancio, o i concordati preventivi biennali per le aziende di Confindustria, e che della tassa piatta capisce solo che si tratta comunque di una semplificazione.

Forse, sarebbe piaciuta persino a mio padre, ex carabiniere con la quarta elementare che passava l’intero mese di maggio a compilare la dichiarazione dei redditi, credendo che le illeggibili istruzioni fossero rivolte lui e non ai commercialisti. Forse piacerebbe persino a suo figlio, dipendente che per non pagare quanto un milionario si fa il sangue marcio già a marzo. Gli piacerebbe, beninteso, se non si domandasse come diavolo faremo a pagare meno tasse e a non peggiorare ancora il debito dello Stato: per non parlare della sanità, della scuola, dei trasporti e dei servizi pubblici al collasso.



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