Formazione e premialità: la scuola negata

Legare la progressione stipendiale dei docenti a una formazione professionale preordinata dall'alto – come prevede la riforma Bianchi – è in palese violazione di norme e principi etici.

Giorgia Loi – Gruppo La nostra scuola

Ha suscitato un’indignazione diffusa la bozza della riforma che il Ministro Bianchi sta portando in Cdm per un’approvazione d’urgenza vincolata ai fondi Pnrr: legare la progressione stipendiale dei docenti a una formazione professionale preordinata dall’alto, in palese violazione di norme e principi etici, spaventa e apre una strada pericolosa per tanti motivi.

Anzitutto è proprio il linguaggio che non funziona: definire “premio” gli scatti stipendiali degli insegnanti appare fuori luogo e contribuisce a svilire ulteriormente il credito sociale della categoria, mentre attende da oltre dieci anni che il contratto sia legittimamente equiparato al costo della vita. Il concetto di premialità è ben lontano da quello di diritto e presuppone un meccanismo di eccezionalità e competizione che poco si addice al godimento legittimo di diritti naturali. “Un diritto non è ciò che qualcuno ti concede, ma ciò che nessuno può toglierti” disse il grande giurista statunitense Ramsey Clark. Ora, non solo la retribuzione per il lavoro svolto è un diritto inalienabile, ma secondo la Costituzione (art. 36) deve anche essere proporzionata e garantire un tenore di vita adeguato al contesto storico e ambientale. Dunque, va da sé che l’adeguamento periodico al costo della vita e la progressione di carriera non possono in alcun modo andare soggetti a condizioni accessorie come la formazione che, invece, rientra nella piena autonomia del docente, tutelata anch’essa dalla Costituzione (art. 33), oltre che dal Testo Unico Scuola (dlgs 297/1994 Art. 1).

La logica del “premio”, di contro, è legata a una visione para-aziendale e capitalistica che a scuola prende piede da qualche anno ormai: sarà sufficiente ricordare il “bonus di merito” della 107 renziana o la carta del docente, ma allo stesso meccanismo ritengo appartengano anche le retribuzioni varie per le funzioni strumentali et similia all’interno dei vari istituti, in virtù dei quali i nostri collegi da anni ormai si sono trasformati quasi esclusivamente in organi deliberanti che assomigliano sempre più a mostruosi Consigli di amministrazione di S.p.A e sempre meno a luoghi di costruttivo confronto democratico sulle buone pratiche dell’insegnamento.

Il fine è sempre quello: imporre ai docenti una vile condizione di subalternità rispetto a organi altri che poco hanno a che fare con lo spirito autentico della scuola e molto con quello camuffato da buone intenzioni di Invalsi, Indire, a loro volta sudditi di Fondazione Agnelli e Confindustria. Premiare significa aumentare gli standard di efficienza e produttività del lavoratore, fare di lui un anello dell’ingranaggio, privarlo di volontà, renderlo suddito di un indottrinamento stabilito per legge e per giunta su contenuti che sono spesso distanti anni luce dal fine dell’Istruzione. Mentre la progressione stipendiale, per diritto, deve essere legata all’anzianità da cui derivano l’esperienza e la maturazione che, come è noto, crescono in una perenne attività di studio e ricerca personale, indispensabile per dare qualità a questo lavoro.

Ancora peggiore appare la mossa di vincolare gli aumenti in busta paga ai risultati degli studenti: una follia che denota la violenza con cui da decenni ormai si vogliono imporre i parametri aziendali alla scuola. Non c’è niente di più complesso del rapporto insegnamento-apprendimento, che rifugge categoricamente a qualsiasi pretesa di standardizzazione dei risultati: non necessariamente da un buon insegnante si ha un buon allievo e viceversa poiché le variabili sono innumerevoli, come capita sempre nell’incontro di due anime. Non aver capito questo da parte del legislatore ha portato all’abominio della 107 e a quest’ennesima riforma che ne è la più compiuta realizzazione.

Lo stesso meccanismo presiede alla riforma del reclutamento: tutto ruota attorno a una visione efficientistica ed economicistica, a iniziare dal linguaggio. La parola “crediti”, presa in prestito dal lessico finanziario, è inflazionata ormai da tempo nel vocabolario della scuola, così per fare l’insegnante occorreranno 60 Cfu e una corsa a ostacoli fatta spesso di quiz a crocette che non testano niente, men che meno l’attitudine e la preparazione di un futuro insegnante. Debiti, crediti, test in tutte le salse, l’ossessione di misurare anche l’immisurabile, di capitalizzare ogni passo, di monetizzare a breve e lungo termine ogni esperienza, di trasformare il “docere” in un mestiere qualunque, mentre in realtà non lo è e non lo sarà mai: è la scuola negata e chiede di essere liberata da queste logiche perverse che non le appartengono.

“Riforma Bianchi, un’umiliazione per gli insegnanti”

(credit foto ANSA / FABIO FRUSTACI)



Ti è piaciuto questo articolo?

Per continuare a offrirti contenuti di qualità MicroMega ha bisogno del tuo sostegno: DONA ORA.

Altri articoli di Rubriche

Contribuiscono Linda Kinstler, Valeria Rando, Daniella Ambrosino, Pierfranco Pellizzetti, Chiara Piaggio, Silvano Fuso.

Il recente femminicidio di Giulia Cecchettin ha riproposto nel dibattito pubblico il tema della violenza contro le donne.

Amnesty International ha denunciato le autorità iraniane per stupro e violenza sessuale a danno delle donne scese in piazza contro il regime.