Freedom Theatre: resistenza culturale nel campo profughi di Jenin

Sono ore terrificanti per gli abitanti del campo profughi di Jenin, città della Cisgiordania occupata. Lo scorso 14 dicembre si è concluso il quindicesimo assedio del campo da parte dell'esercito israeliano negli ultimi due mesi. Otto le vittime e decine gli arresti: tra questi ci sono Ahmed Tobasi, rilasciato dopo 24 ore, e Mustafa Sheta, rispettivamente il direttore artistico e operativo del Freedom Theatre, un'oasi di resistenza culturale all'interno del campo. Proponiamo un'intervista mai pubblicata fatta a Tobasi e Sheta lo scorso luglio, rilevante per la sua attualità nonostante il tempo trascorso.

Mosè Vernetti e Micol Meghnagi

Mentre Gaza continua ad essere sotto le bombe, nelle ultime settimane l’esercito israeliano e i coloni armati hanno scatenato rappresaglie indiscriminate, assalti ai villaggi, incursioni nelle città e all’interno dei campi profughi di tutta la Cisgiordania.
La città di Jenin è stata nuovamente assediata. Lo scorso 14 dicembre si è conclusa la quindicesima incursione dell’esercito in quest’area dallo scoppio dell’ultima guerra, iniziata l’8 ottobre all’indomani del brutale attacco di Hamas nel Sud di Israele. Sono otto le vittime e oltre cento gli arresti di questa ultima invasione. I bulldozer hanno divelto le strade del campo profughi, distrutto edifici, circondato l’ospedale di Jenin, e bloccato le ambulanze: per ore è stato impossibile raggiungere i feriti.
Tra gli arrestati ci sono anche il direttore generale, Mustafa Sheta, e quello artistico, Ahmed Tobasi, del Freedom Theatre, oasi di resistenza culturale nel cuore del campo:  Tobasi è stato rilasciato dopo 24 ore di detenzione, mentre di Sheta non si hanno ancora notizie.
Il Freedom Theatre ha origini lontane. Nasce dopo la Seconda Intifada, dall’incontro di Juliano Mer-Khamis, attore ebreo e palestinese, e Zakaria Zubeidi, ex comandante delle  Brigate dei Martiri di Al Aqsa (Fatah) a Jenin. È erede del teatro di Arna Mer, la madre di Juliano, che Zakaria frequentava da bambino. Arna è stata una delle prime ebree israeliane a combattere attivamente l’occupazione della Palestina. Durante la Prima Intifada, alla fine degli anni Ottanta, fondò a Jenin lo Stone Theatre: un piccolo teatro comunitario per i bambini del campo profughi. Suo figlio Juliano, ha racchiuso quegli anni in un capolavoro dal titolo “I bambini di Arna”, testimonianza dolorosa della realtà del campo profughi di Jenin.
Dopo anni di combattimenti con le armi, per Zakaria divenne chiaro che “le parole erano in definitiva più potenti dei proiettili”. Una convinzione condivisa da Juliano, che con il Teatro si proponeva di essere “la forza principale, in collaborazione con altre, nella generazione di una resistenza culturale, portando sulle spalle i valori universali di libertà e giustizia”. Juliano è stato ucciso in circostanze mai chiarite nel 2011 di fronte al suo teatro, da un uomo armato e mascherato, probabilmente palestinese. La sua arte e la sua identità costituivano una sfida radicale ad entrambe le identità nazionali.
Il Freedom Theatre esiste ancora. Vive, grazie al lavoro instancabile di Tobasi e Sheta, cresciuti con Arna, e poi, studenti di Juliano. Un luogo che rifiuta di soccombere alla logica dell’odio, uno spazio di gioco perché, come si legge dai canali social del teatro, “per cambiare una realtà opprimente, dobbiamo dimostrarla e renderla comprensibile. Così come non possiamo immaginare più colori di quelli che i nostri occhi hanno visto, non possiamo immaginare una realtà che vada oltre le nostre esperienze e i nostri quadri di riferimento. Allora possiamo sognare e creare un cambiamento insieme.”
La scorsa estate, a quattro giorni dal più violento assedio del campo profughi di Jenin dal 2002 abbiamo avuto l’occasione di intervistare Tobasi e Sheta. L’intervista è andata in onda lo scorso 7 luglio sull’emittente radiofonica palestinese Radio Alhara. Un racconto che mostra con meticolosa continuità, delle violenze sistematiche del progetto israeliano di occupazione in Cisgiordania, la cui fisicità si esprime sia con i bulldozer dell’esercito, che con i fucili dei coloni. La riproponiamo oggi, perché le loro parole sembrano essere senza tempo e ci restituiscono una testimonianza unica di resistenza in un contesto di privazione strutturale.

“Il Freedom Theatre si trova all’interno del campo profughi di Jenin. L’area del campo è di un chilometro quadrato, dove vivono circa 17.000, di cui 4000-5000 bambini, e in tutto il campo non c’è neanche un parco giochi”. Così esordisce Tobasi, seguito dal suo collega Sheta, che, come prima cosa, ci racconta dell’invasione avvenuta quattro giorni prima. “Alle due del mattino di lunedì 3 luglio, hanno assediato il campo da ogni lato. 150 persone sono state ferite, 12 uccise, e 140 arrestate. Gli attacchi delle forze israeliane a Jenin da qualche anno sono ormai una costante. Ma questa volta è stato diverso. La distruzione è pervasiva. Ci aspettiamo il peggio nei prossimi mesi”. E continua, con un appello alla comunità internazionale: “Nessuno parla dell’origine del problema. Nessuno mette in discussione l’occupazione israeliana. Nell’attacco del 2002 hanno ucciso più di 50 persone e ridotto ad un cumulo di macerie le nostre case. Oggi, 21 anni dopo, la situazione non è cambiata di una virgola”. E ancora. “In Palestina anche fare teatro può ucciderti. Il Freedom Theatre lotta per la libertà individuale ed espressiva di ogni persona, dentro e fuori dal campo. Se non siamo liberi prima di tutto internamente, se non liberiamo le nostre anime, la nostra società e la Palestina, non sarà mai libera”.

Come nasce il Freedom Theatre ?
Tobasi: “La storia del teatro inizia all’indomani della Prima Intifada. Il sistema scolastico in Palestina era collassato. Arna, donna ebrea e israeliana sposata con un uomo palestinese e attivista contro l’occupazione, ha iniziato a venire nel campo portando carta e pennarelli per far colorare i bambini, tra le strade di Jenin. Poco dopo ha aperto due case per i bambini nel campo. Una per i giovanissimi, e una per quelli più grandi. Suo figlio Juliano, attore all’epoca famoso in Israele, ha dato vita a un corso di teatro per noi bambini. Così abbiamo portato sul palcoscenico il primo spettacolo teatrale nella storia del campo di Jenin. Juliano ha portato la magia tra le macerie del nostro campo. Nessuno qui conosceva il teatro”.
Sheta: “Dopo la morte di Arna, Juliano ha continuato il suo lavoro. Il gruppo di bambini che seguiva il suo corso di teatro è cresciuto nel periodo della Seconda Intifada, e molti di  loro si sono uniti alla lotta armata. Nell’invasione del 2002 lo Stone Theatre (così si chiamava il teatro costruito da Arna dopo la Prima Intifada) è stato distrutto, e i bambini di Arna, ormai adulti, erano quasi tutti morti. Tra i sopravvissuti c’era Zakaria. Con lui, nel 2006, Juliano ha fondato il Freedom Theatre”.
Tobasi: “Il teatro, diretto da Juliano, aveva una programmazione ricca e provocatoria. Juliano stimolava  le persone del campo, le obbligava a confrontarsi sui costrutti sociali e culturali della nostra società, di tutte le società. Il teatro di Juliano ha portato un nuovo linguaggio nel nostro modo di resistere. La sua condizione esistenziale, essere ebreo e palestinese, rompeva ogni schema. Juliano amava ripetere che il palco era la sua AK-47, e che la Terza Intifada sarebbe dovuta essere artistica e culturale, con danze, film, video, opere teatrali, e poesia. Abbiamo iniziato a raccontare la Palestina in un modo diverso”.

In che modo raccontate la Palestina?
Tobasi: “Il modo in cui il mondo dipinge noi palestinesi da quasi un secolo, entra in crisi ogni volta che si scontra con la realtà della Palestina. Ci vogliono violenti così che possiamo essere tutti presentati come dei terroristi. Le armi possono uccidere ma non possono portare veramente alla libertà. Attraverso il teatro, spieghiamo perché molti dei ragazzi imbracciano le armi qui a Jenin.”
Sheta: “Juliano ha portato il conflitto su un piano differente. Juliano ha avuto il coraggio di affrontare le complessità, ha iniziato a parlare della corruzione tra l’Autorità Palestinese e lo Stato di Israele. Dopo che è stato ucciso, abbiamo continuato il suo lavoro per la libertà di Jenin e della Palestina”.

Cos’è il Freedom Theatre per te?
Sheta: “Il Freedom Theatre è un movimento politico, sociale e culturale. Noi siamo dei freedom fighters. È uno spazio che le persone del campo hanno per esprimersi liberamente. Per noi palestinesi, l’espressione artistica è parte integrante della ricerca di giustizia, uguaglianza e libertà. La visione del Freedom Theatre è quella di un movimento di resistenza al centro di una società palestinese libera e critica. Miriamo a far crescere una nuova generazione in grado di sfidare tutte le forme di oppressione. Lottiamo contro l’apartheid, la colonizzazione e l’occupazione militare israeliana, ma anche contro le violazioni interne dei diritti umani, in particolare dei diritti di donne e bambini. Qui al teatro non ci confrontiamo solo con l’occupazione israeliana. Dobbiamo confrontarci con diverse realtà, quella dell’occupazione militare israeliana, ma anche quella interna alle nostre comunità, e alla corruzione di chi ci governa. Qui c’è chi la pensa diversamente da noi, ma nonostante le diversità, ad alcuni dei nostri eventi hanno partecipato quasi tutti gli abitanti del campo”.
Tobasi: “Il teatro mi ha salvato la vita. Lo stesso è stato per tantissime altre persone. Per questo il Freedom Theatre deve rimanere aperto, nonostante l’occupazione militare, le ripetute invasioni e le innumerevoli difficoltà. Per le persone del campo che vogliono esprimersi e che vogliono continuare a vivere. Proviamo ad interagire anche con le comunità più conservatrici del campo, portando sul palcoscenico temi che vanno dai diritti delle donne e delle quelli soggettività libere. A settembre organizzeremo il festival del teatro femminista, qui, all’interno del campo profughi di Jenin. Quando ci accusano di contaminare le nostre tradizioni con la cultura occidentale, cerchiamo di lavorare insieme su queste divisioni”.

Cosa significa gestire un teatro sotto occupazione e all’interno di un campo profughi?
Tobasi: “Israele decide per noi, decide chi dobbiamo essere e come dobbiamo agire. Ci vogliono violenti. Le politiche di occupazione esistono per controllarci e per dividerci. I palestinesi sono a Gaza, in Cisgiordania, nelle zone A, B e C, a Gerusalemme e dentro Israele. I palestinesi sono nei campi profughi fuori dalla Palestina storica e dentro la Palestina storica. Il mondo si riferisce a noi come uno stato, ma noi non abbiamo uno stato. Viviamo una doppia occupazione, anzi una tripla occupazione. Quella israeliana, quella di chi ci governa e quella interna alle nostre comunità. Israele ci considera tutti terroristi. Considera terrorista anche me. E quindi lo è automaticamente la mia famiglia, mia madre, mio padre, i miei figli e lo sono anche i miei amici. Io sono stato quattro anni in prigione. Mustafà un anno. Come se non bastasse, l’Autorità Palestinese spende milioni di dollari in difesa. Ma quale difesa? Non abbiamo neppure uno stato. Dovrebbero supportare la cultura, l’arte, il cinema che racconta la quotidianità delle nostre vite, dei nostri ragazzi. Molti dei ragazzi del campo non sono mai usciti da qui. Il desiderio più grande di alcuni è quello di vedere il mare. In questa terra ci sta spazio per tutti. Anche i nostri ragazzi hanno il diritto di essere liberi.”
Come si articolano le attività del Freedom Theatre oggi ?
Tobasi : “Oggi il Freedom Theatre gira per il mondo raccontando la nostra storia, che è la storia di milioni di persone. Non siamo alla ricerca di pietà da parte del pubblico. Noi usiamo il teatro per lottare: siamo artisti e non terroristi. Resistiamo agendo, rompendo le barriere, decostruendo i pregiudizi e le etichette che vogliono noi, palestinesi, tutti in un certo modo.  Durante un tour in Inghilterra, ci ha accolto una folla inferocita in protesta per la nostra presenza. Lo stesso è accaduto negli Stati Uniti. Le nostre parole fanno paura”.
Sheta: “Con questa invasione Israele ci ha riportato indietro nel tempo, al massacro del 2002. Nonostante il dolore di questo momento, è stato straordinario vedere amici e amiche arrivare in supporto da ogni angolo del mondo. Questa è la dimostrazione che 15 anni di presenza attiva dentro e fuori la Palestina hanno portato a dei risultati. Continuiamo a lavorare per formare una generazione di artisti e leader che un giorno saranno in prima linea nel movimento di liberazione del nostro popolo”.
CREDITI FOTO: FREEDOM THEATRE



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