Fuga dal Pd di Genova: che sia la svolta a sinistra per il partito?

I giornali nazionali hanno fatto titoli a tutta pagina sull’uscita dal Pd di 32 iscritti a Genova. Motivazione: “Il Pd si è spostato troppo a sinistra”. Purtroppo questa affermazione non è vera. Purtroppo, perché milioni di lavoratori e cittadini vorrebbero proprio questo: un partito che difenda gli interessi dei lavoratori e dei ceti meno abbienti e combatta il crescere delle diseguaglianze.

Nicola Caprioni

I grandi giornali nazionali hanno fatto titoli a tutta pagina e articoloni sull’uscita dal Pd di 32 iscritti a Genova, pilotati dalla consigliera comunale Cristina Lodi e dal consigliere regionale Pippo Rossetti.
Erano tutti esponenti da “base riformista” la corrente dei renziani rimasti (o lasciati?) nel Pd, che comprende personaggi come il democristiano guerrafondaio Guerini, l’ex braccio destro di Renzi, Lotti, Del Rio e altri.
In realtà Cristina Lodi era stata al centro delle polemiche, perché, capogruppo del Pd al consiglio comunale di Genova, aveva votato a favore di un ordine del giorno che equiparava comunisti e nazisti, scelta che la costrinse alle dimissioni da capogruppo. Pippo Rossetti è invece un democristiano storico, siede in regione da tempi antichissimi, transitando per DC, PPI, Margherita, Pd.
Le motivazioni delle dimissioni sono “Il Pd si è spostato troppo a sinistra”. Purtroppo questa affermazione non è vera. Purtroppo, perché milioni di lavoratori e cittadini che non vanno più a votare o dirigono il loro voto su altre formazioni, vorrebbero proprio questo: un partito che difenda gli interessi dei lavoratori e dei ceti meno abbienti e combatta il crescere delle diseguaglianze.
L’elezione di Elly Schlein alla segreteria del partito, fortemente voluta dal popolo dei gazebi e contrastata dalla stragrande maggioranza dei dirigenti del partito, che infatti non l’avevano votata, era stata determinata da questa rabbia popolare che richiedeva un partito di sinistra.

La Shlein è in realtà alle prese col “paradosso di Renzi”. Renzi quando lanciò l’idea di rottamazione dei vecchi gruppi dirigenti del Pd, abbagliò come un abile prestigiatore molte persone, che speravano in un partito ringiovanito e pronto a nuove battaglie. In realtà la rottamazione produsse un effetto contrario. Accantonò vecchi dirigenti con buona preparazione politica ed esperienza per sostituirli con nuovi ambiziosi in carriera, che consideravano il partito più come uno strumento di crescita e successo personali che una scelta ideologica e di appartenenza.
La stessa Schlein ha più volte usato l’espressione del partito dei cacicchi. Un partito dominato da piccoli ras territoriali, diviso in feudi e baronie, il cui unico fine era quello di occupare posti di governo sia a livello nazionale, sia nelle regioni che nei comuni e in ogni altro posto possibile.
Si tratta di una contraddizione di non facile soluzione. Da un lato Schlein è stata eletta solo per eliminare i vari cacicchi locali. Se vuole rimanere in carica deve compiere una spietata operazione chirurgica, eliminando non solo i dirigenti di cultura renziana, ma anche lo stesso documento fondativo del Pd, quella carta dei valori, cui talora si richiama qualcuno, quando allude allo spirito del Lingotto. Quella carta è un inno al liberismo, abbandona ogni riferimento ai valori del socialismo, ignora la parola sfruttamento e non fa cenno ai danni prodotti da un capitalismo sempre più feroce, che non esita in nome del profitto a rovinare persino l’ambiente nel quale viviamo.
I due fuoriusciti dal Pd genovese e i loro drappello di fedeli parlano di una mancata fusione tra le varie culture riformistiche e citano quella cattolica, quella liberale, quella socialista e quella comunista. Stante il fatto che la cultura comunista è rimasta schiacciata sotto il crollo del muro di Berlino, non si è nemmeno cercato di recuperare quanto di buono c’era nella originale presenza dei comunisti italiani a cominciare da Gramsci, passando per la “democrazia progressiva”, la via italiana al socialismo, la buona prassi amministrativa dei comuni si sinistra e dal forte radicamento del partito tra la classe operaria, i contadini, i giovani e il mondo intellettuale. La cultura socialista e veramente riformista è stata schiacciata, anche per un vecchio e inaccettabile settarismo (e su questo dovremmo tutti insieme riflettere anche autocriticamente). In realtà delle quattro culture citate nel Pd ne sono rimaste solo due, una prevalente, la liberale (ma non la liberal-socialista di Rosselli e del Partito d’Azione, ma quella conservatrice dei Malagodi) e quella cattolica (in realtà leggi democristiana, con le sue antiche prassi di clientelismo).

Ora i fuoriusciti dal Pd a Genova confluiscono nel gruppo di Calenda. Pubblicamente hanno dichiarato di voler rimanere all’opposizione sia in Comune che in Regione. In realtà i due consiglieri comunali di Azione sostengono la maggioranza di destra del sindaco Bucci, e cantano le lodi dello stesso “lo sogno in Parlamento al mio fianco”. Italia Viva a Genova fa parte della maggioranza di destra che sostiene Bucci e sono noti e pubblici gli ammiccamenti tra la renziana Raffaella Paita e Toti per quanto riguarda la Regione.
Può essere che i due maggiorenti usciti dal Pd, cresciuti in una logica di un partito che deve sempre essere in maggioranza, siano alla ricerca di un piazzamento. D’altra parte Toti si è mostrato molto generoso con chi tradisce, come la ex sindaca Pd di Vado Ligure, Monica Giuliano, ricompensata da Toti con un incarico che le frutta 140.000 euro l’anno.
Quando i moderati del Pd parlano di “vocazione maggioritaria”, definizione che trovo un po’ ridicola per un partito che è al 20% nei sondaggi, parlano in realtà di vocazione governativa, che è decisamente opposta alla necessità di un partito che, affondando le sue radici nei quartieri urbani, nelle fabbriche, nelle campagne e nelle scuole, sappia unire e rifondare la sinistra in un grande e unico partito.
Al paradosso di Renzi, ora, si sostituisce quello di Schlein, lei deve portare il partito a sinistra, perché questo è il mandato che le hanno conferito quanti l’hanno votata, ma il partito, nella sua stragrande maggioranza di sindaci, consiglieri regionali, parlamentari e altro è decisamente contrario e inoltre teme per le proprie “careghe”. O Schlein riesce a piegarli e vincerli, o questi riusciranno a metabolizzarla e a rovinarla, oppure a farla fuori.
Non credo che questo processo possa essere indolore e, evitando il noioso e bolso politicamente corretto, dirò che se personaggi come Marcucci, Guerini, Lotti, Del Rio e altri se ne vanno non è poi così un male.
Occorre prendere coscienza del fatto che il presunto “melting pot” delle diverse culture riforniste, come taluni lo definiscono, è stato un fallimento e che a un miscuglio eterogeneo che non riesce a esprimere un’identità è preferibile avere un partito identitario della sinistra, di ispirazione socialista e democratica e un’area vagamente progressista, che possano eventualmente costituire alleanze elettorali, ma mai un partito unico.
La storia della sinistra politica in Italia è sorta proprio a Genova il 15 agosto 1892, ed è nata da una scissione tra gli anarchici da un lato e i socialisti dall’altro. Non sempre le scissioni sono un fatto negativo.
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