Galleria Colonna: dalla marcia su Roma al turismo di lusso

I cento anni della galleria romana, oggi dedicata ad Alberto Sordi, tra impresa privata e disinvestimento pubblico.

Mariasole Garacci

In questi giorni, tra le forti impressioni provocate dall’avvento di un nuovo governo guidato da Giorgia Meloni, la storia nazionale ricorda le drammatiche giornate della marcia su Roma del 1922, di cui, mentre scrivo, ricorre il centesimo anniversario. Un meno significativo centenario che certamente sarà passato inosservato, e che pure racconta un brano di storia italiana ancora attuale, però, è quello della quasi contemporanea inaugurazione, il 20 ottobre del 1922, proprio a Roma (a pochi passi dalla Porta del Popolo da dove i fascisti fecero, giorni dopo, il loro ingresso ufficiale nella capitale) della grandiosa Galleria Colonna, oggi nota come Galleria Alberto Sordi per essere stata dedicata all’attore romano nel 2003. Le vicende di questo angolo della città, infatti, si intrecciano ad alcuni passaggi della storia del nostro Paese e, soprattutto, ne riflettono alcuni amari fallimenti.

Per comprendere il contesto, le aspettative e i passi falsi legati alla costruzione dell’eclettico e ambizioso edificio, bisogna ricordare che, cinquant’anni prima, la Camera dei deputati del neonato stato italiano si era insediata a Montecitorio, nelle immediate vicinanze, ed era sorta, per questo, l’esigenza di migliorare la viabilità di quel tratto del Corso ormai ritenuto troppo modesto per l’importanza istituzionale dei nuovi uffici e per la comunicazione tra Piazza Barberini e il quartiere Prati prevista attraverso la nuova via del Tritone inclusa nel piano regolatore del 1883. Tra il 22 giugno e il 4 dicembre del 1889, dunque, pur in assenza di un vero progetto e con tutta la fretta e le polemiche che spesso accompagnano grandi e improvvide decisioni politiche italiane, venne demolito il seicentesco Palazzo Spada dei Boncompagni Ludovisi, che occupava l’isolato ai piedi della colonna di Marco Aurelio dove oggi si trova la galleria; l’accordo per l’esproprio alla storica famiglia romana si era faticosamente concluso solo l’anno prima, quando i Boncompagni Ludovisi avevano già iniziato la costruzione, con progetto di Gaetano Koch, del nuovo palazzo in Via Veneto che più avanti diverrà residenza della regina madre Margherita di Savoia (dopo l’assassinio di Umberto I) e poi sede dell’Ambasciata degli Stati Uniti d’America (che acquisteranno l’immobile nel 1946). La sistemazione di Piazza Colonna e il nuovo spazio che così veniva a liberarsi stimolò l’iniziativa di imprenditori e dubbi uomini d’affari, di professionisti e dilettanti, in una stagione romana di speculazione edilizia e urbanistica per certi versi simile a quella dei decenni più recenti; a rendere la situazione più spinosa si aggiunse, da parte del Comune di Roma, la ricerca di un compromesso tra la povertà di risorse pubbliche disponibili per la costruzione di un grande edificio, le ragioni estetiche di rispetto del contesto storico e il guadagno finanziario da assicurare al privato che avrebbe assunto le spese di realizzazione.

Solo nel 1911, dopo diverse ipotesi d’uso, utilizzi effimeri e finanziamenti mancati, e quando la nuova costruzione era diventata ormai una “questione” capace di appassionare e dividere i romani, la giunta capitolina guidata da Ernesto Nathan approvò il progetto di una galleria sul modello di quella milanese dedicata a Vittorio Emanuele II (o anche, con un occhio all’Europa, della parigina Galerie Vivienne o della londinese Burlington Arcade) e ne affidò la realizzazione all’architetto livornese Dario Carbone, concessionario dell’impresa insieme con altri soci. In assenza di un concorso ufficiale, del resto, già in passato Carbone aveva presentato un progetto per la galleria in collaborazione con Gino Coppedè, ma in questa nuova fase una revisione formale del Consiglio superiore di antichità e belle arti, intervenuto d’autorità, attenuò la prima ideazione giudicata eclettica e un po’ troppo ridondante a favore di una soluzione più sobria.

Riguardo il rapporto del nuovo edificio con quell’area che negli anni era stata usata come giardino di rovine e poi come spazio per padiglioni effimeri durante l’Esposizione del 1911, Carbone scrisse di essersi imposto “il rispetto di un principio (di gran valore per il pubblico): se il popolo di Roma è abituato a godere come suolo pubblico l’attuale sterrato, ebbene bisognava che il costruttore gli lasciasse altrettanto suolo di libero passaggio, nella erigenda costruzione”. Per l’effettivo inizio dei lavori, però, si dovette aspettare ancora il 1914 (sindaco di Roma è ora Prospero Colonna), e la realizzazione della galleria si sarebbe trascinata molto a lungo per concludersi solo nel 1940 (Carbone, nel frattempo, era morto) sotto la direzione di Alberto Calza Bini, attivissimo fin dai tempi della Marcia su Roma, nonché organizzatore e segretario del Sindacato nazionale fascista architetti dal 1924.

In epoca più vicina a noi, la Galleria Colonna ha conosciuto alterne fasi di degrado, oblio e recupero, legate anche al mutamento di costume, alle abitudini d’acquisto e alle possibilità economiche dei romani: si pensi all’evoluzione della vicina Rinascente in Palazzo Bocconi, dove da diversi anni il marchio spagnolo Zara ha aperto un frequentatissimo punto vendita, o all’allargamento dell’offerta di consumo nel Tridente dipesa dall’apertura della stazione metropolitana di Piazzale Flaminio nel 1980.

Come accennato all’inizio, nel dicembre del 2003, durante il primo mandato di Walter Veltroni, la Galleria Colonna è stata restaurata e riaperta dopo una lunga chiusura, dedicandola ad Alberto Sordi: l’intero intervento (rinnovo della pavimentazione in mosaico, ripulitura delle facciate, restauro degli stucchi e dei soffitti, ripristino della vetrata del velario di copertura) comporta un investimento di 250 milioni di euro ed è curato dalla società proprietaria Immobiliare Colonna 92 s.r.l. e dai gruppi Lamaro Appalti, Rinascente e San Paolo di Torino. Nel 2009, la holding Sorgente Group Italia (con immobili anche in Via del Tritone, a New York, Londra, Milano e Cortina d’Ampezzo) acquisisce la Galleria Alberto Sordi con la partecipazione di Enasarco (Cassa di Previdenza degli Agenti e dei Rappresentanti di Commercio) con l’intenzione, si legge nel sito web della nuova location di farne “una delle retail destination più rinomate della capitale”, uno spazio da destinare al lusso e ai più prestigiosi marchi italiani e stranieri. I dati ISTAT citati sembrano, in effetti, incoraggianti per i potenziali acquirenti: “più di 36 milioni di turisti ogni anno, grazie alla presenza del 70% degli alberghi della capitale in zona; 25.000 residenti, consumatori alto-spendenti nei 15 minuti pedonali; 75.000 lavoratori che raggiungono la Galleria in 15 minuti in cerca di attività ristorative per pausa pranzo. Profilo medio-alto”.

E invece, come sanno i romani che di lì passano ogni giorno, le cose non sono sempre andate come le promettenti premesse avrebbero suggerito. Negli anni tutti i negozi che si sono avvicendati nella Galleria Alberto Sordi hanno dovuto chiudere, uno dopo l’altro, lasciando soltanto due malinconiche caffetterie. Ecco alcune delle desolanti recensioni lasciate in questi ultimi mesi dai visitatori, italiani e stranieri, su Google: “Uno scandalo romano. Assenza totale di negozi e i due bar all’interno da evitare. Carissimi, due caffè e una bottiglietta d’acqua 12 euro al tavolo. Servizio pessimo. Un peccato davvero. È rimasto attivo solo il wc”. Oppure: “Desolazione. Negozi tutti chiusi. Gli unici locali con una certa frequentazione sono i bagni pubblici”. E ancora: “Alberto Sordi se sta a rivoltà nella tomba”.

Infine, dopo diciannove anni, nel luglio 2022 ha chiuso anche la Libreria Feltrinelli. Colpa della pandemia e dell’impoverimento dei consumatori? Oppure, come ha scritto il direttore del punto vendita Giorgio Gizzi in una sua riflessione a caldo all’indomani della chiusura, la conseguenza sul tessuto urbano di una mancata “difesa dei negozi storici che rendevano bello e unico andarci, l’apertura di troppa ristorazione che t’avvelena ed è fatta solo per un turista che non tornerà, la difficoltà esagerata a raggiungerlo e camminarci, l’impossibilità di sostare: non c’è più una panchina nel centro di Roma perché si sa, la gente che si ferma su una panchina non consuma e magari riflette ed è meglio non si pensi”?

Intanto, seppure in assenza di comunicazioni chiare in situ, per la storica galleria si annunciano nuovi lavori di ristrutturazione e riqualificazione che dovrebbero concludersi nel secondo semestre del 2023. Monica Lucarelli, che siede alle Politiche della Sicurezza, Attività Produttive e Pari Opportunità del Comune di Roma, assicura che “arriveranno grandi marchi” che renderanno questo luogo “un’agorà moderna dove al commercio si unirà l’arte e lo spettacolo”, e l’assessore allo Sport, Grandi Eventi, Turismo e Moda Alessandro Onorato annuncia che “da qui a 5 anni i posti letto a 5 stelle lusso saliranno di 6000 unità. Registriamo poi il 222% di turisti americani, che soppiantano bene i russi e i cinesi che in questa fase non viaggiano. Numeri importanti anche per chi ha deciso di investire qui”. Una visione di turismo e fruizione dello spazio storico urbano, quella espressa dall’amministrazione pubblica capitolina, orientata più su consumo, mercato e rendita che su servizi e diritto alla città, e che sembra individuare nella sola iniziativa privata il volano esclusivo di un settore che, dopo la quiete spettrale dei lockdown, sembra essere ripiombato negli inveterati, drammatici problemi di sempre (sovraffollamento disumano di alcuni siti turistici, bassa qualità dei servizi di accoglienza e ristorazione, economia sommersa, abusivismo, mancata tutela del lavoro, abdicazione della cosa pubblica ai grandi agenti privati) di cui molto si è scritto anche qui su MicroMega, e che fa da contraltare al fiorire di eventi esclusivi inaccessibili a comuni visitatori e cittadini.



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