Genealogie dell’autocrazia di Vladimir Putin

A partire dall’invasione dell’Ucraina, i responsabili delle diplomazie occidentali e i commentatori politici si contendono l’uso dei termini lessicali più idonei per designare il carattere non-democratico del potere esercitato da Vladimir Putin in Russia, un Paese nel quale si celebrano con regolare periodicità le elezioni, ma svuotate del loro senso per l’assenza sistematica di libere discussioni e di garanzie democratiche. In quale categoria tradizionale del potere politico è più giusto sussumere il regime di Putin?

Fausto Pellecchia

Putin, un tiranno platonico?
Se Platone è uno dei primi ad essere chiamato in causa, in quanto ha analizzato le caratteristiche del tiranno, è perché da convinto antidemocratico non ammette tuttavia che «il filosofo-re», al quale egli intende affidare il governo della sua Città ideale, sia confuso con l’immagine del tiranno. I libri VIII e IX della Repubblica mostrano che il tiranno, invocato da un popolo che è stato soggiogato mediante la retorica dell’adulazione, «fomenta sempre le guerre» e le sedizioni per costringere questo stesso popolo a delegargli un potere assoluto. Non smettendo mai di abusarne, oppresso unicamente dalla sua smisurata ambizione, rivela una psicologia sempre più fuori controllo: non tarda perciò a diventare insonne, alcolizzato, erotomane; in una parola prossimo alla follia.
Rimasto senza amici, in quanto li tradisce tutti, finisce per vivere «per la maggior parte del tempo rinchiuso nella sua dimora, invidiando coloro che viaggiano liberamente». Mentre il filosofo-re, di origine aristocratica, educato alla virtù, governa razionalmente, con giustizia, coraggio e moderazione, «il vero tiranno è un autentico schiavo, condannato ad una estrema rozzezza» malgrado il fasto di cui si circonda. Mosso da impulsi cruenti, Platone non esita a paragonarlo ad un lupo mannaro (lycanthropos). Indubbiamente, Putin non potrebbe incarnare questa terribile descrizione del tiranno; nonostante le sue pulsioni belliciste, la sua megalomania, la sua tendenza alla paranoia sembrino corrispondere ad alcuni tratti del tiranno platonico, tuttavia nulla indica nel suo comportamento una psicopatologia del totalmente fuori controllo.


Un despota nello stile tratteggiato da Montesquieu?

Sebbene il termine despota (di origine greca, nel significato di «padrone di casa») compaia in epoca bizantina, Montesquieu si riferisce all’uso che ne fanno i mercanti veneziani per indicare il sovrano dell’Impero ottomano. Nel suo Lo spirito delle leggi (1748), sceglie questo termine per designare, accanto al monarca e al capo repubblicano una terza forma di governo. Simile al tiranno, specialmente per il suo insaziabile gusto per i piaceri, il despota se ne differenzia tuttavia se nella sua descrizione ci si attiene al suo modello orientale, cinese e soprattutto turco.
Tre sono infatti i tratti caratteristici del despota:

– Per dirigere un immenso territorio, il sultano trasmette il suo potere assoluto secondo un preciso ordine gerarchico:

il suo vicario, «il vizir è il despota stesso: ed ogni particolare ufficiale subordinato è il vizir» (Lo spirito delle leggi, V,16). Questa trasmissione dei pieni poteri, lungi dal generare ordini intermedi che permetterebbero di moderarne l’esercizio, contribuisce al contrario ad assicurare in ogni punto dell’impero un perpetuo timore del popolo nei confronti del sultano.

– Donde viene un’ulteriore caratteristica del despota orientale: governano attraverso la paura, egli mina gli stessi fondamenti di ogni velleità di contestazione e la reprime “prontamente” e senza alcuna remora. Mentre in un regime repubblicano «gli uomini sono tutto», nel dispotismo «non sono nulla» (VI,2)

– Infine, per conservare il suo dominio, il despota tende a distruggere tutto ciò che lo circonda al fine di isolarlo: «Mentre le repubbliche provvedono alla loro sicurezza unendosi, gli Stati dispotici lo fanno separandosi e mantenendosi, per così dire, in solitudine. Essi sacrificano una parte del paese, devastando i confini e rendendoli deserti; il corpo dell’impero diviene inaccessibile» (IX, 4)

Seguendo Montesquieu, il carattere dal despota potrebbe, in qualche misura, attagliarsi alla figura putiniana dell’autocrate: i suoi ordini sono immediatamente eseguiti, il suo popolo teme di opporsi alle sue strategie e la morte dei soldati, che siano russi o ucraini, così come quella dei civili di Charkiv o di Mariupol non sembrano produrre un grande effetto su di lui. Tuttavia, Putin non vuole vivere come il despota in una sorta di ozioso godimento del momento presente. È troppo attivo, troppo calcolatore per aderire alla forma di vita del despota.


Sarebbe dunque un “dittatore commissario”, nel senso di Carl Schmitt?
Nel dibattito politologico internazionale in riferimento a Putin, si parla spesso di dittatura. Lo statuto di dittatore è una figura apparsa nell’antico diritto pubblico dei romani, e si distingue dalle altre figure dell’autocrazia per il rapporto che istaura con la legge. È a questo titolo che ad esso si è interessato il giurista tedesco Carl Schmitt, autore di La dittatura (1921), studio storico delle mutazioni di questo singolare regime che non tarderà a sedurre la Germania nazista e a trascinarla nella catastrofe.

Originariamente, scrive Carl Schmitt. «il dittatore è un magistrato romano straordinario che è stato istituito dopo l’espulsione dei re per promuovere l’esistenza di un potente imperium durante i periodi di pericolo». Piuttosto che autoproclamarsi tale, il dittatore viene «designato dal console su richiesta del senato». Nominato in carica per sei mesi, può abbandonare il suo incarico prima del termine se allontana il pericolo con rapidità ed efficacia.

La sua investitura legale resta pertanto sottomessa alle leggi durante l’esercizio della sua funzione. Ma per Schmitt il suo potere non ha nulla di assoluto – ragione per cui «il dittatore non è un tiranno» – in quanto «non può modificare le leggi vigenti, né abolire la Costituzione, né sopprimere l’organizzazione dei pubblici potere, né emanare nuove leggi». La sua azione non ha nulla di arbitrario, poiché se è vero che si riserva la scelta dei mezzi (la forza, l’astuzia), deve tuttavia «realizzare una situazione concreta che è determinata unicamente dallo stato di necessità». Perciò, Schmitt ne parla equiparandolo ad un «commissario ad acta».
Lo studio storico dell’evoluzione della dittatura tende tuttavia a mostrare che, nello Stato moderno, si instaura una certa confusione tra limitazione e illimitatezza dell’esercizio del potere sovrano. Analizzando più in dettaglio la Costituzione di Weimar del 1919, Schmitt evidenzia alcune contraddizioni che «risultano dalla combinazione di una dittatura sovrana con una dittatura commissaria». Riferendosi all’articolo 48 della Costituzione, il Presidente del Reich può in effetti decretare legalmente uno «stato d’assedio fittizio», che lo autorizza a sospendere le libertà individuali per tutto il tempo che egli ritiene necessario per la difesa della sicurezza dei cittadini. Schmitt sostiene perciò che nello Stato liberale moderno, la legge prevede la propria sospensione e integra quindi la dittatura come una rischiosa possibilità offerta a colui che governa. «Sovrano è colui che decide sullo stato d’eccezione»: è la celebre formula che egli scriverà l’anno seguente, nel 1922, nella raccolta di articoli pubblicata con il titolo di Teologia politica.

Possiamo dunque riferirci a Putin designandolo come dittatore nel senso di Schmitt? In un certo senso, tale designazione sarebbe accettabile, dal momento che egli ha voluto legittimare il suo intervento militare in Ucraina attraverso le leggi esistenti: «Le “repubbliche popolari” di Donetsk e Lugansk hanno chiesto l’aiuto della Russia», ha affermato il 21 febbraio del 2022. A tal riguardo, «in forza dell’articolo 51 del capitolo VII della Carta delle Nazioni unite, con l’autorizzazione del Consiglio della Federazione della Russia […] ho deciso di condure un’operazione militare speciale». Ma avendo aggredito tutta l’Ucraina, la sua “operazione militare”, presentata come un atto di protezione delle popolazioni russofone nei territori annessi nel 2014, si è però trasformata in guerra di invasione e ha perso ogni dimensione “legale”, nel senso in cui lo Stato moderno prevede «lo stato d’eccezione». Dunque, in questo senso, Putin non si comporta più come un dittatore, ma come l’erede di un’antica visione geopolitica che poggia sulla sottomissione e sul vassallaggio degli Stati limitrofi o sul loro assorbimento mediante un espansionismo di conquista, in nome di una ideologia nazionalista che contempla la figura ibrida dello zar e, in certa misura, del totalitarismo staliniano.
Dunque, Putin non è veramente un tiranno: la sua visione autoritaria dell’esercizio del potere lo apparenta assai più al despota orientale come lo concepiva Montesquieu; d’altra parte, la preoccupazione di inscrivere la sua azione di governo in un quadro di legalità formale, interpretandolo a suo esclusivo profitto, ne fa un simulacro del dittatore, ma, verosimilmente, egli rappresenta un’ inedita, proteiforme figura di autocrate, la cui convinzione principale consiste nell’ideologia che assimila la politica ad un mero rapporto di forze e fonda l’esercizio del potere sulla costrizione e sulla distruzione di ciò che vi si oppone.

 

Foto Flickr | Steve Bowbrick



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