Giannini rimosso da La Stampa: inviso a destra come a Elkan

Venerdì scorso (6 ottobre 2023) il mondo piccolo della carta stampata è stato preso in contropiede da una notizia inaspettata: la rimozione anzitempo da direttore de La Stampa di Massimo Giannini. Richiesto della ragione di questo inaspettato passaggio di consegne al suo vice Andrea Malaguti, Giannini ripeteva la motivazione ufficiale della proprietà: ridare un profilo localistico al giornale. Bufala gigantesca.

Pierfranco Pellizzetti

Venerdì scorso (6 ottobre 2023) il mondo piccolo della carta stampata è stato preso in contropiede da una notizia inaspettata: la rimozione anzitempo da direttore de La Stampa di Massimo Giannini, nonostante un onorato servizio il di cui l’ingaggio, avvento il 23 aprile 2020, prevedeva la durata fino alla primavera 2024. Operazione svoltasi nella massima riservatezza come detta la torinesità della sede (poco distante dalla riva sinistra del Po) e della testata, oltre al formalismo impettito da corte sabauda, cortesemente algido, che la proprietà ha interiorizzato da quattro generazioni. Bocche cucite, a partire dal diretto interessato/silurato anche nel salotto televisivo su la Sette, dove Lilli Gruber aveva allestito un’improvvisata veglia funebre. Richiesto della ragione di questo inaspettato passaggio di consegne al suo vice Andrea Malaguti, Giannini ripeteva la motivazione ufficiale della proprietà: ridare un profilo localistico al giornale. Bufala gigantesca, visto che nessun editore minimamente avvertito perseguirebbe la provincializzazione di un organo di stampa nazionale. Ma l’ex direttore proseguiva nella recita di prammatica spiegando che il suo passaggio a Repubblica era un ritorno a casa. Con il trascurabile particolare che ne era partito da vice direttore e vi faceva ritorno con il declassamento di ruolo quale commentatore e autore di podcast. Solo il gongolare viperino di Alessandro Sallusti interrompeva la recita perbenista, strisciando l’ipotesi di una manovra avversa del Quirinale. Tanto da far ricomparire il polemista Gianni che fuori dai denti replicava al direttore de il Giornale “ma tu ci credi a quello che dici?”. Difatti lo schizzo di veleno del primo trombettiere della Destra risultava un’evidente diversivo per occultare gli autori del killeraggio. Ma una rapida raccolta di indizi svela subito di chi si tratta davvero: l’alleanza sinergica tra due belve predatrici, che si sono sbranate un direttore che ne aveva scatenato le furie. La ferocia bollente della premier Giorgia Meloni e quella fredda del principino capriccioso di Casa Agnelli-Elkan. Come già era successo il 5 luglio 2016, con la testa mozzata una prima volta dell’allora conduttore di Ballarò su Rai 3 reo – agli occhi del premier Matteo Renzi, in procinto di giocarsi il tutto per tutto sul suo disastroso referendum di dicembre – di manifestare apertamente l’appartenenza a una famiglia di Sinistra invisa al Rignanese e al Giglio Magico fiorentino. Allora si trattava della componente dalemiana. Oggi più diluita nell’area che appoggia Elly Schlein.

Di certo invisa a Meloni, che se provocata morde. Come quando Giannini a Di Martedì ricordava che l’uso del termine “transumanza” da parte del first gentleman Andrea Giambruno era stato anticipato quattro anni prima dalla capa di Fratelli d’Italia; per cui se l’uno si era scusato, anche l’altra avrebbe dovuto farlo. Sicché, nel ridisegno dell’informazione da parte del rampantismo di destra, il responsabile de La Stampa appariva di troppo. Ma di troppo risultava anche per l’esecutore testamentario dell’antico impero Fiat; il John Elkan, dal sorriso tipo Dama della San Vincenzo, caritatevole a tempo perso. E difatti ora si capisce quale fosse il vero disegno nella presunta trasformazione di uno storico, imponente, investimento industriale (che l’Italia ha sussidiato oltre misura) in quella che sembrava una grossa concentrazione editoriale nascente: la Gedi. Sembrava. Perché, all’avvio della leadership del nipote prediletto dell’Avvocato Agnelli, assistemmo a una corsa a perdifiato ad acquistare quotidiani piccoli, medi e grandi; storici o meno. Ora si capisce il perché: creare uno scudo all’operazione di svendita del core business metalmeccanico, per prevenire proteste sociali e/o opposizioni politiche, che potevano impicciare l’operazione finalizzata al classico prendi i soldi e scappa. E, a fare da pivot nelle redazioni, molto meglio la grinta immusonita da guardiano del serraglio di Maurizio Molinari che il piacione sinistrese Giannini (subito segato dalla direzione de la Repubblica a cui aspirava). Ora che l’affare è andato in porto, senza troppi brusii in un Paese sfibrato, ecco la svendita un tanto al chilo dell’accrocco di carta stampata, ormai privo di interesse. In una sequenza impressionante: nel 2020 vengono ceduti il Tirreno, la Nuova Ferrara, la Gazzetta di Modena e quella di Reggio; nel novembre 2021 si vende la Nuova Sardegna e nel marzo ‘22 l’Espresso; a partire dall’agosto 2023 la Gedi si libera della Gazzetta di Mantova e prosegue con il Mattino di Padova, la Tribuna di Treviso, la Nuova Venezia e Mestre, il Corriere delle Alpi, il Messaggero Veneto e lo storico Piccolo di Trieste. Piace ricordare che nel 2020 la furia di Elkan jr si abbatté anche su MicroMega, decretandone la cessazione; sgarro pure alla memoria di suo zio il Principe Caracciolo. Operazione non andata a buon fine per il soccorso di 5mila lettori; i quali hanno deciso che MicroMega deve vivere. Alla faccia di un ragazzino viziato e prepotente.



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