Gil Scott-Heron: l’avvoltoio, la rivolta e la poesia

Finalmente tradotto, dopo 50 anni, “L’avvoltoio”, poliziesco socialpolitico di Gil Scott-Heron, scrittore e musicista, padre spirituale del rap.

Daniele Barbieri

Finalmente tradotto, dopo 50 anni, il romanzo «L’avvoltoio» di Gil Scott-Heron, scrittore e musicista. Il merito è di Rogas edizioni (264 pagine per 19,70) che arricchisce il libro con l’utile introduzione di Paola Attolino e una breve nota («Il volatile è tornato») del 1996 dove Scott-Heron racconta i retroscena del suo primo libro – aveva allora 20 anni – con il suo tipico stile: «il preside aveva bisogno di un pizzico di PIC… pararsi il culo», «il parapetto che mi ha salvato dal baratro della pagina bianca» e «il mio più grande problema è stato mostrare l’omicidio di John Lee senza mostrare l’assassino».

Siamo in un poliziesco socialpolitico: l’assassinio di un giovane spacciatore (ultima ruota del carro) è narrata in prima persona da quattro persone che lo conoscevano, tutte – come il morto – confinati nel ghetto. Alcool e droga, denaro e crimine, sesso e linguaggio anticonvenzionale. Ma anche speranza perché sono gli anni in cui molti afroamericani tentano di costruire un’organizzazione, forse persino una (ingenua più che disperata) rivoluzione nel cuore della Bestia.

La narrazione di «L’avvoltoio» va avanti e indietro nel tempo: fra il 29 agosto 1969 e il 28 giugno 1968. E sarebbe un peccato sciogliere la trama.

A fianco dei protagonisti in carne e ossa… le sostanze. C’è «La rossa panamense, una delle varietà più rare di marijuana». E soprattutto «la Roba Bianca di cui i tossici non potevano fare a meno» con il fiume veloce di denaro e il più lento rigagnolo della morte che le ruotano attorno. Intorno alle droghe ruota la trama. Con le fughe – «una gara di atletica» – quando i poliziotti danno la caccia a chi regge sulle spalle la piramide. Con tutti gli stereotipi (spesso accettati ma qualche volta rifiutati) per i neri, i portoricani o gli «slavati».

Accanto alle vite segnate sprazzi di rabbia più cosciente, resistenza, la voglia di riscatto: «I neri devono passare a un livello dove si cominci a venirsi incontro come fratelli e sorelle […] Come Fratello Malcom ci ha insegnato “Non ci tocca questo inferno perché siamo Battisti o Metodisti, Massoni o Alci, Democratici o Repubblicani” […] Siamo in questo inferno perché siamo neri».

Linguaggio sempre creativo e/o ironico («è più semplice ridere che piangere anche se noi abbiamo tanto per cui piangere») anche nei passaggi più drammatici.

«Non esiste una signora Dio che condivide con suo marito tutti i problemi, le ansie, le tribolazioni». Oppure «dobbiamo tutti piangere ma le lacrime devono proprio essere bianche?». E: «I giorni sembravano scomparire. Ancor prima che venissero annunciati se ne erano già andati via. Vedevo un manico di scopa decorato con Babbo Natale. Un attimo dopo George Washington e Abe Lincoln arrivano su una slitta […] All’improvviso, prima che potessi dire Pesce d’aprile, la primavera era tornata […] L’erba mandava piccoli germogli in perlustrazione, come fossero periscopi, per vedere se davvero Padre Inverno se ne era tornato al nord».

E ancora: «Così stanno le cose: Dio ha messo i neri sulla Terra per farsi le canne e prendere un sacco di merda mentre i bianchi sono buoni a bere birra e morire di noia».

Per fortuna nel ghetto il venerdì sera si fa festa e si sballa. Tutte e tutti si preparano, «sembrava che persino la brezza sapesse che era venerdì». Ma è un venticello che porta più guai che sogni.

Gil Scott-Heron regala dialoghi memorabili, come questo:

«Hai imparato qualcosa da Euripide?»

«Solo che se non ci fossero gli dèi che camminano in strada come sbirri non avrebbe avuto nulla da scrivere».

Per chi ama il jazz dalle pagine arriva forte l’eco di Cannonbal Adderly («Mercy») o di Ray Charles. Verso la fine del libro in una poesia il jazz va al galoppo con l’immersione nel mondo «più veloce di Dave Brubeck», di Charlie Mingus e Ahmed Abdul-Malik, di Alice Coltrane con «i suoi fraseggi cosmici». Poi «entra John» (Coltrane ovviamente) «così che il mattino può risuonare di sassofoni strizzacervelli» mentre «il terzo mondo arriva con Yusef Lateef e Pharaoh Sanders» (*), poi di corsa Miles Davis, ancora Cannonball, Dexter Gordon, Donald Byrd, Ella e Nina… senza cognomi perché si sa chi sono.

Un gran bel romanzo, insolito nella costruzione e geniale in molti passaggi. Ma soprattutto un’ottima occasione per scoprire Gil Scott-Heron.

Morto nel 2010, cedendo alle stesse droghe che aveva provato a combattere, ci ha lasciato una preziosa eredità soprattutto poetico-musicale. Nello stesso anno di «L’avvoltoio» Scott-Heron scrisse anche i famosi versi di «The Revolution Will Not Be Televised» che si tramandano da una parte all’altra del mondo in rivolta spesso senza sapere chi abbia scritto, con sarcasmo e lucida rabbia «La rivoluzione non tornerà dopo la pubblicità […] La rivoluzione non avrà repliche, fratelli / La rivoluzione sarà fatta dal vivo».

È stato uno dei principali esponenti della poesia «di strada», un ponte fra il jazz e l’hip-hop, un cantastorie (ma lui preferiva dire «griot») della tradizione e della realtà del suo popolo. In ciò che ha scritto e cantato la distinzione fra personale e politica si trasforma magistralmente in poesia.

Chi volesse approfondirne la conoscenza trova in italiano «L’ultima vacanza. Un’autobiografia» (da Liberaria, piccola casa editrice barese) e «Bluesologist» – geniale neologismo – di Antonio Bacciocchi pubblicata da VOLOlibero, un altro piccolo editore. E poi, passando per il docu-film «Black Wax» di Robert Mugge, per chi intende l’inglese con le sue variazioni popolari, sarà d’obbligo accostarsi ad alcuni album eccellenti, che lui definì «survival kits on wax» (ovvero kit di sopravvivenza su vinile): su tutti «Pieces of A Man» (il suo esordio nel 1971), «Winter in America» (1974) e – nel 2010, poco prima di morire – «I’m New Here».

(*) se a questo punto del libro passasse un pignolo alzerebbe il ditino per notare che Mingus si firmava Charles e detestava essere chiamato Charlie ma soprattutto che il sassofonista Sanders – tuttora sulla scena – di nome fa Pharoah e non Pharaoh come leggiamo qui.

 

(credit foto Roger Woolman, CC BY 3.0 via Wikimedia Commons)



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