La democrazia afascista di Giorgia Meloni

In “Democrazia afascista” (Feltrinelli, 2024) Nadia Urbinati e Gabriele Pedullà sottraggono Meloni alle strette dipendenze dalla filiera del fascismo storico e la ricollocano nel lungo fiume del pensiero gerarchico e inegualitario. Senza con ciò depotenziarne il pericolo.

Elettra Santori

Neofascista. Post-fascista. Ex-post-filo-parafascista. Tra i tanti suffissi con cui si è cercato in questi anni di inchiodare la sgusciante Giorgia Meloni a una definizione compiuta ne mancava uno, l’alfa privativo di afascista, sintesi in cui Nadia Urbinati e Gabriele Pedullà contraggono i molti mali dell’attuale governo. Un aggettivo che era già rotolato nel recente dibattito pubblico sul “che cos’è” meloniano, uscendo di scena velocemente senza attecchire: a ridosso del 25 aprile 2023 era stato Michele Santoro a ricorrervi per definire l’ircocervo Meloni: “Non è più fascista ma non è diventata antifascista, è afascista, sta in una specie di purgatorio dove non si capisce né da dove viene né dove va, né cosa vuole fare”. Urbinati e Pedullà riprendono oggi quella definizione dandole profondità e verticalità storica e, unendo le loro rispettive competenze di politologa e di scrittore e storico della letteratura (una crasi metodologica originale e feconda di prospettive), ci dimostrano che contrariamente a quanto affermava Santoro nella parola “afascismo” l’unde venis e il quo vadis di Meloni (nonché il suo che fare?) ci sono eccome. E non sono esattamente dove ci aspetteremmo di trovarli.
La storia della parola afascista comincia con Mussolini, che così denominava, nella primissima fase del regime, i super partes, la maggioranza silenziosa che non era né con lui né contro di lui, da blandire e conquistare con l’evidenza dei risultati. Ma col consolidarsi del regime e della sua violenza, il termine afascista, usato come sinonimo di indifferente, si ingrossa di significati sempre più dispregiativi: “massa opaca e inerte […] Gente ottusa di cervello e di cuore […] Poveri gufi condannati a svolazzar di notte”, nelle parole di Giovanni Gentile. Gente disprezzabile irresistibilmente attratta dalla “melodiosità della fifa civile”, nell’oratoria antiborghese di Paolo Orano. Saranno poi, nel Dopoguerra, due figure di spicco a recuperare il termine e ad attribuirselo, vuoi in una chiave di neutralità responsabile è il caso del Costituente Roberto Lucifero, liberale monarchico con passato di partigiano , vuoi come reazione avversa all’intellighenzia antifascista e qui parliamo del grande romanziere Giuseppe Berto, con un passato fascista e una paranoica ostilità verso quegli intellettuali, antifascisti dichiarati, che gli negavano riconoscimento letterario.
Nell’afascismo di Giorgia Meloni c’è un po’ di Berto e un po’ di Lucifero. C’è il vittimismo bertiano della minoranza che si percepisce marginalizzata e perseguitata dai “gruppi di potere”; e c’è una visione a-ideologica e formalistica della democrazia, incarnata da Lucifero, il quale nei suoi interventi all’Assemblea costituente auspica una carta costituzionale priva di riferimenti al fascismo come all’antifascismo, che svolga una funzione di pura cornice giuridica e procedurale una specie di Codice della strada utile a dirigere il traffico democratico nel modo più efficiente possibile. Nessun richiamo all’uguaglianza e ai diritti dei lavoratori, nella Costituzione che ha in mente Lucifero: solo un generico appello ad una indefinita “libertà”.
La storia politica e letteraria della parola “afascista”, tra le pagine più intriganti del libro, serve a ricostruire le ascendenze e il parentado politico di Giorgia Meloni situandoli in una mentalità ideologica molto più ampia del fascismo storico e a questo antecedente e susseguente. L’idea meloniana di una democrazia dirigista, rapida nella deliberazione (di qui l’enfasi sul premierato e l’insofferenza verso i tempi lunghi della democrazia parlamentare), paladina della “governabilità”, ostile al dissenso, incurante dell’egualitarismo e della giustizia sociale (che invece sono carne e sangue di una democrazia valoriale e antifascista) si apparenta al prefascismo dei liberali inegualitari, alla democrazia “minimalista” della Trilateral Commission, promossa dal magnate David Rockefeller nel 1973 per supportare la “democrazie della governabilità” contro i fautori della “democrazia sociale”; e anche al Berlusconi del “lasciatemi lavorare e vedrete che i risultati arriveranno”.
In sostanza, se oggi Giorgia Meloni si rifiuta di definirsi antifascista, pur dichiarandosi al tempo stesso incompatibile con qualsiasi nostalgia del fascismo, non lo fa solo per blandire quell’elettorato a rimorchio costituito dai vecchi, patetici militanti “predappiofezzi”, per dirla con Gadda, ma soprattutto per presentarsi come la donna del fare, capace di guardare avanti, di infuturarsi nell’alba di un giorno nuovo tanto atteso da negozianti, manager, imprenditori e da tutti quegli uomini e donne d’azione e di mercato per cui fascismo e antifascismo sono un passato stramorto e non più funzionale.
Certo afascista non è uno slogan d’effetto che si possa urlare in una manifestazione anti-Meloni. Non ha la medesima forza d’accusa di fascista (almeno in apparenza) e richiede un livello di riflessione più sottile e raffinato. Ma sottrarre Meloni alle strette dipendenze dalla filiera del fascismo storico e ricollocarla nel lungo fiume del pensiero gerarchico e inegualitario, come fanno Urbinati e Pedullà, non significa affatto depotenziarne il pericolo. Né comporta il desistere dal richiamo, oggi necessario come nel 1948, all’antifascismo come nucleo di valori fondativi e imprescindibili.



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