Giorgia Meloni fascista? Peggio, reazionaria

Impostare la questione nei termini di fascismo/antifascismo offre enormi scappatoie al grave oscuramento del vero scontro concettuale politico: democrazia contro reazione.

Pierfranco Pellizzetti

Il dibattito ingannevole Fascismo-Antifascismo, che ha raggiunto la propria mediocre apoteosi alla scadenza simbolo del 25 aprile, ci ha fornito l’ennesimo esempio di dialogo tra sordi; uno sterile gioco di ruoli: i guardiani dei valori e i mimetici; l’ingenuità di chi perora la necessità di un’impossibile chiarezza e le acrobazie argomentative di chi non vuole farsi stanare. Da un lato il coro delle anime belle impegnate a riproporre i luoghi comuni di una narrazione resistenziale, che i cedimenti opportunistici di questi decenni hanno ridotto a retorica consolatoria, dall’altro i gesuitismi melliflui di un Alessandro Giuli, in debito con questo governo per le cariche erogategli dallo spoil system destrorso, o le deliberate provocazioni del redivivo Italo Bocchino, entrambi impegnati nel gioco pompieristico di ridurre i termini della discussione a una sorta di barzelletta.
Difatti la canea dei “mimetici” non si è peritata di rifilarci una serie spudorata di argomentazioni farlocche: «Partecipando col presidente Mattarella ai riti del 25 aprile Giorgia Meloni, ha già dato la conferma di fedeltà alla Costituzione antifascista», sicché, «è tautologico almanaccare su un qualcosa che è già nei fatti». Palese tentativo di non offrire punti di riferimento ai “guardiani”, smarriti nel ridurre la questione al mero livello terminologico (e neppure sembrano rendersi conto che – anche restando a tale livello – due negazioni affermano. Per cui, se il presidente del Senato Ignazio Benito La Russa dichiara di non essere antifascista, è come se dicesse “io resto fascista”). Purtroppo i presunti argini labiali al revival destrorso continuano a subire il condizionamento disarmante del pluridecennale equivoco chiamato “politicamente corretto”; quindi – come disse Robert Hughes – pretendono di risolvere il problema creando “una sorta di Lourdes linguistica, dove il male e la sventura svaniscano con un tuffo nelle acque dell’eufemismo”.

Ennesimo effetto devastante della predicazione che ha condotto al suicidio la sinistra istituzionale: quella Terza Via ingannevole, che le prometteva facili vittorie elettorali facendo proprie le posizioni di destra. L’apoteosi dell’opportunismo maldestro, che per apparente furberia si inibisce il compito di “dare un nome alla cosa”. Azzerando l’insegnamento che “l’atto più rivoluzionario è dire la verità” (dalla Luxemburg a Gramsci). Sicché Stefano Bonaccini, ultimo nato della covata di Terze Vie politicamente corrette deposta nel PD dai blairini de noantri (D’Alema e Veltroni fino a Renzi) può pigolare che “Giorgia Meloni non è fascista”. Difatti: alla faccia del presidente para-renziano dell’Emilia – la nostra premier rimane una rude tempra di reazionaria.
Ecco – dunque – il punto: impostare la questione nei termini di fascismo/antifascismo offre enormi scappatoie al grave oscuramento del vero scontro concettuale politico: democrazia contro reazione. Quella reazione di cui il fascismo è stato il braccio violento nelle prime decadi del Novecento, ma che combatte la propria battaglia ideologica ben prima, contro le rivoluzioni democratiche che abbatterono l’Ancien Régime. Specificando che “democrazia” non si riduce al momento elettorale – come pretendevano i soloni di Prima Repubblica Norberto Bobbio e Giovanni Sartori – bensì si consolida nei processi di inclusione e nella decisione attraverso pratiche concertative. Una lotta sorda contro ciò che Albert Hirschman definiva “il carattere ostinatamente progressista della modernità”; che i reazionari hanno vissuto a lungo come un mondo ostile. Condizione che induceva pratiche camaleontiche, che il tory inglese Benjamin Disraeli teorizzò nella mossa che sarà scimmiottata all’inverso dai blairiani: “sorprendere gli whigs mentre sono al bagno e filarsela con i loro vestiti”.

Quelle politiche del risentimento promosse dalle plutocrazie e con le proprie basi del consenso nella piccola borghesia impiegatizia (spiegava Paolo Sylos Labini: “questi individui sono spesso indotti dall’ansia di differenziarsi a prendere anche politicamente le posizioni più reazionarie”), che dilagheranno alla fine degli anni ‘70 del secolo scorso, con il crollo delle dighe di contenimento rappresentate dalla democrazia del Welfare. Oggi in via di definitivo smantellamento da parte del governo Meloni, con le sue politiche certamente reazionarie. Le cui logiche, tenute accuratamente sottotraccia dalla premier, emergono nei vaneggiamenti dei suoi più stretti collaboratori. A partire dal cognato Francesco Lollobrigida, ministro per meriti familistici; ossessionato dall’incubo delle “sostituzioni etniche” che tanto angosciano i falangisti di Vox come i suprematisti tedeschi del Patriotische Union. Se ancora non una vera e propria Internazionale Ultra-Reazionaria, un mood in cui Giorgia Meloni si trova perfettamente a suo agio. Specie in terra iberica, dove può esprimersi liberamente.

 

Foto Flickr | Eduardo Nasi



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