Un anno di pandemia ci regala il record di giornalisti in prigione

488 giornalisti e lavoratori nel settore dei media dietro le sbarre a causa della propria professione. È quanto emerge dal rapporto 2021 sulla libertà di stampa stilato da Reporters Sans Frontières (RSF).

Marco Cesario

La pandemia non ha fermato il bavaglio di governi dispostici e autoritari ai danni della libertà di stampa, anzi sembra aver accentuato il giro di vite contro i media di mezzo mondo. È quanto emerge dal rapporto 2021 sulla libertà di stampa stilato da Reporters Sans Frontières (RSF). Mai dalla creazione del rapporto annuale di RSF nel lontano 1995 il numero di giornalisti in prigione era stato così alto. A oggi, 488 giornalisti e lavoratori nel settore dei media si trovano dietro le sbarre a causa della propria professione. Secondo il rapporto, ciò è dovuto principalmente a tre regimi dittatoriali che hanno portato avanti campagne intimidatorie e repressive nei confronti della stampa: la Bielorussia, dopo la contestata rielezione del presidente Lukashenko nel 2020; la Cina, soprattutto dopo la repressione del movimento di contestazione di Hong Kong e la Birmania, paese in cui prima del colpo di stato del 1° febbraio c’erano solo due giornalisti in prigione mentre oggi ce ne sono ben 53.

Il rapporto menziona anche il numero record di donne giornaliste detenute. In tutto il mondo, l’87,7% dei giornalisti detenuti è uomo. Tuttavia, RSF ha denunciato di non aver mai contato così tante donne giornaliste in prigione, un totale di 60, cioè un terzo in più rispetto al 2020. Tra queste anche la vincitrice del premio RSF 2021, Zhang Zhan, che con il suo prezioso lavoro investigativo ha messo a nudo le bugie e le storture del governo cinese in merito alla gestione del virus Covid19 a Wuhan. L’unico dato positivo di questo 2021 è il numero di giornalisti uccisi: è sceso sotto i 50 per la prima volta dal 2003, ma c’è poco da stare allegri in quanto è stato il virus ad aver avuto l’effetto di limitare il reporting, limitando le uscite dei giornalisti e quindi i momenti in cui sono a rischio. I cinque paesi con il maggior numero di giornalisti detenuti nel 2021 sono la Cina (127), la Birmania (53), il Vietnam (43), la Bielorussia (32) e l’Arabia Saudita (31). Insieme, detengono più della metà dei giornalisti attualmente dietro le sbarre.

Il metodo cinese: sorveglianza di massa, macchina del fango e bavaglio alla stampa indipendente
Da quando è entrato in carica nel 2013, Xi Jinping ha edificato un complesso castello di misure volte a distruggere la libertà d’informazione. Sin dall’ottobre 2019, tutti i giornalisti cinesi che desiderano rinnovare la propria tessera stampa sono obbligati a scaricare “Study Xi, Strengthen the Country”, un’app ufficiale con una cosiddetta backdoor che controlla, modifica e spia tutti i dati personali. È uno dei tanti componenti della “Grande Muraglia dell’Informazione”, un monumentale apparato di censura costruito da Pechino per bloccare i siti considerati indesiderabili (attraverso il tentacolare social network WeChat). Gli esperti di RSF spiegano che sui social cinesi esistono veri e propri eserciti di troll che screditano immediatamente qualunque informazione che si discosti minimamente dalla narrativa imposta dal Partito Comunista Cinese (PCC). I giornalisti in questo modo vengono presi di mira, screditati, additati dal governo cinese.

E questa è solo la punta dell’iceberg di quella che si può definire come una vera e propria ossessione da parte della leadership cinese per il controllo dell’opinione pubblica. Un esempio è dato dall’inchiesta congiunta di New York Times e ProPublica, che cita le oltre tremila direttive e i quasi duemila memorandum pubblicati in soli quattro mesi dall’amministrazione cinese nel cyberspazio per influenzare l’opinione pubblica. Per i giornalisti cinesi esistono vere e proprie zone off limits da non oltrepassare, pena il carcere: Tibet, Taiwan, Hong Kong, Xinjiang, corruzione. Il tutto si traduce con l’esecuzione di una vera e propria sorveglianza di massa di blog, media e giornali online, sorveglianza che costituisce un ostacolo insormontabile, una minaccia reale per giornalisti e blogger. Oltre agli arresti in carcere infatti esistono – per coloro che prendono di mira il governo con le proprie inchieste – anche gli arresti domiciliari “in un luogo designato” che in realtà si traduce nell’isolamento totale con soppressione di tutti i diritti e dove blogger e giornalisti vengono spesso sottoposti a torture fisiche e psichiche. Ed è in nome della legge che molti giornalisti vengono privati della loro libertà. La cosiddetta “guerra legale” o “lawfare” attuata per controllare le proteste di Hong Kong ad esempio è utilizzata come base per sopprimere le inchieste giornalistiche che prendono di mira il partito. Leggi che colpiscono nel mucchio e che fanno riferimento a crimini di ogni tipo (per questo note come leggi “pigliatutto”) come spionaggio, sovversione, provocazione di disordini etc. Delitti che per le autorità cinesi possono essere punibili con la morte o l’ergastolo. Prima di arrivare a un punto di non ritorno però, i funzionari incaricati della censura, nell’atmosfera irreale e falsamente ovattata del dipartimento di propaganda, convocano i giornalisti cinesi e i corrispondenti esteri più fastidiosi. Gli inviti “a prendere un tè” sono di solito l’ultimo avvertimento prima di essere arrestati o espulsi. Siamo dunque in un nuovo contesto in cui è effettivamente vietato criticare le autorità centrali. Questo ha portato ad esempio l’importante giornale d’opposizione filo-democratico Apple Daily a essere chiuso (con la forza) e diversi dei suoi redattori e giornalisti arrestati; anche il suo fondatore, Jimmy Lai, è in prigione da oltre un anno. Altri giornalisti dei giornali di opposizione che esistono ancora online si sono volutamente dimessi. L’emittente pubblica RTHK è diventato un media di propaganda. Di conseguenza, Hong Kong è scesa dal 18° posto nella classifica dei paesi con maggiore libertà di stampa (nei primi anni 2000) all’80° posto di oggi. Anche in Cina c’è un alto numero di giornaliste dietro le sbarre: ben 19. Tra queste una delle caporedattrici dell’Apple Daily, la giornalista Sofia Huang Xueqin, famosa per il suo coinvolgimento nel movimento locale #MeToo in Cina, e la giornalista Zhang Zhan, la cui vita è in pericolo secondo entourage e parenti.

Birmania, una delle più grandi prigioni al mondo per i giornalisti
La Birmania (non scriviamo Myanmar perché questo nome è stato deciso unilateralmente da una giunta militare nel 1989 e non da un governo democratico, nda) entra per la prima volta dopo anni nella lista delle cinque più grandi prigioni per giornalisti nel mondo. Dopo il colpo di stato si sono moltiplicati i centri di detenzione e le caserme dove avvengono interrogatori che non hanno nulla di democratico (torture, assassini politici). Durante i primi mesi dopo il colpo di stato, quando le manifestazioni si sono trasformate in vera e propria guerra di trincea nelle strade, molti giornalisti sono stati arrestati durante le cariche della polizia o subito dopo le manifestazioni nelle proprie case. Oggi in Birmania è molto pericoloso manifestare, i giornalisti vengono rapiti nelle loro case per scomparire nel nulla. Martedì 14 dicembre si è diffusa la notizia della morte in custodia del giornalista freelance Soe Naing, che era stato arrestato mentre scattava una foto del “giorno del silenzio” a Rangoon. È risaputo che questi centri di detenzione e caserme dove avvengono gli interrogatori sono noti per essere luoghi di tortura dove oltre un centinaio d’oppositori politici e civili sono stati assassinati negli ultimi anni.

La situazione in Europa: desta preoccupazione la situazione in Grecia
In Francia, RSF ha osservato un aumento della violenza contro i giornalisti e avverte dei rischi associati alle prossime elezioni presidenziali. “La sfida della campagna presidenziale è evitare che si ripeta quello che abbiamo visto negli Stati Uniti e che abbiamo già visto in Francia, cioè che i candidati possano scegliere i propri giornalisti e, se necessario, usare mezzi leciti e illeciti per liberarsi di chi non gli piace”, spiega Christophe Deloire, portavoce di RSF. Coprire poi le manifestazioni è diventato un esercizio complicato per i reporter francesi, che spesso sono vittime di violenza poliziesca. Diversi giornalisti sono stati feriti da pallottole di gomma, granate lacrimogene o colpi di manganello. Altri reporter sono stati oggetto di arresti arbitrari durante l’esercizio della propria professione. Anche in Italia (41esima su 180) sono state ravvisate numerose violenze ai danni dei giornalisti che coprivano eventi e manifestazioni NoVax, oltre al consueto numero di giornalisti minacciati dalla criminalità organizzata o sotto scorta per aver pubblicato inchieste e servizi su mafia, ‘Ndrangheta o camorra.

Ma a destare preoccupazione in Europa è la Grecia che è scesa al 70esimo posto dietro la Polonia e la Mongolia. “Più di 130 casi di violazione della libertà di stampa sono stati registrati negli ultimi anni”, ha detto in un’intervista all’AFP George Pleios, professore di comunicazione e studi sui media dell’Università di Atene. L’omicidio di un giornalista ad Atene quest’anno e il numero crescente di tentativi di intimidire i giornalisti in Grecia sono la chiara prova di un declino della libertà di stampa. Pleios cita innumerevoli ostacoli per chi fa la professione di reporter soprattutto in merito alla copertura di eventi legati alla crisi migratoria con intimidazioni, detenzioni arbitrarie e violenze poliziesche durante le manifestazioni. L’anno scorso due giornaliste si sono dimesse denunciando pubblicamente la censura e il controllo del governo conservatore di Kyriakos Mitsotakis sulla stampa libera. Il 13 novembre scorso la pubblicazione da parte del quotidiano greco Efsyn di documenti dei servizi segreti greci che parlano di sorvegliare alcuni giornalisti ha provocato lo sdegno delle organizzazioni di giornalisti greci. Stavros Malichudis è uno dei giornalisti sorvegliati: ha scoperto il 14 novembre di essere stato spiato dai servizi segreti greci (EYP) mentre sfogliava EfSyn (il giornale degli editori). “Stavo leggendo le ultime notizie mentre bevevo il mio caffè quando mi sono imbattuto in questa incredibile rivelazione – ha raccontato Malichudis al quotidiano francese Libération – quando ho letto la storia, mi sono reso conto che ero io in effetti il giornalista menzionato nei documenti dei servizi”. I documenti dei servizi menzionavano infatti un giovane giornalista che indagava su Jamal, un giovane migrante siriano sbarcato sull’isola di Kos il cui disegno è stato esposto al museo Mucem di Marsiglia prima di ritrovarsi addirittura sulla prima pagina di Le Monde. Nonostante le numerose smentite del governo, l’autore dell’articolo, Dimitris Terzis, poi passato all’AFP, ha accusato il governo di voler insabbiare il caso. C’è da dire che una recente legge approvata dal parlamento greco prevede fino a cinque anni di prigione per chi è accusato di “disinformazione”. Quella che apparentemente è stata promulgata come legge per difendersi dalle fake news si è infatti trasformata in un’arma contro la libertà di stampa. La Grecia è ancora sotto shock per l’omicidio, nell’aprile scorso ad Atene, del giornalista Giorgos Karaïvaz, 52 anni, che si occupava di cronaca giudiziaria. È il secondo omicidio di un giornalista ad Atene in undici anni, dopo quello di Sokratis Giolias, 37 anni, nel 2010, rivendicato da un gruppo estremista. In entrambi i casi, gli autori non sono stati identificati.

@marco_cesario

(credit foto EPA/IAN LANGSDON)



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