Abbandonare l’etica antropocentrica e ripensare l’ambientalismo, intervista a Telmo Pievani

Intervista al filosofo evoluzionista in occasione della Giornata mondiale dell’Ambiente per fare il punto sul suo stato di salute, dal quale dipende la nostra permanenza su questo pianeta. Un dialogo che intreccia dati e riflessioni, filosofia, scienza, giurisprudenza e politica. La proposta di abbracciare l’etica della contingenza che ne deriva non deve spaventare né atterrire ma porre le basi di un nuovo ambientalismo, popolare e non settario, perché questo sarà il grande tema che tutti dovremo affrontare nei prossimi anni.

Fabio Bartoli

Prof. Pievani, ci sentiamo in occasione della Giornata mondiale dell’Ambiente: ma come sta l’ambiente? O meglio: alla luce di quello che gli facciamo, su quali le basi attualmente poggia la nostra permanenza all’interno di esso?
Beh, innanzitutto mi sembra l’impostazione giusta perché l’ambiente siamo noi, ci siamo dentro: è una trama delle relazioni di cui facciamo parte. Purtroppo la risposta è che sta male, molto male, e lo vediamo a partire dall’oggettività dei dati che abbiamo raccolto negli ultimi due-tre anni, che sono pessimi e in peggioramento da tutti i punti di vista. Sappiamo benissimo che il cambiamento climatico sta galoppando, le emissioni negli ultimi anni sono aumentate anziché diminuire come avrebbe dovuto essere secondo tutti gli accordi internazionali e lo hanno fatto nonostante il rallentamento economico imposto dalla pandemia, quindi è chiaro che siamo in presenza di una dinamica fuori controllo per tante ragioni.
Sono ancora più preoccupanti gli ultimi dati sulla biodiversità, che sono drammatici: per esempio la biodiversità delle acque dolci è crollata dell’83% ed è un dato mostruoso, che testimonia che ci abbiamo lasciato dentro meno del 20% delle forme di vita che c’erano mezzo secolo fa. Ma questo è solo un esempio e ce ne sono stati tanti altri.

Quindi i dati sono pessimi e, come osserva giustamente Lei, ci stiamo facendo sostanzialmente del male perché dalla biodiversità dipendono servizi ecosistemici al momento gratuiti – e sottolineo al momento – perché i modelli economici li prevedono come tali. Ma finalmente ora anche le riviste scientifiche stanno facendo i conti caso per caso, calcolando quanto ci costerebbero quei servizi se dovessimo pagarli e vengono fuori delle cifre notevoli. Se abbattessimo per esempio tutte le popolazioni di insetti impollinatori dovremmo sostituirli con dei robot impollinatori come stanno facendo in Asia e quello ci costerà. Quindi ci stiamo facendo del male economicamente e anche l’economista più basico dovrebbe capire che ciò non ci conviene solo facendosi due conti. Soprattutto ci facciamo del male in termini medici perché per esempio il crollo della biodiversità e la distruzione dell’ambiente aumentano la probabilità di pandemie e quindi facciamo del male anche alla nostra salute: la diversità del microbiota umano nelle aree industriali e urbane crolla e questo testimonia, essendo legata a tante delle malattie che ci colpiscono, che ci facciamo del male anche da questo punto di vista. Però permettimi di aggiungere che ci facciamo del male anche in termini di giustizia, nel senso che poi chi paga gran parte di questo prezzo non siamo noi privilegiati – e questo ricordiamocelo sempre – ma sono quei Paesi della fascia equatoriale e tropicale che hanno contribuito pochissimo al problema e questo è un gigantesco tema di ingiustizia e disuguaglianza che si lega a quello ambientale.

Mi riallaccio subito all’ultima considerazione: alcune settimane fa è uscito il nuovo rapporto IPCC sul clima, che dimostra come le criticità ambientali e le ingiustizie sociali siano profondamente legate. Mi viene allora da chiedermi come sia possibile deteriorare l’ambiente, toglierci letteralmente la terra sotto i piedi, per creare per giunta non un mondo migliore per noi esseri umani ma tutt’altro.
Sì, è proprio così: noi evoluzionisti diciamo che ci stiamo infilando in una trappola evolutiva, una di quelle situazioni in cui non ti accorgi di quanto ti stia facendo del male finché non ti imbatti nella sua evidenza. Prendiamo anche il caso della pandemia, che avrebbe dovuto insegnarci come tali accadimenti siano anche una questione ecologica: ne siamo usciti grazie alla medicina, alle biotecnologie, ai vaccini, al distanziamento sociale ma ci siamo dimenticati della radice profonda di quel problema, che è rimasta tale e quale. Quindi abbiamo superato la pandemia ma non abbiamo per niente ridotto il rischio che ciò possa succedere nuovamente. È questa la cecità terribile del mondo in cui viviamo, la trappola in cui ci siamo cacciati.

Sul rapporto IPCC, faccio notare una cosa: questa istituzione finora non si era mai interessata a questi temi. Da trent’anni raccoglie dati sul clima ma solo adesso ha avvertito l’esigenza di discutere di disuguaglianze sociali, di temi politici e sociali. Questa è una novità importantissima, ma non inattesa, perché negli ultimi 4-5 anni non c’è stata settimana in cui Nature, Science e Lancet (riviste scientifiche molto compassate e di solito focalizzate solo sulla fornitura di dati) non abbiano pubblicato articoli di fuoco sulle disuguaglianze sociali e le ingiustizie ambientali, quasi fossero dei militanti di qualche movimento. Se anche riviste di questo tipo sfornano sistematicamente articoli del genere vuol dire che siamo veramente nei guai, che abbiamo tutte le evidenze di quanto sia malato il rapporto di interdipendenza tra queste due dimensioni: la crisi ambientale pesa per la maggior parte su popoli e nazioni che non hanno contribuito al problema e ciò fa aumentare disuguaglianze, conflitti, migranti ambientali e così via. Queste disuguaglianze e ingiustizie alimentano a loro volta la crisi ambientale perché generano la distruzione dell’ambiente per sussistenza e alcune nuove crisi: per esempio la carenza del gas che importavamo dalla Russia non la risolviamo accelerando la transizione ecologica ma andando a prendere il gas da qualche altra parte, alimentando così le emissioni. Questo è il tremendo circolo viziosi in cui siamo immersi.

La luce positiva che intravedo attraverso queste ombre è che il cosiddetto Global South adesso parla con una voce sola, una voce per giunta potente, perché all’ultima cop dell’anno scorso e anche a quella sulla biodiversità si è fatto sentire in modo energico, ha inciso sul documento finale, dicendoci chiaramente che non si può più andare avanti così. Prendiamo anche il fondo Loss and damage, che qualcuno in Europa ha definito “fondo di aiuto ai Paesi poveri per il climate change”: non si tratta di un fondo di aiuti bensì di risarcimento, concetto ben diverso da quello di aiuto. Non dobbiamo cioè paternalisticamente aiutarli ma risarcire i danni che gli abbiamo fatto – un cambiamento semantico secondo me piuttosto importante che è comparso nei documenti internazionali, frutto della pressione esercitata dai quasi 150 Paesi che vengono chiamati appunto Global South.

Ora vorrei passare al tema della nostra responsabilità, anche da un punto di vista giuridico: a che punto siamo a livello legislativo riguardo la protezione ambientale? Mi rivolgo all’evoluzionista: cosa ci manca per fare quel salto evolutivo al fine di valutare la nostra responsabilità non solo nell’ambito dei rapporti individuali ma anche collettivi in relazione all’ambiente? Mi spiego meglio: se io reco un danno a un individuo direttamente, questo è considerato grave; ma se non nuoccio direttamente a un solo individuo ma indirettamente a molti di più danneggiando l’ambiente, il mio agire viene considerato meno dannoso. Ecco, cosa ci manca per adottare un’ottica più ecologica?
Sì, si tratta proprio di un salto evolutivo e può essere generalizzato in altri termini: noi sostanzialmente abbiamo un’etica della prossimità e anche i nostri sistemi giuridici si basano su di essa: consideriamo quindi rilevante il nostro impegno etico qualora sia prossimo, cioè se io ne vedo gli agenti nello spazio e nel tempo. Proprio questa etica della prossimità è un po’ il nostro limite, poiché invece avremmo bisogno di un’etica della lungimiranza: noi oggi dobbiamo prenderci degli impegni i cui effetti positivi, auspicabili e probabilistici, non li riscuoteremo noi ma le future generazioni. Quello che bisogna fare è lavorare alla radice della questione: nonostante tutto, l’Italia è uno dei pochi Paesi che lo scorso anno ha cambiato nella propria Costituzione un articolo fondamentale, l’articolo 9. Qui c’è un nuovo comma secondo il quale la Repubblica non tutela solo il paesaggio, la ricerca e le conoscenze ma anche la biodiversità, l’ambiente e gli ecosistemi nell’interesse delle future generazioni. Questo è uno slancio significativo perché è stato introdotto nella Costituzione un soggetto giuridico problematico poiché ancora non esistente: le future generazioni. Quindi vedi che si va un po’ a forzare quella logica limitata di cui parlavi? Ma questa è la Costituzione, il testo normativo, quindi d’ora in avanti, ogni volta che esce una legge nello specifico, noi ci dovremmo chiedere: ma rispetta l’articolo 9 della Costituzione? L’articolo non deve limitarsi a essere un’assunzione di principio ma deve diventare un criterio regolativo a partire dal quale legiferare. E voglio ricordare che non è stato cambiato solo l’articolo 9 ma anche l’articolo 41, quello che regola la libertà d’impresa: in Italia la libertà d’impresa rimane ovviamente garantita ma trova due limiti fondamentali nella salute umana e in quella dell’ambiente. D’ora in poi quindi potremmo chiederci: ma quest’azienda che sta facendo greenwashing o questa Regione che promuove una legge che prevede ulteriore consumo di suolo stanno rispettando gli articoli 9 e 41 della Costituzione? Speriamo che qualche nuova sentenza si pronunci a riguardo, limitando l’agire di chi non rispetta tali articoli. E questo dobbiamo imparare a farlo sempre di più, considerando sempre che la Costituzione è ciò che tiene insieme la nostra comunità e che impronta poi tutte le leggi che ne derivano.

Ora voglio fare riferimento ad alcuni concetti inseriti nel titolo di alcuni dei suoi ultimi libri come imperfezione e finitudine: sempre in una prospettiva evoluzionistica, perché non riusciamo ancora ad accettare che la nostra presenza su questo pianeta, che era altamente improbabile, è appesa a un filo ed è proprio questo che la rende così preziosa? Se i dati in tal senso parlano chiaro, cosa ci manca per farci carico di questa verità?
Siamo giunti alla domanda delle domande! Credo che la questione riguardi due aspetti e uno è di carattere psicologico perché questa è un’evidenza scomoda, fastidiosa, disorientante… Ma per me non lo è: come notava Stephen Jay Gould il non essere indispensabile ti dà quella leggerezza, quella libertà dentro la quale secondo Camus trovi anche la solidarietà con gli altri. Questa dimensione di fragilità e di finitudine riguarda tutti e quindi – sempre citando Camus – siamo tutti fratelli, tutti solidali nel quadro di questa stessa finitudine, a cui puoi ribellarti, sfidandola con le lotte e le battaglie che porti avanti nella tua vita. Per me quindi non si tratta di una verità scomoda ma mi rendo conto che per tantissime persone sia quasi disperante.

Poi, come studiamo noi evoluzionisti, ciò riguarda anche l’aspetto cognitivo: queste verità non sono solo spiacevoli per molti ma sono anche controintuitive, facciamo fatica ad accettarle proprio cognitivamente. È un paradosso darwiniano: il nostro cervello è fatto in modo da non farci piacere alcune evidenze scientifiche. Tanti esperimenti mostrano che noi abbiamo un cervello teleologico a cui piacciono complotti e cospirazioni, a cui piace pensare che dietro alle cose ci sia sempre un agente intenzionale, che la storia abbia una finalità determinata fin dall’inizio… Invece quello che ci dice l’evoluzione e l’etica della contingenza che ne deriva è esattamente l’opposto: siamo appesi a un filo, siamo qui in virtù di biforcazioni contingenti e fin dall’inizio non c’era scritto proprio nulla.

Però devo sottolineare anche una cosa che mi piace molto e sui cui ho appena sostenuto un dialogo con Guido Tonelli: anche la fisica è giunta a molti esiti simili a quelli dell’evoluzionismo. Prima non era così dal momento che i fisici pensavano che le leggi da loro scoperte disvelassero un ordine nascosto mentre ora anche loro affermano che l’universo è un processo contingente, violento e imprevedibile e noi ne occupiamo uno spazio periferico, del tutto insignificante. Mi piace questa convergenza tra due grandi filoni della ricerca scientifica e quindi continuo a sperare che, piano piano, questa consapevolezza si diffonda sempre di più. Presentandola agli altri come faceva Stephen Jay Gould, che non ti dipingeva questa realtà in modo punitivo ma nella sua bellezza, nel suo elemento di riscatto, perché il suo nucleo fondamentale è che, se non era scritto il passato, non lo è nemmeno il futuro, che quindi è aperto. Possiamo fare la differenza, possiamo agire, la nostra libertà e la nostra responsabilità possono fare la differenza. E, pur nella nostra finitudine, si tratta di un messaggio bello e rinfrancante.

Bello e rinfrancante come questa chiacchierata, per cui la ringrazio. Come possiamo concluderla nel migliore dei modi?
Se posso aggiungere una cosa che mi sta a cuore è che vorrei invitare ad approfittare della Giornata mondiale dell’Ambiente per ripensare anche l’ambientalismo, che sia un ambientalismo nuovo, popolare, basato sull’impegno di tutti e non certo dei privilegiati. Dobbiamo imparare ad ascoltare il Sud del mondo, che ci sta parlando, e i suoi membri sono gli unici che hanno in questo momento voce in capitolo, dovrebbero parlare solo loro e noi dovremmo ascoltare. L’ecologismo non deve essere più settario e legato all’idea di combattere una battaglia minoritaria, perché si tratta del grande tema dei prossimi anni. Un tema che deve essere legato a quello sociale: non c’è alcun dubbio che ci aspettano periodi di conflitto perché ci saranno conflitti di interessi palesi all’interno delle nostre comunità e tra comunità diverse. Ci aspettano lotte e conflitti e quindi dobbiamo trovare di nuovo degli elementi di solidarietà per condurre queste lotte insieme e ce ne sono perché in questo momento il messaggio ambientalista più radicale viene dalle riviste scientifiche, dai movimenti giovanili, da alcuni religiosi e come sempre da quelli ambientalisti… In mondi completamente diversi si sta dicendo la stessa cosa e ciò può dare corpo a un’alleanza la cui voce potrà farsi sentire.

Foto 1 Pexels | Tomas Ryant, 2 Wikipedia | Festival della Scienza 



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