Giornata mondiale della filosofia: una riflessione

È complicato individuare un campo filosofico (metafisico, ontologico, logico, etico) in cui non siano decadute irreversibilmente le visioni tradizionali. Nei tempi difficili che viviamo, in cui tutto è rimesso in discussione – progresso storico, razionalità dell’agire, diritti inalienabili affermati e più volte violati – dovremmo interrogarci su quali siano oggi i temi della riflessione filosofica: l’origine dell’universo, il senso della storia, l’assolutezza di valori universali, l’ignoto dell’AI?

Teresa Simeone

In occasione della Giornata mondiale della filosofia, la Direttrice Generale dell’UNESCO, Audrey Azoulay, ha ricordato che “Al fine di costruire un mondo migliore e muovere verso un ideale di pace, sappiamo che dobbiamo adottare un approccio filosofico, cioè dobbiamo sottoporre a una critica radicale i difetti del nostro mondo, al di là del tumulto delle crisi. La filosofia è dunque essenziale quando si tratta di definire i princìpi etici che dovrebbero guidare l’umanità”.
È inevitabile, però, nei tempi difficili che appunto viviamo, in cui tutto è rimesso in discussione – progresso storico, razionalità dell’agire, diritti inalienabili affermati e più volte violati – interrogarci anche su quali siano oggi i focus della riflessione filosofica: l’origine dell’universo, il senso della storia, la causa del male, l’assolutezza di valori universali, la cittadinanza planetaria, la sopravvivenza dell’uomo e dell’ambiente in cui vive, l’ignoto dell’AI? Complicato appare individuare un campo, metafisico, ontologico, logico, etico, in cui non siano decadute irreversibilmente tradizionali visioni e non sembri ozioso ritornarvi.

Dio è morto: lo abbiamo ucciso noi, ci ha detto Nietzsche, e questo deicidio, con la scomparsa del sacro, non ci ha lasciati più forti, come ci si sarebbe auspicato dopo il primo disorientamento, ma privi di appigli anche per il futuro. Avremmo dovuto rinascere come fanciulli gioiosi ed entusiasti di dire sì alla vita: siamo tornati carichi come il cammello e presuntuosi come il leone. E quando non lo abbiamo ucciso, lo abbiamo lasciato agli integralisti che in suo nome continuano a massacrare esseri umani, a sterminare popolazioni, a distruggere speranze. D’altronde quel dio, usato come alibi, è fatto a immagine e somiglianza degli uomini che lo invocano per giustificare la propria aggressività, costruito, modellato su una sua interpretazione univoca e personalistica. “Se i buoi e i cavalli e i leoni avessero mani e potessero con le loro mani disegnare e fare ciò appunto che gli uomini fanno, i cavalli disegnerebbero figure di dei simili ai cavalli e i buoi simili ai buoi, e farebbero corpi foggiati così come ciascuno di loro è foggiato”, scriveva Senofane già nel VI secolo a.C. Quanto hanno aggiunto Feuerbach, Marx e Nietzsche è cosa nota.

Sul senso della storia, Popper, tra gli altri, nel denunciare la miseria dello storicismo, ha dimostrato con chiarezza come essa non ce l’abbia, come non sia prevedibile e dunque non segua una direzione determinata da un Logos, da una Provvidenza, da un Assoluto, da una Mano invisibile che spinge verso un telos che ne garantirebbe una progressione ottimistica. Siamo noi esseri umani a imprimere la direzione agli eventi: la storia, scriveva Marc Bloch, è fatta dagli uomini nel tempo. Questo da un lato ci libera dalla necessità coercitiva di qualcosa che non potremmo controllare, dall’altro ci espone ai capricci dei vari potenti che di volta in volta hanno in mano i destini dei loro cittadini o sudditi che siano, anche se siamo sempre noi che scegliamo questi potenti o lasciamo che governino. Nel terzo millennio non sono finiti i conflitti né le uccisioni di massa e neppure lo sterminio condotto con le modalità più terrificanti, potenziate dal livello di raffinatezza nefasta raggiunto: quel “Mai più!”, ripetuto a ogni commemorazione di giornate come il 27 gennaio, ad esempio, appare ormai un puro flatus voci, un grido non di speranza ma di amara disperazione. Il grido di chi credeva che l’orrore non si sarebbe mai potuto riaccendere. E invece il male, nelle sue forme terroristiche e inarrestabili, continua a manifestarsi, ora nell’eccidio organizzato con ferocia inaudita da Hamas, ora con i bombardamenti su Gaza e sui civili che vi abitano. In questo deserto, come si fa a non interrogarsi sull’ingiustizia di un mondo che salva arbitrariamente alcuni e condanna tutti gli altri?

Anche il discorso etico è reso complesso da una realtà multiforme e non circoscrivibile in confini definiti per tutti: i valori sono assoluti o sono relativi? E se è vero quest’ultima risposta, che già i sofisti affermavano nel V secolo a. C. e poi ripetutamente ripresa oggi, attori come siamo di una dimensione multiculturale in cui non è possibile richiudersi in frontiere nazionalistiche ma diventa essenziale aprirsi a prospettive ampie e rispettose delle diversità, l’eterogeneità valoriale non diventa un alibi per giustificare le peggiori nefandezze? Il mondo intero deve accettare che ci siano paesi in cui si lapidano adultere, in cui gli omosessuali vengano condannati a morte, in cui le donne non abbiamo voce né soggettività? Qual è quel mondo che può accettare la completa negazione dei diritti imprescindibili dell’essere umano come semplice espressione di una diversa prospettiva? E il problema è etico o giuridico e tali diritti sono il frutto di lotte che l’Occidente ha combattuto o sono patrimonio di tutte le culture, qualcosa per cui battersi a livello internazionale o da lasciare alla libera dialettica interna degli Stati? E infine rappresentano il terreno comune che la Dichiarazione internazionale dei diritti umani del 10 dicembre 1948 ha sancito e che impegnano i paesi dell’ONU o sono un puro esercizio formale senza alcuna obbligazione da rispettare? C’è un diritto di avere diritti per tutti come ha affermato Stefano Rodotà o questo è vero solo per alcuni paesi?

Altro campo di indagine è quello ecologico che impone di rivedere il rapporto con l’ambiente, alla luce dei nuovi cambiamenti climatici che mettono a rischio la nostra vita sulla Terra. Dopo le analisi e la divisione tra catastrofisti e ottimisti, le riserve di un Heidegger, di uno Jonas, di un Anders, dopo le denunce di quanti hanno messo in guardia da uno sviluppo illimitato che ha distrutto la natura e ha aperto scenari apocalittici di un uomo distruttore di mondi, in realtà si è arrivati a capire che non sarà l’umanità a distruggere la natura ma sarà la natura a distruggere l’uomo se questi continuerà con la logica del profitto e dello sfruttamento indiscriminato. Come sostiene il biologo Edward Osborne Wilson, se non preserviamo le altre forme di vita, metteremo in pericolo noi stessi distruggendo la casa in cui ci siamo evoluti. Sarà l’ecosistema ad annientare l’uomo: è questi, dunque, non l’ambiente, a rischio estinzione. E allora gli sforzi umani devono essere diretti a invertire la tendenza, a far prendere coscienza dell’egocentrismo presuntuoso, del narcisismo miope di chi non ha consapevolezza né delle proprie forze né dei propri limiti. Ancora una volta – e in questo l’umanesimo filosofico è fondamentale nel dare la direzione giusta –la chiave per evitare la dissoluzione è nella ragione umana, nell’intelligenza con cui può cogliere i segnali pericolosi e correggere gli eccessi.

Lo stesso discorso vale per le nuove frontiere dell’AI su cui è centrata l’attenzione mondiale. Le nuove tecnologie stanno impoverendo, in un effetto Flynn inverso, l’uomo dal punto di vista intellettivo, emotivo, sociale? Dobbiamo temere gli sviluppi di un’intelligenza artificiale che sempre di più entra nelle esperienze quotidiane e influenza le nostre abitudini? L’attivazione di corsi di laurea in filosofia e AI, presso alcuni atenei, fa riflettere su come ci sia bisogno di un approccio rigoroso che affronti la problematica senza pregiudizi, con uno sguardo al futuro. E, nello stesso tempo, filosofi come Carlo Sini chiariscono che è improprio usare il termine intelligenza per automi, cioè macchine che sono manovrate da esseri umani. Il bastone non è intelligente: è la mano che lo muove che è intelligente. Certamente ci sono strumenti in grado di fare operazioni molto più complesse e veloci di quanto non possa fare un essere umano ma questo non significa che siano in grado di pensare. Il discorso riguarda non la macchina in sé, quindi, ma il nostro modo di usarla. È sempre l’uomo che agisce, costruisce, usa le macchine. È soprattutto colui che le programma. Ancora una volta la profondità dell’analisi filosofica potrebbe, se esce dall’arroccamento in cui è tentata di chiudersi, si apre agli altri e si fa contemporaneità, dare un contributo di chiarezza e di riflessione critica sulle problematiche cogenti del nostro tempo e aiutare ad attraversare più consapevolmente questo mondo.

FOTO Getty Images | Panagiotis Maravelis



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