Giovani e politica: la logica paternalistica all’opera in campagna elettorale

Nei movimenti, nelle reti civiche, nelle realtà informali ci sono laboratori di sperimentazione politica che riguardano «il rapporto tra i giovani e il voto» molto di più di quanto siamo abituati a pensare. Esperienze che dovrebbero determinare le proposte delle formazioni progressiste in maniera costitutiva, non come aggiunte idealiste dell’ultimo minuto per i prossimi programmi elettorali.

Edoardo Bucci

Nel corso della campagna elettorale che si sta per concludere l’espressione «il rapporto tra i giovani e la politica» ha vissuto di vita propria. Abbiamo sentito parlare con insistenza di questo rapporto mistico e universale che prescinde da tutto e da tutti a partire proprio dai termini che lo compongono: i giovani e la politica.
La narrazione di un legame, presente in maniera diffusa negli schieramenti dei partiti e nella stampa, che dà spesso l’impressione di essere descritto da un osservatore molto lontano.
Le idee e le istanze delle nuove generazioni vengono compresse, conformate, omologate a forza in categorie definite da persone che ne sono estranee; il dialogo inter-generazionale diventa così quasi impossibile.

Una conoscente che studia giornalismo e svolge un tirocinio in un’agenzia di stampa internazionale mi ha raccontato qualche giorno fa della richiesta che le era stata fatta dalla sua caporedattrice francese. Andare con la telecamera al “pratone” dell’Università La Sapienza a Roma per chiedere le intenzioni di voto ai ragazzi con meno di 25 anni. Non è riuscita a convincerla che non avesse senso per un motivo che sia a me sia a lei era chiaro. Quasi nessuno avrebbe dichiarato il voto: cosa incomprensibile per un francese non per un italiano. Alla fine è andata comunque e il pronostico si è avverato. Un tema complesso che nulla ha a che fare con il disinteresse per la politica. Il senso di appartenenza non è connesso alla vicinanza con un partito e questo si sa da molto. Una verità quasi assoluta che avvolge un nucleo semplice. L’adesione pubblica è, per un giovane in particolare, qualcosa di più compromettente del voto nell’urna. Negare la dimensione di piazza alla propria preferenza è la manifestazione più intima di una frattura umana e relazionale.

La distanza determina il tono, lo ha fatto in maniera particolare nel corso di questa campagna elettorale.
Sullo sfondo sessantenni che alternano riflessioni morbose del legame tra i giovani e TikTok a descrizioni romanzate di disagi, lotte e precarietà.
In scena una logica paternalistica che assume le forme più disparate e si connette con temi differenti. Eclatante a destra più sfuggente e nascosta a sinistra.
È il caso della proposta salviniana sul ritorno della leva obbligatoria per «insegnare ai giovani che non esistono solo i diritti ma anche i doveri» in cui la richiesta di diritti rimanda a una dimensione velleitaria e pretenziosa.

Meriterebbe una lunga analisi invece il legame tra quello stesso paternalismo e il diritto all’aborto. Tema emerso nuovamente dopo le recenti dichiarazioni di Giorgia Meloni sulla necessità di tutelare il «diritto a non abortire».
Una tematica connessa in molti modi alle prospettive di vita delle donne più giovani. Da una parte c’è senza dubbio il legame con l’età media di chi decide di praticare un’interruzione volontaria di gravidanza. Per l’Istituto superiore di sanità «i tassi più elevati riguardano le donne di età compresa tra i 25 e i 34 anni» in relazione a contesti sociali sensibili considerando che «nelle donne straniere i tassi di abortività sono di circa 2-3 volte più elevati rispetto a quelli delle italiane».
Dall’altra c’è una connessione forte con l’eredità storica e simbolica delle lotte politiche sul tema e del rapporto tra due generazioni. Chi ha lottato per un diritto e chi c’è nato abituandosi a considerarlo, almeno sul piano teorico, acquisito in via definitiva.
È in questo quadro che assume una rilevanza specifica la linea di una parte della destra italiana che parla in maniera strumentale di contesti di vulnerabilità per veicolare una prospettiva conservatrice e repressiva.
Gli elementi in ballo nella narrazione di Fratelli d’Italia li spiega con chiarezza la filosofa Giorgia Serughetti sul Domani: «Meloni rivela un’abilità comunicativa appresa proprio dai movimenti antiabortisti conservatori che da decenni tendono a veicolare messaggi positivi e a impiegare il linguaggio dei documenti internazionali sui diritti umani…». Si dichiara di non voler toccare la legge 194 e si opta per il boicottaggio dell’iter dell’aborto che si trova già in condizioni disastrose. Nel mentre ci si appella alla tutela delle donne in condizioni di necessità.
Il tutto ha l’esito di far passare per moderata una visione di FdI affine a quella del PiS polacco o all’ascolto del battito cardiaco del feto dell’amico Viktor Orbán.

Un rapporto tra generazioni che esiste, in maniera differente, anche nel quadro progressista attraverso una retorica che tenta la strada dell’empatia con una fallacia originaria. Il Paese che durante la campagna elettorale si vuole creare per i giovani è pensato senza di loro. Aspettiamo un’Italia full-optional che ci verrà consegnata, chiavi in mano, ancora tra qualche anno.
Nel frattempo sono ben accetti consigli, idee e perplessità delle quali si terrà conto con affetto genitoriale.
I giovani vengono incastonati nel futuro senza che gli sia riconosciuto il ruolo e una funzione trasformativa nel presente. Nei temi di questa campagna elettorale si è pagato il peso di un’inclusione delle nuove generazioni a posteriori. Palesando la mancanza di corpi intermedi tra i giovani attivi e politicamente impegnati e i meccanismi di partito. Questo ha portato per lo più a considerare i primi per motivi di endorsement e immagine.

Una lontananza, tra temi e sensibilità, che dal punto di vista di chi scrive si è riversata anche nei toni generali e in narrazioni non direttamente connesse. È il caso ad esempio del consolidarsi di una retorica nazionale tra i progressisti dove, come dice Christian Raimo su L’essenziale, «…è ormai condiviso un inquadramento nazionalistico e l’antifascismo sembra una reliquia culturale».

È difficile immaginare un rinnovamento profondo della sinistra italiana senza affrontare in maniera seria e nel merito i differenti temi che le nuove generazioni portano alla luce, con tutte le loro contraddizioni e differenze.
Si continuano a considerare invece i giovani stessi come una questione monolitica da affrontare con proposte più o meno valide.
Il divario generazionale che viviamo è ampio da molti punti di vista e porta a difficoltà di comprensione e bias sulle sfumature, i linguaggi e le differenze.
Emerge nella politica di palazzo ma anche leggendo periodici e quotidiani. In un articolo dell’Espresso del 18 settembre di Gaja Lombardi Cenciarelli sul rapporto con il voto dei giovani di Roma Est ci viene spiegato che i ragazzi di periferia si chiamano tra loro «Fra’», che non esiste il corrispettivo «Sore’» (che invece esiste) e che «l’unico solidissimo fil rouge tra loro e gli studenti del centro di Roma, tradizionalmente più impegnati nella politica attiva, sembra essere il consumo di droga…». Ci si scorda di menzionare che la periferia Est di Roma rappresenta uno dei quadranti della città più ricchi di esperienze politiche e sociali dal basso, molte delle quali animate da giovani.

Occupandosi di tematiche sociali oggi in Italia si vede maturare con forza la necessità di una pratica politica diversa. Un sentimento profondo connesso alla militanza anche nelle sue manifestazioni culturali e associative. In grado di esprimere e veicolare in modo efficace i forti elementi di disagio che le nuove generazioni vivono in questo Paese.
Nei movimenti, nelle reti civiche, nelle realtà informali ci sono laboratori di sperimentazione politica che riguardano «il rapporto tra i giovani e il voto» molto di più di quanto siamo abituati a pensare.
Esperienze che dovrebbero determinare le proposte delle formazioni progressiste in maniera costitutiva, non come aggiunte idealiste dell’ultimo minuto per i prossimi programmi elettorali.

* Edoardo Bucci è responsabile editoriale di Scomodo.



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