L’idea della giustizia penale internazionale contro la guerra in Ucraina

Il 17 luglio ricorre un anniversario diverso per la Corte penale istituzionale, il cui statuto fu approvato nel 1998.

Maurizio Delli Santi

Le nuove “banalità del male” della guerra in Ucraina possono essere contrastate riaffermando i principi dello Statuto della Corte penale internazionale, che fu approvato a Roma il 17 luglio 1998. Da allora lo Statuto di Roma, il “Rome Statut” come è ricordato nella comunità internazionale dei giuristi, rappresenta la più importante opera di codificazione sui crimini internazionali. È in forza dei suoi principi che oggi la Corte dell’Aja sta sostenendo le autorità giudiziarie ucraine per assicurare la raccolta delle prove e perseguire oltre 20.000  crimini di guerra e contro l’umanità, commessi soprattutto nei confronti dei civili tutelati dalle Convenzioni dell’ Aja e di Ginevra. Anche l’Italia in questi giorni sta dando un senso compiuto all’anniversario, con il progetto del Codice dei Crimini internazionali. Ma altri passi importanti sono da compiere.

Le riflessioni su un anniversario

Come prima reazione, sul volto di molti si leggerebbe una smorfia di scettico dubbio all’idea di celebrare un anniversario per la “giustizia penale internazionale”. La “Giustizia” in Italia è un ideale che a stento sembra riprendersi dalle derive che l’hanno profondamente calpestata. Nel contesto internazionale poi, lo scenario non è tanto più incoraggiante. Le pronunce conservatrici sull’ “originalism” della Corte suprema statunitense ne sono un esempio. Ma anche l’ “ordine internazionale liberale” – inteso storicamente come il sistema delle relazioni fra Stati fondato su regole, istituzioni e  diritti – vive da tempo una fase di arretramento e il diritto internazionale appare inefficace di fronte all’ultima guerra di aggressione. In piena Europa – lo si può dire oggi, viste anche le iniziative di adesione all’UE – l’attacco russo all’ Ucraina si protrae con regole terroristiche e in disprezzo dei più elementari principi di umanità affermati dalle Convenzioni dell’Aja e di Ginevra, persino con gli effetti devastanti di una crisi energetica e alimentare che colpirà in maniera inesorabile soprattutto le fasce più fragili della popolazione mondiale.

Ci sono tuttavia varie ragioni per non ridurre a questo scenario l’interpretazione del presente, nell’occasione di  un anniversario per la giustizia penale internazionale appena celebrato, e in previsione di  un altro imminente che ci riguarda più da vicino. Il 1° luglio scorso all’Aja una Conferenza ad Alto livello ha commemorato il 20° anniversario della istituzione della Corte penale internazionale (CPI), con riferimento a  quel 1° luglio 2002  in cui furono raggiunte le ratifiche necessarie per l’entrata in vigore internazionale del suo Statuto istitutivo. Quattro anni prima – per questo si parla di un prossimo anniversario – il 17 luglio 1998, al palazzo dalla Fao di Roma si era svolta  la storica Conferenza diplomatica dove alle 22.50 un lungo e fragoroso applauso aveva annunciato proprio l’approvazione – con 120 voti a favore su 148 Stati votanti- dello Statuto della Corte penale internazionale, che da allora sarà appunto ricordato come lo Statuto di Roma.

I motivi per commemorare questi anniversari con meno scetticismo possono considerarsi innanzitutto nelle ragioni di chi crede in una impostazione crociana della Storia come “storia delle idee e della libertà”, ma anche nella regola gramsciana del primato dell’ “ottimismo della volontà” sul “pessimismo della ragione”,  oppure nella più prosaica idea socio-economica delle “profezie  che si autoavverano”. Più specificamente, nel contesto della comunità dei giuristi si  è ben consapevoli che il percorso della giustizia penale internazionale è sofferto e segna un continuo working in progress, ma è ad esso che bisogna guardare con fiducia, anche e nonostante l’aporia dei tempi che sembrano contrastarlo. Lo sa bene ha vissuto  chi si è formato ad esempio sugli scritti di Giuliano Vassalli, che dalla cattedra di diritto penale di Genova nella prolusione fatta il 31 gennaio 1946 – negli scenari ancora sconvolti dalla guerra – seppe interpretare come l’idea dei Tribunali internazionali stava esercitando una fortissima suggestione, non solo nella riflessione dei maggiori giuristi dello scorso millennio: si sarebbe diffusa per generazioni anche nel sentire comune dei giovani studenti, che nell’approccio al diritto penale, al diritto internazionale e alla filosofia del diritto sentono forte l’impulso alla ricerca di un archè presocratico, di un indiscusso fondamento giuridico per l’idea e gli strumenti della giustizia internazionale. Ma non va dimenticato anche il significato ideale dell’esperienza tutta intellettuale del Tribunale Russell, quel “Tribunale internazionale contro i crimini di guerra” che era soltanto un  tribunale di opinione, senza alcun connotato giurisdizionale, voluto da Bertrand Russel e Jean Paul Sartre nel novembre 1966 per indagare sui crimini commessi nella guerra del Vietnam, poi estesosi in altre sessioni anche sulle violazioni ai diritti umani e gli etnocidi commessi dai regimi dittatoriali in America Latina e in Africa.

Il valore dello Statuto della Corte penale internazionale

È necessario dunque partire da questi presupposti ideali per comprendere, fino in fondo, il senso della Corte penale internazionale. La prima riflessione deve perciò essere rivolta innanzitutto a cogliere i punti salienti di ciò che ha significato nel diritto internazionale l’approvazione dello Statuto della Corte. Qui i riferimenti storici e giuridici sarebbero tanti, ma senza dubbio si può affermare che lo Statuto rappresenta ad oggi il più attuale e compiuto sistema di codificazione, dal valore universale, dei crimini internazionali, così come concepiti da un complesso percorso dottrinale e giurisprudenziale: è il frutto delle elaborazioni del diritto dell’Aja e di Ginevra, ovvero delle previsioni del Diritto Internazionale Umanitario e dei Conflitti Armati, ma anche del sistema di tutela dei Diritti Umani, e dei fondamentali principi affermati anche dalla giurisprudenza dei Tribunali di Norimberga e Tokio, troppo superficialmente liquidati come “tribunali dei vincitori”, e più recentemente dai Tribunali per la ex Jugoslavia ed il Ruanda, o anche dai meno conosciuti Tribunali c.d. misti o “internazionalizzati”.

Questa opera di codificazione  ha richiesto un impegno poderoso, e non bisogna dimenticarne la ratio, perché ha dovuto superare due  dogmi:  da un lato l’idea del “dominio riservato” degli Stati sulla giurisdizione penale, e dall’altro  la separazione di due mondi del diritto che fino ad allora apparivano poco conciliabili, il civil law, il sistema derivato dal diritto romano in cui prevale la funzione normativa della legge, e il common law, di derivazione  romano-germanico, affermatosi negli ordinamenti anglosassoni e americani, basato sul precedente giurisprudenziale, il c.d.  stare decisis.

Poi c’è stata l’altra opzione fondamentale che ha segnato la svolta sui tribunali internazionali ad hoc: si giungeva finalmente a superare l’istituzione di corti costituite secondo le emergenze, la cui riconoscibilità veniva perciò posta in discussione dai giuristi più rigorosamente interpreti del principio nullum crimen, nulla poena sine praevia lege penali.

Lo Statuto della Corte si presenta dunque oggi come la base giuridica più compiuta che definisce i crimini di genocidio (art.6), i crimini contro l’umanità (art.7), e i crimini guerra (art. 8). Nel 2010, dopo la Conferenza di revisione di Kampala del 2010, ha anche esteso la competenza sul crimine di aggressione (art. 8-bis),  ovvero l’attacco ingiustificato alla sovranità di uno Stato, quando è compiuto in difformità alle previsioni della Carta delle Nazioni Unite o senza che ricorrano le condizioni della self-defence previste dal diritto consuetudinario. Si è data quindi forma e sostanza all’idea di un tribunale penale internazionale  dal carattere permanente e dall’efficacia universale, chiamato ad intervenire secondo il principio di complementarietà:  la Corte interviene qualora gli Stati “non vogliano o non possano” giudicare i colpevoli, per unwillingness, il «difetto di volontà» (per ritardi ingiustificati, non indipendenza e  non imparzialità, ex art.17 comma 2 lett.a), o per inability, l’«incapacità dello Stato» (per “collasso istituzionale”, specie riferito agli organi giudiziari, ex art.17 comma 2 lett.b).

Fondamentali sono poi alcuni principi, come l’obbligo degli Stati di dare esecuzione ai provvedimenti della Corte, inclusi i mandati di arresto e le sentenze di condanna, ovunque nei loro territori, e in quelli ove operano le loro forze armate, anche quando i crimini internazionali commessi dagli imputati non siano stati diretti contro di essi e i loro cittadini. Inoltre  non sono riconosciute eccezioni alla punibilità ammesse in altri casi: i crimini di competenza della Corte non sono soggetti a prescrizione, non sono riconosciute immunità funzionali o personali, né  – in generale –  può operare l’esimente dell’ordine superiore.

Le questioni controverse sulla giurisdizione della Corte

Beninteso, il punto è che non solo le ragioni ideali possono sostenere la validità di un progetto, ma è importante pure una analisi obiettiva in cui si faccia riferimento anche alle questioni critiche o ancora aperte, e sul tema ve ne sono diverse, non v’è dubbio. In ogni caso, quella della verifica sul campo è una scelta sempre obbligata per testare il principio di effettività di un’idea, specie se si vuole rendere più concreta e affatto retorica la commemorazione di un anniversario.

Il percorso di questi primi vent’anni di un sistema così radicalmente innovativo della giustizia penale internazionale non poteva dunque presentarsi senza difficoltà di attuazione. Uno dei vulnus principali riguarda la condizione che vede sostanzialmente la Corte non ancora riconosciuta da diversi Stati. Nonostante la maggioranza raggiunta dalle 123 ratifiche delle Nazioni che hanno aderito al sistema della Corte, tra queste non figurano quelle della Russia (che pure aveva sostenuto e approvato lo Statuto) e della Cina, ma soprattutto anche quelle di Paesi democratici come gli Stati Uniti e Israele. Da questi sono venute  anzi le più forti opposizioni quando il Prosecutor dell’Aja ha tentato di avviare indagini per alcuni crimini di guerra da accertare nei teatri afghani e palestinesi. Nei confronti della ex procuratrice Bensouda i leader americani e israeliani hanno lanciato accuse di essere una enemy of the State e di antisemitismo, e il presidente Trump era persino giunto ad emettere nei suoi confronti un executive order di congelamento dei beni,  provvedimento poi revocato da Biden, che ha ripreso il dialogo con i giudici dell’Aja. Molte voci critiche sull’operato della Corte sono state sollevate anche sul dato numerico poco significativo dei processi e delle condanne, ritenuti da un lato piuttosto orientati nel solo contesto dei conflitti africani e dall’altro non corrispondenti all’elevato budget delle risorse assegnate. Le questioni più discusse hanno poi riguardato le asserite inerzie della Corte sui crimini commessi nella crisi del Darfur e della Siria.

In questa prospettiva va dunque compiuta un’analisi obiettiva, che tenga conto dei dati di fatto. Come si legge sullo stesso sito istituzionale  i casi portati dinanzi alla Corte in questi venti anni sono 31, di cui la maggior parte con più imputati; risultano emessi 41 mandati di arresto, ma più della metà degli imputati sono latitanti e i processi ultimati hanno portato a 10  condanne e 4 assoluzioni. Non v’è d dubbio dunque che il percorso della Corte proceda con difficoltà, nonostante si tratti di una struttura con uno staff di 900 persone e l’ultimo budget annuale indicato ufficialmente in € 154.855.000. Tuttavia alcune riflessioni vanno fatte. Sostenere l’impegno di una inchiesta penale internazionale, specie nella fase della raccolta delle prove, non è facile, richiede tempo e soprattutto deve reggersi sulla cooperazione degli Stati e delle organizzazioni internazionali e regionali. Il sostegno e la collaborazione degli Stati e  di organizzazioni come  la NATO, ad esempio, e delle altre coalizioni internazionali assimilabili, sono fondamentali soprattutto per ricercare e catturare i responsabili accusati dalla Corte. Per comprendere gli scenari e la complessità dei giudizi della Corte possono essere utili due riferimenti ai processi più recenti. Nel novembre 2019, Bosco Ntaganda, leader dei miliziani del Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo, è stato condannato a 30 anni di reclusione per 18 capi di imputazione di crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nella Repubblica Democratica del Congo, tra il 2002 e il 2003. Il 4 febbraio 2021, la Camera IX di primo grado ha dichiarato colpevole l’ex comandante del gruppo guerrigliero Lord’s Resistance Army  Dominic Ongwen, ritenuto responsabile di 61 crimini contro l’umanità e crimini di guerra, commessi tra il 1° luglio 2002 e il 31 dicembre 2005 nel contesto della ribellione armata contro il governo dell’Uganda.

Il ruolo della Corte dell’Aja nelle vicende dell’Ucraina

Altre riflessioni sono però necessarie per compiere una valutazione più aderente sul ruolo che la Corte penale internazionale sta assumendo nel presente, e potrebbe evolvere anche nel prossimo futuro. La guerra in Ucraina ha radicalmente mutato lo scenario:  il sistema delle relazioni internazionali appare in una crisi irreparabile e sono cadute anche quelle poche certezze che ancora residuavano perché si garantissero condizioni minime di legalità e cooperazione nei rapporti fra Stati. E tuttavia è proprio di fronte alla illegittimità della aggressione della Russia, e alle modalità criminali  e terroristiche della sua condotta della guerra, che si  è tornati a parlare di giustizia penale internazionale. Si sono evocate le condanne dei Tribunali di Norimberga e della ex Jugoslavia, e si è dunque guardato necessariamente con rinnovato interesse a chi ne ha raccolto l’eredità,  la Corte penale internazionale. Lungimirante certamente è stata la scelta compiuta  a suo tempo dall’Ucraina, che ha accettato la giurisdizione della Corte almeno per i crimini di guerra, contro l’umanità e il genocidio. Non ha ancora riconosciuto la competenza sul crimine di aggressione, ma potrebbe farlo in un prossimo futuro. In proposito, rispetto alle riserve di chi vede irrealizzabile questo proposito perché per l’incriminazione sul punto occorrerebbe una determinazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – in cui Russia e Cina esercitano il potere di veto – c’è chi vede realizzabile anche una possibile riforma dello stesso Statuto della Corte, ove gli Stati parte potrebbero introdurre una norma che consideri valida anche una Risoluzione di condanna dell’Assemblea Generale  o legittimi la Corte a procedere autonomamente.

Ma anche ragionando sul presente, vi sono altri motivi per considerare l’effettività del ruolo che sta oggi assumendo la Corte penale internazionale. Il Prosecutor dell’Aja ha potuto attivarsi con speditezza, saltando il passaggio della Pre Trial Chamber, procedendo per i crimini compiuti in Ucraina anche sulla base del referral, ex art. 14 dello Statuto. Si tratta della richiesta di attivazione delle indagini presentata per prima da 39 Stati, con in testa la Lituania, l’Italia e tutti gli altri paesi dell’Unione Europea, ma anche da Regno Unito, Australia, Canada, Colombia, Costa Rica, Georgia, Islanda, Lichtenstein, Nuova Zelanda, Norvegia, Svizzera, e Irlanda. In sostanza, questa scelta di una significativa rappresentanza di Stati ha dato forza e legittimazione al Procuratore della Corte, che si è recato più volte in Ucraina, ha saputo coordinarsi con Eurojust e le autorità giudiziarie ucraine, cui ha posto a disposizione i suoi team investigativi, e ha annunciato anche l’imminente costituzione di un ufficio distaccato della Corte  a Kiev. Nell’ultima visita compiuta in Ucraina sui luoghi dei massacri e delle distruzioni il Procuratore Khan è stato netto: “Mi sono recato a Kharkiv, nell’est dell’Ucraina. Ho verificato gli ingenti danni causati a questa città e ascoltato i racconti delle sofferenze subite dai civili. Il mio messaggio a coloro con cui ho parlato è stato chiaro: la legge rimane al loro fianco e in prima linea. Hanno diritti fondamentali che devono essere rivendicati anche in tempo di guerra”. Ed ha aggiunto: “Il mio Ufficio sta agendo con urgenza per dimostrare a tutti coloro che sono coinvolti in questo conflitto che hanno responsabilità dirette secondo il diritto internazionale, per le quali non sono ammesse eccezioni: ogni persona che prende una pistola, guida un carro armato o lancia un missile deve sapere che può essere ritenuta responsabile dei crimini commessi”.

Un’altra notizia è poi venuta da un comunicato stampa del 30 giugno diffuso dalla Corte: sono stati emessi i primi mandati d’arresto nei confronti di due alti funzionari russi e di un collaborazionista georgiano per crimini di guerra commessi nella aggressione compiuta dalla Russia sulla  Georgia nel 2008. Agli imputati sono stati contestati i crimini di guerra riconducibili alle fattispecie dell’ articolo 8 dello Statuto della Corte penale internazionale, fra cui figurano arresti illegali, torture e trattamenti disumani, oltraggi alla dignità personale, prese di ostaggi e trasferimenti illegali di civili: un vero e proprio monito per  i militari e i funzionari russi che oggi stanno compiendo gli stessi misfatti nel Donbass. Certo ci sarà il problema della esecuzione dei mandati, ma intanto i destinatari non potranno muoversi dal territorio russo se non vogliono essere catturati, e saranno comunque sub iudice per tutta la loro vita fino a quando non si presenteranno davanti ai giudici dell’Aja, perché i crimini internazionali sono imprescrittibili.

Tornando alle vicende attuali in Ucraina, in questa fase la collaborazione della Corte penale internazionale con gli organi di giustizia nazionali è fondamentale per procedere alla raccolta delle prove, ed è questo il valore aggiunto che sarà conferito dai team investigativi internazionali. Gli ultimi resoconti dell’autorità giudiziaria ucraina parlano di oltre 20.000 casi di crimini di guerra accertati, riferiti a gravi distruzioni di edifici civili, presidi sanitari, beni culturali ed altre strutture non costituenti obiettivi militari, a spoliazioni e ruberie sistematiche, ma anche alle drammatiche vicende delle esecuzioni dirette, delle uccisioni indiscriminate di civili e di prigionieri di guerra, alla cattura di ostaggi e al trasferimento illegale di civili e di altre persone protette, nonché a gravissimi riscontri su episodi di stupri, torture ed atti lesivi della dignità umana, tutte gravissime violazioni alle previsioni delle Convenzioni dell’Aja e di Ginevra, espressamente richiamate nello Statuto della Corte penale internazionale.

Nuove prospettive per la  giustizia penale internazionale

Il percorso della giustizia penale internazionale vede dunque un momento di prova che sarà decisivo per affermarne l’effettività, e probabilmente i prossimi mesi potrebbero vedere altri progressi. Rimane senz’altro la validità di una idea, unico baluardo per contrastare le nuove “banalità del male”. Anche in Italia il Ministero della Giustizia ha deciso di dare un’accelerazione alle iniziative per dare definitiva attuazione alle previsioni dello Statuto della Corte penale internazionale, avviando all’esame il progetto presentato dalla Commissione di esperti sul nuovo Codice dei Crimini internazionali. Sarà opportuno approfondire ancora diversi aspetti intrepretativi e questioni aperte, come  – ad esempio – quelli relativi a più incisive previsioni per perseguire sul piano del dolo i “danni collaterali” che comportano stragi di civili indiscriminate e gravi distruzioni, o il tema delicato  del riparto di giurisdizione tra magistrature ordinaria e militare. In ogni caso sarà necessario giungere presto ad un disegno di legge per la definitiva approvazione del Parlamento.

Ma probabilmente all’ Italia spetta anche un altro onere. Se vuole dare un senso compiuto a quel momento e a quel luogo fondativo, ricordando il fragore di quegli applausi che il 17 luglio 1998 inondarono a Roma la sala della Fao, sarebbe il caso di rilanciare l’iniziativa di  una Conferenza Diplomatica per la “riapertura alla firma” dello Statuto della Corte penale internazionale. Si tratta di un’iniziativa attesa da tempo dalla comunità dei giuristi che hanno a cuore l’idea della giustizia penale internazionale,  per cui è fondamentale chiamare almeno tutte le altre democrazie del mondo a riconoscere e ratificare lo Statuto della Corte, magari anche apportando altri correttivi, che ad esempio eliminino i caveat del Consiglio di Sicurezza su alcune procedure e riaffermino un ruolo più incisivo dell’Assemblea Generale, dando ancora maggiore concretezza al principio di effettività della Corte: sarebbe anche questa l’occasione per meglio  ricordarlo come lo Statuto di Roma.

 



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