Gli anziani delle diaspore: dopo decenni in Italia, ancora trattati come un “corpo estraneo”

Si parla spesso di migrazioni in termini di novità o di emergenza. Ma come vivono le persone arrivate in Italia molti anni fa e che, dopo una vita di lavoro, sono andate in pensione o sono in procinto di andarci? Lo abbiamo chiesto a Marco Gardini, Professore associato di Antropologia Culturale e Sociale dell'Università di Pavia e autore di “Anzianità e invecchiamento in Africa e nella diaspora” (Carocci, 2023).

Roberto Rosano

Chi sono gli “anziani delle diaspore”?
Si tratta di persone giunte in Italia già decine di anni fa e che sono già in pensione o in procinto di andarci. Sono riusciti nel tempo a ottenere permessi di soggiorno di lunga durata o, in alcuni casi, la cittadinanza italiana e in molti casi hanno avuto figli (e nipoti) nati sul suolo italiano. Personalmente mi sono occupato di diaspore africane e più in particolare di anziani d’origine eritrea e senegalese che sono in Italia da 30, 40 e in alcuni casi 50 anni e, anche limitando lo sguardo solo a questi due gruppi, ciò che si coglie è l’estrema variabilità delle loro condizioni sociali ed economiche. Ciò che accomuna molti di loro, tuttavia, è il legittimo rifiuto di essere ancora sussunti sotto la categoria di “migranti”.

Queste persone come vivono la loro vecchiaia? E, soprattutto, il sistema sociale che li ha spremuti finché è stato possibile, come risponde alla loro nuova condizione?
Dipende in gran parte dalle loro condizioni economiche e sociali. Per i più fortunati, la vecchiaia rappresenta il coronamento di una traiettoria migratoria e lavorativa di successo: possono vantare di essere stati per anni al vertice di una catena di rimesse verso il proprio Paese d’origine, godono di un certo grado di autorevolezza nei confronti di coloro che sono arrivati in periodi successivi, hanno potuto avere accesso a una pensione dignitosa e (quando le condizioni lo consentono) riescono a passare ogni anno un certo periodo di tempo nei loro Paesi d’origine, dove talvolta mettono in piedi nuove attività economiche. In alcuni casi si spostano altrove, seguendo e aiutando i figli magari trasferitisi a loro volta in altri Paesi.

E chi, invece, non ha avuto successo?
Diverso è il caso di coloro (la maggioranza) che, invece, non hanno avuto una traiettoria favorevole. Alcuni sono stati costretti a lavorare in nero per anni in settori poco remunerativi e, quindi, godono solo di pensioni minime, il che rende davvero difficile sopravvivere in Italia. Alcuni non hanno avuto figli e si trovano a vivere in condizioni di estrema solitudine e abbandono.

I nostri anziani (i cosiddetti nativi) e gli anziani delle diaspore hanno in comune il contesto di residenza. Ma in cosa sono diversi?
A parità di classe, credo che siano più le somiglianze che le differenze riscontrabili tra le loro condizioni di vita e quelle dei cosiddetti “nativi”. Resta il fatto che molte di queste persone sono state storicamente incluse in una posizione subordinata all’interno del mercato lavorativo italiano e, quindi, si trovano, spesso, a condividere le difficoltà dei più poveri tra gli anziani “nativi”. Il punto che forse differenzia maggiormente i membri anziani delle diaspore dai loro coetanei “nativi” è che, in molti casi, i primi continuano ad essere percepiti socialmente come un corpo estraneo.

In che senso?
Molti dei miei interlocutori lamentavano di quanto altri italiani continuassero a considerarli, implicitamente o esplicitamente, come “migranti”, magari di recente arrivo, e non con il rispetto che è solitamente attribuito alle persone più anziane o riservato agli altri cittadini e cittadine. Per molti era frustrante dover continuare a giustificare la legittimità della propria presenza e sentirsi nella condizione di “dover ricominciare da capo” ogni giorno.

Le persone intervistate in questo lavoro come immaginano il loro futuro? Cosa desiderano per sé?
Per molti, un ritorno di successo al Paese d’origine è stato un desiderio coltivato per anni. Questo desiderio si è scontrato sia con difficoltà di natura economica sia con il timore che, nei Paesi d’origine, il sistema sanitario locale potesse non essere adeguato alle loro, presenti o future, condizioni di salute. In alcuni casi, semplicemente, l’idea di tornare ha dovuto fare i conti con i nuovi doveri che diventare nonni in Italia comporta, nei termini di sostegno ai figli nella gestione dei nipoti e talvolta anche di aiuto economico. Molti desidererebbero poter passare la loro vecchiaia qualche mese in Italia e qualche mese nel Paese d’origine (dove spesso hanno costruito case nella speranza di tornare), in modo da potere valorizzare le opportunità di ambo i contesti.

Questo, però, risulta possibile solo per una ristretta minoranza privilegiata …
Per molti “invecchiare” è un lusso che non ci si può permettere perché bisogna continuare a sostentarsi o a sostentare i propri cari. Più in generale, molti tra i miei interlocutori sognavano ciò che sognano molte persone: un futuro migliore per figli e nipoti. Nel loro caso, la preoccupazione maggiore era che questi ultimi si trovassero in difficoltà a causa del colore della loro pelle in un contesto che avvertivano come sempre più razzista.

Secondo le proiezioni Istat 2007, il numero di anziani delle diaspore incrementerà sensibilmente nei prossimi anni, passando dal 13% nel 2038 al 19% nel 2051. Questo cosa significherà nel concreto?
Significherà che i governi dovranno sempre più fare i conti con una popolazione che invecchia, con tutto ciò che questo comporta in termini di welfare, di pensioni dignitose, di sistemi sanitari efficaci e accessibili a tutti.
Immagino che su queste persone abbiano impattato processi politici, disuguaglianze economiche e sociali, dinamiche storiche. Quali sono le più importanti che ha rilevato?
Da un lato le condizioni politiche, economiche e sociali dei Paesi di partenza: partire dall’Eritrea negli anni ‘70 o ’80 (all’epoca nel pieno della sua lotta di indipendenza contro l’Etiopia) non era la stessa cosa che partire dal Senegal; arrivare in Europa come studenti, in quanto rampolli delle élite economiche e politiche dei Paesi d’origine, non era la stessa cosa che arrivarci come venditori ambulanti o domestiche; arrivarci in quanto uomini è stato diverso che arrivarci come donne.

Dall’altro, le condizioni del Paese d’arrivo …
… sì, arrivare in Italia negli anni 60 o 70 o comunque prima degli anni duemila ha consentito a molte persone di trovare condizioni di lavoro nettamente migliori rispetto a coloro che sono arrivati successivamente; così come ben diverse sono state le condizioni e le possibilità per chi è arrivato in Italia prima delle varie leggi sull’immigrazione che, dagli anni ’90 in poi, hanno segnato il contesto italiano.

Sayad, filosofo e sociologo algerino, rifletteva su come, dopo una vita passata altrove, non si è più le persone che si era quando si è partiti e come il paese che si è lasciato non più il paese in cui si torna o si vorrebbe tornare. Quanti dei suoi interlocutori le hanno raccontato esperienze simili?
In molti. E questo è ulteriormente confermato dalle ricerche che su questi temi sono state prodotte negli ultimi anni e che ci dicono che il cosiddetto “ritorno” rappresenta spesso una nuova migrazione, un processo che quindi comporta nuovi riaggiustamenti, nuove sfide e varie difficoltà.

Perché ancora oggi il tema dell’invecchiamento delle diaspore è sistematicamente escluso dal dibattito pubblico? Perché si parla dei migranti solo in termini di novità o di emergenza?
Una prima ragione è che sussumere le migrazioni sotto la categoria di emergenza fa elettoralmente comodo a molti. Riconoscere la profondità storica delle diaspore (o semplicemente ascoltare di più le storie di coloro che sono migrati in Italia molti anni fa) rimetterebbe in discussione le retoriche dell’“invasione”, della “non-integrabilità dei migranti”, di una loro “radicale differenza culturale”, di una supposta “italianità minacciata da preservare”, e di tutti gli altri miti di cui una parte dell’opinione pubblica si nutre o è nutrita… In secondo luogo, credo che le loro storie ci restituiscano un’immagine dell’Italia che spesso preferiamo non vedere…

Un’Italia che fatica a fare i conti con il suo passato coloniale e postcoloniale …
Certamente, e il cui sistema produttivo ha approfittato per decenni di manodopera (italiana e non) a basso costo senza che la politica sapesse garantire un’equa redistribuzione della ricchezza, in cui narrazioni razziste e xenofobe sono state alimentate e legittimate da più fronti e in cui settori interi della società (non solo composti da migranti o ex-migranti) sono stati sistematicamente marginalizzati o criminalizzati.

CREDITI FOTO Credit Image: © Wagner Vilas/ZUMA Press Wire



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