Gorbačëv, il sogno e l’incubo

Mentre infuria la follia della guerra non potrebbe essere più evidente il fallimento del sogno di Gorbačëv di un’Europa riunita e pacificata dall’Atlantico agli Urali.

Domenico Gallo

1. La coesistenza pacifica deve diventare una norma universale dei rapporti internazionali: nell’era nucleare è indispensabile ristrutturare le relazioni internazionali, affinché il confronto sia soppiantato dalla cooperazione e le situazioni di conflitto siano risolte con mezzi politici pacifici e senza ricorrere alle armi.
2. La vita umana dev’essere considerata il valore supremo.
3. La nonviolenza dev’essere alla base della vita della comunità umana:la filosofia e la politica fondate sulla violenza e sull’intimidazione, sulla disuguaglianza e sull’oppressione, sulla discriminazione di razza, di fede religiosa o di colore della pelle sono immorali e inammissibili. (…)
9. La sicurezza internazionale globale deve prendere il posto dell’«equilibrio del terrore»: il mondo è uno e la sua sicurezza è indivisibile.

Sono questi alcuni degli articoli della Dichiarazione di Nuova Delhi, firmata da Mikhail Gorbačëv e Rajiv Gandhi a nome dell’URSS e dell’India il 27 novembre 1986.

Il 30 agosto scorso è morto Gorbačëv, i leaders occidentali e Putin hanno accompagnato la sua uscita di scena con lacrime di coccodrillo ma probabilmente anche con un sospiro di sollievo. Mentre infuria la follia della guerra, giunta ormai al 190mo giorno, non potrebbe essere più evidente il fallimento del sogno di Gorbačëv di un’Europa riunita e pacificata dall’Atlantico agli Urali nel contesto di un nuovo ordine mondiale fondato sulla cooperazione fra le nazioni anziché sull’equilibrio del terrore. Gli architetti dell’ordine mondiale hanno lavorato alacremente per sbarazzarsi di questo sogno e rovesciarlo nel suo contrario. Il sogno si è trasformato in un incubo.

La dichiarazione di Nuova Delhi, che in Occidente è stata completamente ignorata, poneva le premesse per cambiare il corso della Storia, esprimendo un pensiero nuovo orientato a delineare una prospettiva concreta di salvezza per l’umanità. A differenza del Progetto per una pace perpetua, scritto da Immanuel Kant nel 1795, la Dichiarazione di Nuova Delhi non era destinata a rimanere confinata nel campo della speculazione filosofica perché proveniva da un leader politico a capo di una superpotenza dotata di armi nucleari che incarnava uno dei principali attori sullo scenario internazionale. Essa rappresentava una sorta di manifesto del progetto politico alla cui attuazione Gorbačëv si sarebbe dedicato negli anni seguenti. Infatti tre anni dopo sarebbe caduto il muro di Berlino, l’armata rossa si sarebbe ritirata, i popoli dell’est europeo avrebbero recuperato la piena libertà di autodeterminazione; la NATO dell’est (il Patto di Varsavia) si sarebbe disciolto; sarebbe stato avviato un processo verso il disarmo inconcepibile fino a qualche tempo prima.

Negli anni di Gorbačëv l’epoca dei muri, del confronto brutale fondato sulla forza, della corsa agli armamenti, dell’equilibrio del terrore franò sotto i nostri occhi come per effetto di un terremoto della storia. Al suo posto balenò per un brevissimo periodo la speranza di una nuova epoca in cui si potesse avverare la profezia della Carta delle Nazioni Unite, di un’umanità liberata per sempre dal flagello della guerra, dove le relazioni internazionali e interne agli Stati fossero regolate dal diritto e dalla giustizia. Gorbačëv consentì la riunificazione della Germania, sanando l’ultima ferita della Seconda Guerra Mondiale. Pose solo una condizione, che la NATO non estendesse le sue armi a est dell’Elba e si fidò della parola data dalle Cancellerie di USA e GB e della stessa NATO. Sappiamo com’è andata a finire. A partire dal 1999, in concomitanza con l’aggressione alla Jugoslavia, la NATO ha cominciato a estendersi ai Paesi dell’Europa dell’est, ha stimolato un nuovo processo di riarmo, eleggendo come nuovo nemico da contrastare la Federazione Russa al posto della scomparsa Unione Sovietica.

Questa politica di costruzione del nemico ha avuto successo. Il nemico si è materializzato ed ha scatenato un conflitto armato per bloccare la penetrazione della NATO e dei suoi armamenti nell’Ucraina, dove nel frattempo la politica aveva creato una insanabile frattura fra la componente russofona della popolazione e quella ucraina. Dopo sei mesi di morte e distruzioni si è sprigionato un livello di violenza e di odio che ha qualcosa di metafisico. Al punto che il 25 agosto il Ministro degli esteri Ucraino, Kuleba, ha convocato il Nunzio apostolico per esprimere il disappunto del governo Ucraino per le parole del Papa che aveva espresso dolore per le vittime innocenti della guerra e aveva anche richiamato la tragica fine della cittadina russa Darya Dugina, vittima di un atto di terrorismo. I russi sono diventati l’immagine del male, dolersi dell’assassinio di una giovane donna è divenuto agli occhi della nomenclatura ucraina quasi un sacrilegio.

Non solo la pietà e morta, ma coloro che esprimono sentimenti di pietà per la morte dei “nemici” devono essere redarguiti, anche se si tratta del Papa. L’odio ormai è l’unico linguaggio che parla la politica e la sua espressione pratica sono le bombe. A fronte delle tenebre in cui siamo immersi, risplende la saggezza della dichiarazione di Nuova Delhi: “La costruzione di un mondo nonviolento esige una trasformazione rivoluzionaria della mentalità degli uomini, l’educazione dei popoli nello spirito della pace, il rispetto reciproco e la tolleranza. Occorre vietare la propaganda della guerra, dell’odio e della violenza e rinunciare agli stereotipi della mentalità di chi vede un nemico in altri paesi e popoli”.



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