Gorbačëv, la paura e la ragione

In ricordo di Michail Gorbačëv, scomparso il 30 agosto, ripubblichiamo un testo del grande drammaturgo Friedrich Dürrenmatt che tratteggia il titanico sforzo del leader sovietico per ridare slancio al socialismo.

Friedrich Dürrenmatt

“Gorbačëv, la paura e la ragione” da MicroMega n. 2/1991
Nel suo ultimo scritto, il grande drammaturgo tratteggia il titanico sforzo del leader sovietico per ridare slancio al socialismo. Marx fra dogmatismo e fondamentalismo. Le radici psicologiche della guerra fredda e la terribile incertezza del futuro.
Il 17 dicembre 1938 a Berlino i chimici Otto Hahn e Fritz Strassmann riuscirono a realizzare, grazie a un’apparecchiatura collocata su un tavolo di cucina, la prima fissione dell’uranio in un anello di paraffina. Fin dal 2 agosto 1939 Albert Einstein scriveva a Roosevelt per richiamare la sua attenzione sul fatto che i tedeschi avrebbero potuto produrre bombe atomiche. Sette anni e mezzo dopo la scoperta di Otto Hahn la bomba atomica cadeva su Hiroshima, quella stessa bomba che, se la Germania non fosse stata sconfitta dall’Unione Sovietica, sarebbe caduta su Berlino; infatti era stata costruita per essere usata contro Hitler.
Così iniziò una delle epoche più sinistre della storia mondiale. La produzione di bombe atomiche non poteva essere tenuta nascosta; l’Unione Sovietica disponeva di questa arma già nel 1949, sicché le due superpotenze passarono a realizzare la bomba all’idrogeno, nella quale l’innesco di una bomba atomica scatena un processo simile a quello che avviene all’interno del sole. Cominciò la corsa agli armamenti, anche perché l’Inghilterra (1957) e la Cina (1969) arrivarono a disporre anch’esse di bombe all’idrogeno, e le nuove capacita tecniche dettero a loro volta un’ulteriore accelerazione alla corsa. La bomba atomica non si sarebbe dovuta costruire comunque, anche se essa fu realizzata per paura di una bomba atomica tedesca; le armi segrete di Hitler erano i missili, con i quali venne bombardata Londra e contro cui non c’era difesa; essi furono ulteriormente perfezionati da americani e sovietici per farne razzi vettori delle bombe atomiche, cosa che alla fine condusse all’equilibrio del terrore.

Ora gli eventi storici si svolgono su due piani: da un lato ciò che chiamiamo storia, nel nostro caso la guerra fredda, il confronto tra le due superpotenze, dall’altro il piano psicologico, che riguarda coloro che da quegli eventi sono coinvolti. Così come l’esplosione di una bomba atomica deriva dalla reazione nucleare a catena di una quantità critica di isotopo dell’uranio 235, la bomba atomica ha innescato una reazione a catena di paura, quasi che essa costituisse a sua volta la quantità critica di paura. Era una paura di tipo particolare. La paura e insita da sempre nell’uomo, ma con la bomba atomica l’uomo aveva imparato ad aver paura di se stesso, era diventato la propria apocalisse. L’uomo era divenuto capace di distruggere l’umanità. Aveva imparato a usare la forza che tiene unito il nucleo dell’atomo, quella forza che si libera quando la materia si trasforma in energia.

La guerra fredda, anche se era condotta ideologicamente, può essere compresa solo da un punto di vista psicologico, in quanto le ideologie che si fronteggiavano erano solo le motivazioni razionali di un conflitto irrazionale. Le due superpotenze, proprio perché disponevano di armi atomiche, si paralizzavano a vicenda, si inducevano l’un l’altra a corazzarsi. A Ovest fu il comunismo a diventare uno spettro, a Est il capitalismo. La Nato si specchiava nel Patto di Varsavia. Nessuno osava impiegare l’arma atomica, ma ciascuno produceva sempre nuove bombe atomiche e all’idrogeno per missili a corta, a media e a lunga gittata, per aerei e sommergibili, così da dimostrare che ne avrebbe fatto uso se l’altro ne avesse fatto uso, ma poiché nessuno faceva il primo passo, mentre ciascuno dei due avrebbe potuto farlo, i due schieramenti si attrezzavano anche con armi convenzionali, giacché era sempre possibile che uno dei due si comportasse slealmente e attaccasse in forma convenzionale, muovendo dall’ipotesi che per paura di una guerra atomica nessuno l’avrebbe realmente fatta.

La reciproca paura assunse a tal punto le caratteristiche di una psicosi che i due avversari, nel tentativo di armarsi entrambi a morte, ribaltarono il risultato della seconda guerra mondiale; gli sconfitti della guerra calda, Germania e Giappone, diventarono i vincitori di quella fredda, e quando il cancelliere tedesco enunciò la profonda massima secondo la quale Karl Marx era morto e Ludwig Erhard era vivo, dimenticava che solo grazie alla guerra fredda la Repubblica Federale è diventata quel che è diventata e che già non è più, in quanto è riuscita grazie a un marxista a riunificarsi con la Repubblica Democratica Tedesca in una nuova Germania.

Quel marxista è Michail Gorbačëv, e noi dobbiamo, vogliamo rendergli giustizia, e prenderlo sul serio anche come marxista. A conti fatti, nella sua qualità di segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica, ha posto fine alla guerra fredda. E questo che mi spinge a indagare sul fenomeno Gorbačëv pur non condividendo le sue convinzioni politiche. Devo occuparmi di esse a prescindere da ciò, anzi è da esse che devo far discendere la politica di Gorbačëv. Non si può trascurare il fatto che Gorbačëv cerchi di riformare il marxismo non per abrogarlo, ma per rinnovarlo, che veda nella perestrojka, come scrive nel 1987, una necessità ineludibile risultante dai processi di sviluppo più profondi della società socialista, e che ritenga che ogni rinvio al prossimo futuro potrebbe portare a un deterioramento della situazione all’interno e provocare una seria crisi sociale, economica e politica. Per sviluppare la filosofia della pace, prosegue Gorbačëv, è stata ripensata a fondo la reciproca dipendenza tra guerra e rivoluzione. Spesso in passato una guerra è servita a scatenare una rivoluzione, cosa che ha confermato la logica marxista-leninista secondo la quale l’imperialismo condurrebbe inevitabilmente al grande confronto armato.

Quando però è intervenuto un radicale mutamento della situazione e l’unico risultato immaginabile di una guerra nucleare e diventato l’annientamento totale, la teoria del rapporto di causa ed effetto tra guerra e rivoluzione è entrata in crisi. Per questo motivo – prosegue Gorbačëv – nel diciassettesimo congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica gli argomenti rivoluzione e guerra sono stati «separati» e dalla nuova stesura del programma del partito sono state cancellate le due frasi seguenti: «Se gli aggressori imperialisti osano incominciare comunque una nuova guerra mondiale, i popoli non tollereranno a lungo un sistema che li trascina in guerre distruttive. Spazzeranno via l’imperialismo e lo seppelliranno». Sicché la competizione economica, politica e ideologica tra i paesi capitalisti e quelli socialisti è inevitabile. Ma essa deve essere tenuta nell’ambito di quella competizione pacifica che mira necessariamente alla cooperazione. È compito della storia – afferma Gorbačëv – pronunciare la sua sentenza sui meriti dei rispettivi sistemi. Essa farà la sua scelta. Ogni nazione deve decidere autonomamente quale sistema e quale ideologia siano migliori. La perestrojka rappresenta uno stimolo alla competizione. Se si comprende I’unità dialettica degli opposti, essa si salda al concetto di coesistenza pacifica.

Quando Otto Hahn ottenne la scissione del primo atomo di uranio, non sapeva che avrebbe reso possibile la bomba atomica. Pensava ancora l’atomo come un sistema planetario con elettroni che ruotano su traiettorie definite attorno a un nucleo composto da protoni e neutroni; oggi questo modello di atomo è superato. Ci immaginiamo l’atomo come una sorta di nebbia le cui singole particelle sono indistinte, ora ci sono, ora non ci sono, e gli stessi protoni e neutroni del nucleo sono composti da particelle ancora più piccole. Anche Gorbačëv difficilmente poteva immaginare cosa avrebbe scatenato cancellando quelle due frasi dal programma del Partito comunista dell’Unione Sovietica. Per lui si fronteggiavano due superpotenze che si costringevano reciprocamente ad armarsi a morte, soprattutto da quando gli Stati Uniti si erano decisi a erigere, spendendo centinaia di miliardi, uno scudo che avrebbe garantito il loro territorio contro gli attacchi atomici e avrebbe costretto l’Unione Sovietica, per ristabilire l’equilibrio del terrore, a realizzare nuove armi. Bisognava fermare l’assurdità della corsa agli armamenti ed evitare con ogni mezzo la possibilità di una terza guerra mondiale, che poteva significare la fine dell’umanità.

Oggi sappiamo che la corsa agli armamenti atomici aveva indebolito economicamente le due superpotenze. Ma nella teoria marxista non era prevista una fine improvvisa della storia mondiale a causa di una catastrofe atomica: si era di fronte a un fenomeno che con la teoria non quadrava. Se l’animale potesse definirsi, direbbe «sentio, ergo sum» sento, quindi sono, mentre l’essere umano è definito dal «cogito, ergo sum», penso, quindi sono. L’uomo è un animale pensante. L’animale è tutto sensazione, tutto istinto, e gli animali superiori quando devono morire sentono sicuramente che qualcosa di minaccioso si approssima, anche se non sanno interpretare quel che si approssima: invece l’essere umano è l’animale che sa che deve morire. Se l’animale e tutt’uno con l’Essere, per l’essere umano, grazie alla coscienza della propria mortalità, l’Essere non è più ovvio, esso può essergli tolto in ogni momento e prima o poi gli verrà tolto. L’essere umano, in quanto animale, e il risultato di un’evoluzione lunga all’incirca un miliardo di anni, e anche i suoi sentimenti, la sua paura, la sua aggressività e la sua sessualità hanno radici nel nostro passato preumano. Solo negli ultimi due, forse tre milioni di anni ci siamo lentamente evoluti in esseri umani, e di questo processo non sappiamo quasi nulla, ma allorché l’essere umano divenne tale, allorché arrivò al pensiero e così scoprì la morte, la propria mortalità, la sua paura raddoppiò, e accanto alla paura della bestia rapace, quella che anche l’animale prova quando gli vien data la caccia, nell’essere umano subentrò anche la paura della morte.

Da questa doppia paura sorse la razionalità tecnica. Anch’essa è un risultato dell’evoluzione. Nella bestia è presente come istinto tecnico. I termitai, le ragnatele, i nidi degli uccelli, le dighe dei castori. La razionalità tecnica aiutò la bestia a sopravvivere nell’essere umano, trasformandolo in un portatore di protesi: la pietra, l’asta che scagliava, la freccia che tirava, sono il prolungamento del suo braccio; grazie alle sue armi l’uomo divenne la più temibile delle fiere. Se la razionalità tecnica gli è servita a salvare la sua eredita emozionale trasferendola dall’Essere illimitato della bestia all’Essere limitato dalla morte, che è proprio dell’uomo, essa gli servì anche a insediarsi nell’umanità, a organizzarsi: dall’orda si sviluppò la tribù, dalla tribù il popolo, dalle lotte tribali le guerre dei popoli, e l’uomo comprese che la protesi migliore è lui stesso. L’antichità è impensabile senza la schiavitù, le guerre erano necessarie per catturare gli schiavi. Ma la razionalità tecnica all’inizio si sviluppò lentamente. Tranne l’invenzione della polvere da sparo e della stampa, fino all’epoca di Napoleone la tecnica rimase grosso modo quella dell’antichità: carrozze, velieri, artigiani e così via. Ma già nel diciottesimo secolo inizia a poco a poco la rivoluzione industriale, a partire dalle manifatture e via via fino alle fabbriche. Se all’inizio la razionalità tecnica lavorava empiricamente, in seguito si orientò sempre di più verso la scienza naturale.

II marxismo è nato in una fase della rivoluzione industriale in cui non era ancora prevedibile dove essa avrebbe portato; la visione scientifica del mondo era meccanicistica, tutto procedeva in modo rigidamente causale. Marx si sentiva uno scienziato, e dato che la rivoluzione industriale consisteva nel convertire in macchine le conoscenze della fisica meccanicistica sostituendo così I’operaio all’artigiano, voleva non solo interpretare il mondo, ma anche trasformarlo, voleva essere contemporaneamente scienziato e tecnico. Egli vedeva, corrispondentemente alla immagine del mondo propria delle scienze naturali, l’evoluzione della società umana come causale e prevedibile, essendo le leggi della natura sempre valide. Essa si realizzava per lotte di classi, dalle quali alla fine sarebbe uscita vincitrice la classe operaia, il proletariato, che avrebbe portato alla società senza classi. Marx però non riuscì a prevedere l’ulteriore sviluppo della rivoluzione industriale. La considerava conclusa, ma essa prosegui nella rivoluzione della fisica, cosa che le permise la produzione della bomba atomica, e così ora la rivoluzione industriale, invece di liberarlo come Marx aveva predetto, rischia di distruggere insieme all’umanità anche il proletariato.

Nella Filosofia del Come Se, pubblicata nel 1911, Vaihinger approfondisce la questione del perché noi otteniamo le cose giuste con idee consapevolmente sbagliate, e contemporaneamente indaga anche sulla concezione economico-politica di Adam Smith, il primo teorico del capitalismo, che consiste nel simulare che tutti i fatti economici della società siano da considerare come dettati solo ed esclusivamente dall’egoismo. Nel far questo prescinde da ogni altro fattore: benevolenza, moralità, giustizia, equità, compassione, abitudine, usi e costumi eccetera. Egli pone questo principio di simulazione come un assioma al vertice del sistema e ne ricava deduttivamente, con sistematica necessità, tutte le leggi del mercato e del commercio e tutte le fluttuazioni di questo complicate settore. Vaihinger chiama metodo astraente questo intenzionale trascurare elementi della realtà a scopo di semplificazione scientifica. Così alla radice dell’egoismo, dal quale Vaihinger fa derivare il capitalismo, si trova la spinta alla libertà, la sensazione di poter essere perfettamente se stessi, ma poiché l’essere umano non esiste in quanto singolo, bensì assieme ad altri esseri umani, dai quali ciascuno vuole essere libero, ogni convivenza si fonda — persino quando dalla società si astrae il rapporto più semplice possibile, il rapporto tra servo e padrone — sulla limitazione della libertà del singolo ad opera dell’altrui libertà. Questa limitazione noi la chiamiamo giustizia. Essa è un rapporto dialettico, come tutto ciò che avviene tra esseri umani. II padrone e il servo possono avere sia la sensazione di agire giustamente e di essere trattati con giustizia, sia di agire ingiustamente e di essere trattati in modo ingiusto, sicché il rapporto padrone-servo in un certo qual modo si inverte. Se la libertà è un sentimento del singolo e la giustizia è un sentimento interumano, perciò anche esistenziale, la politica opera secondo due simulazioni che chiama senza distinzione libertà e giustizia. Per essa il rapporto servo-padrone è sempre ingiusto, il padrone possiede il capitale, il servo percepisce il salario, il padrone è sempre libero e il servo non lo è mai. A questo la politica da due risposte: una realistica e una di simulazione. Quella realistica consiste nel rendere più giusto il rapporto servo-padrone, il servo più libero e il padrone meno libero, ma senza riuscire mai ad abolire il rapporto padrone-servo, perché, se procedo come Adam Smith e astraggo dall’intreccio del potere, che e estremamente complesso, il rapporto servo-padrone, esso risulta fondato nella natura umana. Dal punto di vista politico, la libertà è perennemente in lotta con la giustizia, il capitalismo col socialismo, e il mondo può diventare solo più sociale, mai socialista, o solo più capitalista, pero mai capitalista.

L’altra risposta, quella di simulazione, consiste nell’analizzare anzitutto il rapporto padrone-servo in termini diversi. Ci sono tanti padroni e tanti servi. I padroni sono chiamati classe borghese, proprietaria dei mezzi di produzione, i servi formano invece la classe proletaria. Dal rapporto servo-padrone sarebbe nato il rapporto proletariato-borghesia. II proletariato servirebbe la borghesia in modo diverso da come il servo serve il padrone, giacché con i mezzi di produzione esso produce per la borghesia prodotti che questa vende a un prezzo maggiore di quello pagato al proletariato in cambio di essi. Se il rapporto servo-padrone era diretto, il rapporto proletariato-borghesia è invece indiretto, e il singolo proletario non ha affatto bisogno di conoscere il borghese che lo sfrutta: tra il proletariato e la borghesia ci sono infatti i mezzi necessari alla produzione. Questi mezzi sono costituiti dal capitale, il quale cresce con la vendita dei prodotti realizzati dal lavoro del proletariato. Una volta che la classe proletaria si è impossessata del capitale attraverso la lotta di classe, la classe borghese viene eliminata e con la dittatura del proletariato si instaura la società senza classi, in quanto la classe e una sola.

La risposta di simulazione è la risposta marxista. C’è da chiedersi dunque se anche il marxismo non sia una simulazione, formulata per scopi di semplificazione scientifica. L’affermazione del Manifesto del Partito Comunista secondo cui la storia di tutte le società sinora è stata la storia di lotte di classi è certo una simulazione ricavata per astrazione: trascura molti fattori che agiscono nella storia, soprattutto quelli emozionali come l’invidia, l’umiliazione, il razzismo, il patriottismo, ma anche il comportamento aggressivo delle religioni. La questione è solo capire fino a che punto si tratta di una simulazione scientifica ricavata per astrazione. La forza della simulazione di Adam Smith consiste nel fatto che essa è sì unilaterale, ma fa sicuramente i conti con una delle maggiori forze motrici dell’economia, che è profondamente ancorata nella natura umana, l’egoismo, mentre il Manifesto comunista costruisce una simulazione che si richiama a un concetto generale. Una classe presuppone uomini che hanno tutti le stesse intenzioni: la borghesia sfrutta il proletariato per accrescere il suo capitale, il proletariato cerca di strappare il capitale alla borghesia per non essere più sfruttato, ma poiché ci sono borghesi che non sfruttano proletari, e proletari che non strappano il capitale al borghese, anzi vogliono conquistarsi il maggior utile possibile, le due classi sono concetti generali, che quando si cerca di definire si mutano in simulazioni.

Visto che pero né un concetto generale né una simulazione possono agire e lottare, è necessario un partito che agisca e lotti in nome della propria simulazione: se vince, il capitale spetta a lui e non al proletariato nel cui nome esso agisce, e il partito assume il posto della borghesia dissolta, sicché il partito si contrappone al proletariato e si riproduce il vecchio rapporto servo-padrone, naturalmente con la differenza che ora il padrone fa in nome del servo tutto ciò che gli salta in mente, e il servo, poiché il padrone-partito agisce in suo nome, non ha più niente da dire. Ma appena il rapporto servo-padrone rientra in gioco, anche l’astrazione dell’egoismo operata da Adam Smith comincia ad agire. Se lo applichiamo al partito inteso come padrone, l’egoismo emerge come lotta di potere all’interno del partito. Quando questo deve pianificare e sorvegliare la produzione del proletariato, tali funzioni hanno luogo all’interno della lotta di potere che in esso infuria. II partito si fraziona in pianificatori e sorveglianti. I pianificatori devono pianificare la produzione e i sorveglianti devono sorvegliare sia i proletari, perché eseguano i piani secondo le direttive dei pianificatori, sia i pianificatori, perché pianifichino in modo conforme al partito, cosa che costringe dal canto loro i pianificatori a sorvegliare i sorveglianti per scoprire se sorvegliano nell’interesse del partito o nel proprio interesse: un sistema composto interamente di sorveglianti e pianificatori, fino al supremo sorvegliante e pianificatore che, in qualità di unico padrone, sta alla sommità di una piramide di servi, mentre ciascun servo sente come servi i servi che si trovano sotto di lui, e se stesso come padrone.

Se prima nelle piramidi del potere si erano verificate lotte sanguinose, che avevano per oggetto l’interpretazione della dottrina che aveva condotto al potere, con gli anni la piramide divenne sempre più solida, i rimpasti risultarono sempre più legittimi: chi voleva salire in alto poteva appoggiarsi sull’incondizionata fedeltà nei confronti del suo padrone per prenderne il posto quando questi a sua volta fosse salito al posto del suo e così via, sempre più in alto. Quanto più uno si avvicinava al vertice della piramide tanto più grandi diventavano i privilegi, tanto più grande era la sicurezza con cui riusciva a sentirsi padrone dei servi che da lui dipendevano, ciascuno dei quali era a sua volta padrone di un servo, che a sua volta era padrone di un servo, catene sulla strada dell’ascesa; ma il padrone di cui era il servo, e il padrone di quello e ancora il padrone di quell’altro, fin su al padrone supremo, erano tutti costretti, per non mettere in pericolo il proprio dominio, a mantenere la struttura gerarchica del potere la più stabile possibile e a far dissolvere nel nulla, in modo naturale, la gerontocrazia al vertice, facendone subentrare una nuova al suo posto, Brežnev, Andropov, Černenko, cosa che era possibile solo se il proletariato, nel cui nome il partito governava, se ne stava tranquillo. E se ne stava tranquillo. Poiché tutto ciò che produceva gli apparteneva, quel tutto non apparteneva a nessuno. La lotta di classe era diventata il paese dei sogni. Ciò per cui il proletario avrebbe ancora lottato, erano salari migliori e il diritto a una maggiore libertà, ma con la dittatura del proletariato gli furono tolti diritto e lotta, si rassegnò e con lui stagnò il proletariato, inibito, governato dal partito e sorvegliato con sempre maggiore indifferenza.

Poi venne Michail Gorbačëv, un incidente sul lavoro del politbjuro. Dapprima si meravigliò. A un certo momento, ha scritto — la cosa si era fatta particolarmente chiara nella seconda metà degli anni Settanta — era avvenuto qualcosa che all’inizio sembrava inspiegabile: «La forza propulsiva, lo slancio nel paese diventavano sempre più scarsi. Gli insuccessi economici aumentavano. Le difficolta si accumulavano e si aggravavano, cresceva il numero dei problemi irrisolti. Nella vita sociale affioravano i segni di ciò che chiamiamo stagnazione, e altri fenomeni estranei alla natura del socialismo. Una sorta di “meccanismo frenante” paralizzava lo sviluppo sociale ed economico, e questo in un’epoca in cui la rivoluzione tecnico-scientifica spalancava nuove prospettive al progresso economico e sociale. Accadeva qualcosa di singolare; il gigantesco volano di una macchina poderosa girava, ma le cinghie di trasmissione verso i luoghi di lavoro slittavano oppure giravano a vuoto». Certo, proseguiva Gorbačëv, le organizzazioni di partito avevano compiùto il loro lavoro, come anche la gran parte dei comunisti il loro dovere, coscienziosamente e con altruismo. E tuttavia bisognava rendersi conto che non erano stati fatti tentativi efficaci per mettere un freno alle attività di scaltri arrivisti ed egoisti. Di regola le misure pratiche del partito e degli organi statali erano state al di sotto di ciò che il tempo e la vita concreta imponevano. I problemi erano aumentati più velocemente delle soluzioni che potevano avere. II partito aveva pensato di avere la situazione sotto controllo, mentre in realtà si era prodotta una situazione da cui Lenin aveva già messo in guardia: l’auto non conduceva lì dove l’uomo al volante pensava di condurla. L’auto portava nell’abisso. Dipendeva dall’automobile o dal conducente, dal sistema o dall’essere umano?

Gorbačëv vedeva l’errore nell’essere umano. Ci voleva un nuovo pensiero politico. Le potenzialità del socialismo erano state sfruttate troppo poco. II partito disponeva di una base materiale sana, di ricca esperienza e di una chiara visione del mondo, ma la sua forza era paralizzata. Doveva tornare a richiamarsi a Lenin, e Gorbačëv si vedeva come successore di Lenin. Studiò i suoi ultimi scritti. L’epoca di Lenin, ha scritto Gorbačëv, è particolarmente istruttiva perché dà una dimostrazione della forza della dialettica marxista-leninista, i cui esiti muovono sempre dall’analisi del presente in quanto storia.

La politica di Lenin consisteva in misure tattiche volte a realizzare la rivoluzione comunista in Russia, e la perestrojka perciò era una misura tattica che seguitava a realizzare la rivoluzione comunista in Unione Sovietica; ma Gorbačëv trascura che il comunismo e più di un’economia. II marxismo, nato dall’analisi della rivoluzione industriale, la sopravvalutava e la sottovalutava. La sottovalutava, perché dovendo ricorrere alla produzione in massa di merci essa aveva bisogno del proletario non solo come lavoratore, ma anche come consumatore. Costui entrava a far parte del ceto dei suoi clienti. La società dei consumi livellava i contrasti sociali. La sopravvalutava, perché i limiti della rivoluzione industriale sono quelli della razionalità tecnica. Questa non era riuscita a vincere la paura della morte. L’essere umano aveva dovuto renderla produttiva.

Inventò la metafisica, la magia, la religione, l’arte. Creò la cultura. L’immaginazione metafisica e la razionalità tecnica si completarono a vicenda, crearono immagini divine, costruirono piramidi, templi e cattedrali, e troppo spesso la metafisica fece un uso indebito della razionalità tecnica, perché la fantasia metafisica si irrigidì in dogmi, si congelò nella verità, le religioni divennero aggressive.

Soprattutto il cristianesimo. Nel nome del quale l’Oriente venne saccheggiato con le crociate, e l’America conquistata dai conquistadores. II bottino mondano e il paradiso celeste erano assicurati. II fondamentalismo attraversa la storia. Nell’islam è latente, in Iran ha preso il potere, Israele non ne è esente, in India continuano a scoppiare disordini sanguinosi ed esso comincia a manifestarsi nella guerra del Golfo: è innescato addirittura dalla rivoluzione industriale, che è ancora in corso, così come un tempo fu essa a innescare il marxismo. Anch’esso è un fondamentalismo. Quando Kant scrisse la frase, spesso fraintesa, con la quale diceva che aveva dovuto sospendere la conoscenza per far posto alla fede, con conoscenza intendeva la presunta conoscenza che la metafisica ha di Dio, immortalità, libertà e giustizia, cose che non possono mai essere oggetto di una eventuale esperienza. La ragion pura rende possibili la matematica e le scienze esatte, ma intanto Kant certamente sottovalutava la carica immaginativa della matematica. II sapere si fonda sull’esperimento, la fede sulle pretese della ragione: la ragion pratica tratteggia ciò che noi dovremmo ragionevolmente credere. La libertà è in sé un concetto metafisico, noi non siamo in grado di darne dimostrazione, i nostri desideri sono determinati geneticamente, desideriamo ciò che dobbiamo desiderare, la libertà come postulata della ragion pratica è un sentimento che ci determina: ci sentiamo non-liberi quando il desiderio che siamo costretti a desiderare non si realizza.

Se dunque la libertà è soggettiva, per la ragion pura non dimostrabile, allora la sua unica norma è se il sentimento, il desiderio di agire liberamente, sia ragionevole. Alio stesso modo la giustizia è un concetto metafisico, un’idea direbbe Platone. La natura non conosce giustizia, anzitutto la cerchiamo invano nell’evoluzione, i suoi principi selettivi sono crudeli. Solo grazie alla ragion pratica la giustizia diventa un’esigenza: agisci così che la massima della tua volontà possa valere contemporaneamente come principio di una legislazione generale: agisci nel senso dell’imperativo categorico.

Kant è un eminente pensatore politico. La ragion pratica non muove dal generale, ma dall’agire individuale, dal quale egli esige uno scopo generale: essere il principio di una legislazione generale, una legislazione che parimenti corrisponde alla ragion pratica. Ma poiché anche Dio e l’immortalità vengono postulati dalla ragion pratica, Kant annulla il fondamentalismo. La religione della ragione sostituisce il «credo quia absurdum» con il «credo quia utile», credo perché e utile, un’esigenza che oggi seguita a ispirare solo i cristiani militanti. Con la sua Critica della ragion pratica Kant usa la metafisica, che aveva distrutto, come necessità pratica, come simulazione necessaria, e insieme come prodotto dell’immaginazione morale.

Kant era un realista. Riteneva, a dispetto di Goethe, l’essere umano «radicalmente cattivo». Una convivenza ragionevole per lui era raggiungibile solo sulla base di simulazioni metafisiche: l’uomo deve farsi coinvolgere in ciò che attiene alla morale come Münchausen quando si attacca al proprio codino. Non è dato sapere se Kant davvero credesse alla necessità di questa simulazione morale: lui stesso si vedeva come un critico della ragion pratica. La convinzione che l’uomo debba credere a simulazioni non significa che chi ha tale convinzione debba a sua volta credere a tali simulazioni. Hegel invece poneva la logica come processo metafisico nel quale Dio stesso si pensa, si aliena come natura e si ritrova nell’essere umano. Dio come automovimento dialettico dello spirito. Marx traspose questa dialettica metafisica nell’aldiqua, nella lotta di classe, che sfocia nella società senza classi.

Ma Marx restò inconsapevolmente un metafisico. Non era un rivoluzionario, Lenin lo era, Marx era il fondatore di una religione. Gli antenati dei suoi genitori erano rabbini, che a loro volta avevano dei rabbini per antenati e così via per secoli. Arnold Künzli conclude il suo libro Karl Marx, una psicografia con le parole: «Alcune convinzioni di Marx possono conservare il loro valore. II problema dell’alienazione dell’uomo nel processo economico moderno è da tempo non risolto, e bisognerà fare i conti ancora per molto con ciò che Marx ha detto in proposito. Ma che al proletariato — come c’è stato o ancora c’è nel senso inteso da Marx — spetti il ruolo storico che nella storia biblica della salvazione è dato al popolo di Israele — questa fede, su cui poggia l’intera opera di Marx a mo’ di fondamento salvifico, si è oggi dimostrata un mito. (…) II destino personale e l’opera di Karl Marx in ultima analisi sono comprensibili solo come una manifestazione fuori del comune, tragica nelle vicende personali, geniale nell’opera, e un adattamento demonizzato dall’odio per se stesso dell’antico destino ebraico e del messaggio biblico.

Per gli ebrei il Messia non è mai stato il figlio di Dio, ma un essere umano, un ebreo, che viene a salvare il popolo eletto, gli ebrei. Karl Marx era un ebreo che venne a salvare il popolo eletto, il proletariato. Dall’asservimento alla borghesia verso la società senza classi. Certo, Marx si vedeva come uno scienziato, ma qualunque dogmatismo scientifico è un fondamentalismo non scientifico. In ultima istanza una religione. Deve essere oggetto di fede. Una speranza per i poveri e gli sfruttati, una speranza per gli intellettuali che accarezzano l’utopia che il mondo possa essere come una tavola da disegno, pulito, ordinato, senza potere di uomini su altri uomini, un sogno intellettuale, un mondo per esteti.

Da quel momento in poi il tattico è stato obbligato ad accettare via via le mosse sulla scacchiera del potere. Solo alla prima mossa è stato libero. Ha cominciato col porre fine alla corsa agli armamenti atomici. Non era solo una cosa necessaria, lo sarebbe stata già da tempo, ma richiedeva anche un coraggio eccezionale, perché ci vuole coraggio a superare la paura reciproca, ad accettare il sentimento della vittoria che si diffonde presso il nemico, quando questi cede troppo facilmente alla certezza di aver vinto la corsa agli armamenti. Certo, la politica dell’Unione Sovietica nei confronti degli Stati europei confinanti era stata brutale; per paura del capitalismo fu imposto loro un regime comunista e le rivolte furono soffocate, ma la paura del comunismo nel mondo occidentale era ugualmente grande. Essa spinse gli Stati Uniti nelle guerre di Corea e del Vietnam, e li portò ad appoggiare dittature discutibili.

Per porre fine alla corsa agli armamenti, Gorbačëv agì non agendo. Non deviò dal suo piano e lasciò che gli Stati stessi del Patto di Varsavia decidessero quale sistema e quale ideologia scegliere. A questo modo pose fine alla guerra fredda e liberò il mondo occidentale dalla paura di una catastrofe atomica. L’Europa tirò un sospiro di sollievo. I regimi comunisti crollarono. Gorbačëv portò avanti fermamente la sua perestrojka. Tolse al partito comunista ogni titolo.

Adesso quel partito è simile a una piramide che oscilla senza controllo e crolla su se stessa. Cerca anche di introdurre la libera economia di mercato. La perestrojka supera l’ideologia marxista-leninista con logica marxista-leninista. Questa era un’ipotesi di lavoro. Ha fatto il suo tempo e può essere lasciata cadere. Michail Gorbačëv l’ha lasciata cadere. Facendo ciò ha cambiato il mondo odierno come nessun altro statista. La Germania più di tutti ha tratto profitto dalla sua politica, è diventata la maggiore potenza europea, e non da ultimo perché già in precedenza traeva vantaggio dalla struttura economica del mondo.

Ciò sembra preoccupante. Gorbačëv ha tirato via il velo che copriva il cosiddetto socialismo reale. Ma alle urla di «Gorbi, Gorbi» si mescolano grida di vittoria. Si è svolta la competizione elettorale, i partiti tedeschi di governo sono stati preda dell’ebbrezza della vittoria, la libera economia di mercato è stata santificata, la parola socialismo demonizzata, e il cancelliere tedesco ora pronostica che mai futuro sarà più felice per i bambini. Io non ne sono tanto sicuro.

Da quando Otto Hahn provocò la fissione del primo atomo in un anello di paraffina, liberando un’energia di cui sottovalutava la portata, l’immagine del mondo e cambiata. Essa assomiglia in modo sbalorditivo alla situazione politica in cui si trova l’umanità. Viviamo in un universo in espansione, che supponiamo sia nato da una violenta esplosione, vuoto e tuttavia riempito da cento miliardi di galassie a volte durature, da soli che esplodono e, nel ricadere, sono assorbiti da buchi neri, mentre nascono sempre nuovi soli nelle nebbie gassose; viviamo in un universo delle catastrofi del cui futuro non sappiamo nulla, che può espandersi all’infinito o andare nuovamente in pezzi, dove anche sistemi stabili come il nostro sistema solare possono diventare caotici, stando ai calcoli dei computer.

Ma anche l’umanità si situa in un simile scenario. Come l’universo, ha cominciato la sua storia più recente con l’esplosione di una bomba atomica che ha portato alla corsa agli armamenti e ha diffuso la grande paura; come l’universo, anche l’umanità si espande, e in un tempo non troppo lontano conterà dieci miliardi di persone. Noi ci costruiamo un mondo preda di una catastrofe tecnica ed ecologica. La galassia della povertà minaccia di penetrare in quella nostra del benessere, la libera economia di mercato provoca crisi — le congiunture favorevoli non durano in eterno — essa assorbe come un buco nero le risorse del Terzo Mondo.

Antiche nazioni tornano a chiedere nuovi Stati indipendenti, altre rischiano di scomparire. Mai la fame, la miseria e l’oppressione sono state così grandi e già nel Golfo c’è la minaccia di una guerra nella quale si morirà non per un ideale, ma per il petrolio. Sappiamo del nostro futuro tanto poco quanto poco sappiamo del futuro dell’universo nel quale viviamo. Possiamo perderci nel caos o precipitare in un’ideologia infernale. Le armi atomiche sono state inventate. Non possono essere revocate. Ciò di cui abbiamo bisogno è la ragione senza paura di Michail Gorbačëv.

Non sappiamo ciò che essa produrrà. Egli si trova di fronte alla crisi economica e politica che aveva voluto evitare con la perestrojka. Anche un ordine apparente, quando viene distrutto, produce un disordine. Ma una ragione senza paura e l’unica cosa di cui disponiamo per trovare scampo in futuro, per tirarci fuori dalla rovina attaccandoci al nostro codino, come sperava Kant.

(traduzione di Anita Raja)

Credit immagine: Ronald Reagan e Mikhail Gorbachev firmano l’Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty, 1987. Commons Wikimedia.



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