Governo, giorno 10

Nonostante le prese di distanza di Giorgia Meloni dal passato rimane fortissima la cifra identitaria di un partito di destra che rivendica conservatorismo e attaccamento alle tradizioni.

Teresa Simeone

A poco più di una settimana dall’insediamento del Governo Meloni già si incomincia a dubitare che il discorso, solido, strutturato, intessuto di concessioni e prese di distanza da un passato che comunque sta lì, alle origini di un percorso, possa tradursi in prassi. D’altronde, al di là delle parole persuasive e dell’effetto wow di quell’underdog poco sovranista, molto inglese e indubitabilmente efficace dal punto di vista comunicativo, rimane fortissima, sottotraccia, ma nemmeno tanto, la cifra identitaria di un partito di destra che rivendica conservatorismo e attaccamento alle tradizioni. Questo è piaciuto agli italiani che l’hanno votata, questo darà Giorgia Meloni agli italiani.

Intanto è di qualche giorno fa la nota della Presidenza del Consiglio in cui si comunicava che andava chiamata “Il signor Presidente del Consiglio”, poi modificata con l’eliminazione del “signor”. Si è ridotto, ma resta comunque l’assurdo logico e linguistico nel dover utilizzare l’espressione verbale conseguente “è intervenuto”, “è andato” con riferimento a una donna. Nel frattempo si continua a sottolineare con sarcasmo la superficialità della questione: in verità, ogni volta che si prova a discutere di sessismo linguistico (Alma Sabatini docet. E da tempo, almeno dal 1987…) si viene sistematicamente ridicolizzati. È il vecchio artificio retorico di svilire l’importanza di ciò di cui si discute spostando l’attenzione verso qualcos’altro, il benaltrismo con cui si vorrebbe imporre il silenzio: che vuoi che sia un articolo maschile o femminile di fronte a problemi importanti? Ancora vi attaccate a queste sottigliezze? C’è ben altro. Allora discutiamo di diritti delle minoranze. State scherzando? C’è ben altro. Sì, ma gli omosessuali? C’è ben altro! In realtà, il nesso tra linguaggio, con cui rappresentiamo e trasmettiamo un pensiero, e il pensiero, con cui acquistiamo coscienza di noi stessi e della realtà esterna, è strettissimo laddove, dimostra la psicologia, il linguaggio è in relazione dinamica con il pensiero. Ora se è vero questo, quando parliamo è come se “pensassimo a parole” e dunque nell’uso dei termini raccontiamo come vediamo il mondo. Se si usa per sé l’articolo “il” invece di “la” si vuol rimarcare che la propria autorevolezza, anche se donna e donna capace, dipende solo dal ruolo, non dalla propria intelligenza nell’interpretarlo. Perché ricorrere al maschile universale? Perché il maschile definisce tradizionalmente quel ruolo; nel contempo, però, lo immobilizza nel passato, mentre la società è andata avanti e con essa la lingua che è organismo vivo. Come se non bastasse, c’è un’aristocrazia linguistica che ne tradisce una sociale: ci sono mestieri che possono andare al femminile e che riguardano fasce sociali meno elevate; l’ingegnera, la notaia, la giudice, invece, pretendono rigorosamente il maschile. Purtroppo questo è trasversale: a chi non è mai capitato di ascoltare professioniste, di destra e di sinistra, rivendicare, con orgoglio tutto virile, il maschile universale? Prego, mi chiami avvocato. Prego, sono il direttore!

Comunque, è ovvio che in questi primi giorni di penuria di provvedimenti ci si soffermi su “quisquilie” come i nomi dei Ministeri, l’articolo davanti alla carica, la promessa di Ignazio La Russa che nel discorso di ringraziamento a Presidente del Senato, preso dall’emozione, ha dichiarato: “La senatrice Segre ha ricordato tre date e io non voglio fuggire, perché è troppo facile scappare di fronte alle richieste di chiarezza: è stato ricordato il 25 aprile, il 1° maggio, il 2 giugno, cui potrei aggiungere la data di nascita del Regno d’Italia, che prima o poi dovremo far assurgere tra quelle celebrate con festa nazionale. Queste date, tutte insieme, hanno bisogno di essere celebrate da tutti, perché solo un’Italia più coesa, pacificata e unita è certamente la migliore e la più importante precondizione per poter affrontare efficacemente ogni emergenza e ogni criticità”. Peccato che solo due giorni fa, a Paolo Colonnello della Stampa che gli chiedeva se avrebbe celebrato il 25 aprile, ha risposto: “Dipende. Certo non sfilerò nei cortei per come si svolgono oggi. Perché lì non si celebra una festa della libertà e della democrazia ma qualcosa di completamente diverso, appannaggio di una certa sinistra”. Quindi è una festa nazionale – nazionale, ricordiamolo ai nazionalisti – che non va festeggiata sempre, ma a seconda delle circostanze.

Anche in questo caso, di fronte alle inevitabili critiche, La Russa ha rettificato, sostenendo che il titolo del pezzo era fuorviante. Intanto, quel “dipende”, per un governo che sostiene di voler unire il Paese, rischia di apparire divisivo.

Rapida è stata poi la ripresa del tema migranti caro a Salvini, insieme a quel tetto dei contanti a 10.000 euro, anche questo da rivedere per le critiche sollevate. Non si capisce, infatti, in virtù di quale meccanismo liberale tale provvedimento potrebbe aiutare l’economia e, in particolare, quelle fasce deboli che tanto spazio hanno avuto in tutta la campagna elettorale della destra. È difficile credere che siano davvero le persone in difficoltà a trarre benefici concreti dal poter circolare con migliaia di euro in tasca.

Tralasciamo l’attacco della proposta di Gasparri sul riconoscimento giuridico del concepito, di cui si è già trattato e veniamo alle modifiche sul covid: benché al momento l’emergenza sia attenuata, nulla ci autorizza a pronosticare, come ha ammonito Sergio Mattarella, la fine della situazione pandemica. “Non replicheremo il modello del precedente Governo”, ha dichiarato Meloni. “L’Italia ha adottato le misure più restrittive dell’intero Occidente, arrivando a limitare fortemente le libertà fondamentali di persone e attività economiche, ma, nonostante questo, è tra gli Stati che hanno registrato i peggiori dati in termini di mortalità e contagi.” E ancora: “In passato sono stati presi una infinità di provvedimenti che non avevano alla base evidenze scientifiche”. Un fendente inferto alla gestione Conte e Draghi della pandemia, altro che pacificazione! che non tiene conto di quello che è successo in questi due anni e mezzo e dei quasi 180.000 morti. Quelle leggi ritenute liberticide hanno salvato centinaia di migliaia di persone: non sappiamo cosa sarebbe successo, invece, se al governo ci fosse stata la destra, considerando le posizioni sull’obbligo vaccinale e sulle misure di contenimento del contagio.

Forte è la stretta in tema di sicurezza: dopo le manganellate agli studenti della Sapienza che manifestavano contro un convegno di Azione universitaria, il pugno di ferro cade sui giovani dei rave party. Richieste di regole su questi raduni da parte della società civile ci sono state, è vero, allo stesso modo, però, di quelle per i raduni fascisti, sul tipo della marcia commemorativa svolta a Predappio il 30 ottobre, in ricordo del centenario della Marcia su Roma verso la quale, invece, lo Stato antifascista, nato dalla lotta di Liberazione, non ha mosso un dito né pronunciato verbo. Ci si sarebbe aspettata una condanna decisa dell’evento, come atto concreto del nuovo governo, e non una generica presa di distanza. All’apprensione legittima espressa per la salute dei ragazzi dei rave si sarebbe dovuta aggiungere quella per l’educazione democratica dei bambini che sfilavano coi genitori in camicia nera e fez.

In verità, viviamo nell’epoca del trasformismo amnesico, della possibilità di “divenire” sempre qualcos’altro, a seconda di ciò che fa comodo, fluttuando tra ciò che si era, poi dimenticato, ma che ha fatto arrivare dove si è arrivati e ciò che si capisce dover essere nel presente: è accaduto al M5S che ha cambiato completamente volto e che, da movimento No vax, No Tav, No scienza, No politica, No progresso, No Ue, No Euro, né di destra né di sinistra, contro l’establishment, la democrazia rappresentativa, si è posizionato, grazie a Conte, ma con una completa giravolta su stesso, a favore dei vaccini, della scienza, di sinistra, progressista e come forza di governo. È successo alla Destra che da MSI, attraverso AN e poi FdI, dopo anni di politica anti-Ue (quanti decenni sono passati da La pacchia è finita? A me pare solo qualche settimana), di sovranismo, di ambiguità nei confronti di movimenti neofascisti, di nazionalismo spinto, ha vissuto un’evoluzione rapidissima, diventando in poco tempo partito di maggioranza.

Un dubbio, però, rimane: o la natura della destra è cambiata del tutto rispetto alle origini o è sempre la stessa. Se fosse vero il primo caso, aver cavalcato ancora per tanto tempo certa ideologia sarebbe stato solo funzionale ad arrivare al potere e, una volta diventati “responsabili”, facile da rinnegare. Nel secondo caso, la moderazione del registro politico sarebbe un opportunistico maquillage, destinato a sciogliersi nel prossimo futuro, rivelando la vecchia destra nazionalista, sovranista, antieuropeista, ammiccante ai no vax e indulgente con i nostalgici. Intanto, i soliti corifei invitano a lasciar lavorare i ministri, a “non disturbare il manovratore”: la speranza, invece, è che si faccia esattamente il contrario e che l’opposizione sia dura almeno quanto quella che proprio Giorgia Meloni ha fatto, e con che foga!, nei confronti degli ultimi governi.



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