Il governo Meloni e la posta in gioco sulla giustizia

Ancora una volta, è su questo terreno che si giocherà nei prossimi mesi la decisiva battaglia di resistenza democratica contro il definitivo trionfare dell’illegalità diffusa e di establishment, fondata sul binomio mafia-corruzione.

Manfredo Gennaro

Gli esordi del governo Meloni ne confermano la preoccupante impostazione para-neofascista, la caratura reazionaria e la sua irriducibilità rispetto alla Costituzione e alla Grundnorm del nostro ordinamento democratico: la Resistenza Antifascista.
È necessario saldare questa constatazione con una riflessione sulla giustizia, tema dirimente su cui, ancora una volta, si giocherà nei prossimi mesi la decisiva battaglia di resistenza democratica contro il definitivo trionfare dell’illegalità diffusa di establishment fondata sul binomio mafia-corruzione divenuto ormai sistema trasversale e contro lo smantellamento delle poche normative efficaci di contrasto in materia e di parte dello stato di diritto – già in fase avanzata grazie all’operato del “governo dei Migliori” – e la realizzazione in versione integrata dal contorno di manganello del progetto piduista di mordacchia irreversibile ad una magistratura e ad un’informazione che si vogliono subordinate e prone all’esecutivo e ai centri di potere che contano, con il conseguente dileguare della lotta contro mafie, sistemi criminali e altri poteri occulti.
La posta in gioco sulla giustizia, ancora una volta, sarà uno dei cardini irrinunciabili di qualsiasi democrazia liberale degna di questo nome, il principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, a tutela di ciascuno e di tutti, a partire dai più deboli, contro ogni potere legibus solutus e ogni concentrazione illecita dello stesso, e lo stato di diritto come presupposto di tutte le altre battaglie politiche e sociali.
Un’analisi seria e ancorata ai fatti non può non partire dal confutare una vulgata. Quella per cui il governo Meloni potrebbe essere un governo potenzialmente di “destra legge e ordine”, in discontinuità rispetto al berlusconismo, in grado di prendere sul serio la lotta alla mafia, e ne avrebbe dato una prima conferma rinviando l’entrata in vigore della “riforma Cartabia” ed intervenendo sull’ergastolo ostativo.
Vediamo. La composizione stessa del governo, indicatore delle politiche che si intendono attuare, oltre ad una compagine ministeriale imbarazzante e votata al conflitto di interessi, la recente nomina di viceministri e sottosegretari ha confermato, una volta di più, che questo è tutt’altro che un governo sgradito a Silvio Berlusconi. Basti ricordare, pars pro toto, la presenza di Francesco Paolo Sisto (viceministro della Giustizia), Vittorio Sgarbi, Claudio Durigon, Matilde Siracusano. La Siracusano, storica esponente di Forza Italia e neo-sottosegretaria ai Rapporti con il Parlamento, durante la scorsa legislatura è stata la prima firmataria alla Camera di una Proposta di Legge (1) che prevede un radicale stravolgimento e depotenziamento delle misure di prevenzione antimafia previste dalla Rognoni-La Torre in tema di sequestri e confische.
Sull’ergastolo ostativo il governo è intervenuto all’interno del famigerato decreto “rave party” che, con un pretesto, di fatto tenta di introdurre limitazioni ad elementari libertà costituzionali, oltre che lanciare un messaggio complessivamente intimidatorio verso tutti quei cittadini e quei movimenti che non si sono ancora rassegnati all’attuale deriva e si preparano alle conseguenti battaglie civili politiche, sociali, sindacali.
Se già è censurabile il ricorso all’istituto del decreto-legge ed il parsiflage di misure diverse all’interno dello stesso provvedimento, entrando nel merito delle nuove norme sull’ergastolo ostativo, si deve constatare come esse siano generiche ed insufficienti, se lo scopo è quello di porre seri vincoli alla concessione dei benefici penitenziari (e quindi alla scarcerazione teoricamente dopo 26 anni di reclusione) ai boss irriducibili che hanno scelto di non collaborare con la giustizia.
Posta l’insuperabilità della giurisprudenza della Corte Costituzionale, si sarebbe potuto quantomeno istituire, come proposto da figure autorevoli, un tribunale di sorveglianza nazionale formato da giudici con specifiche competenze in materia di criminalità organizzata, in teoria dunque meno permeabile a possibili pressioni e intimidazioni, preposto a compiere l’istruttoria e decidere su tutti i casi che fossero rientranti in questa fattispecie. La decisione, che sarà invece di competenza del Tribunale di Sorveglianza in composizione collegiale del luogo dove ha sede l’Istituto di Pena in cui è detenuto il soggetto istante, giungerà al termine di un’istruttoria, con accertamenti e l’acquisizione dei pareri del pubblico ministero del distretto giudiziario dove è stata pronunciata la sentenza di primo grado e della Procura Nazionale Antimafia. Proprio a questo riguardo, il termine di 60 giorni (prorogabile di ulteriori 30) dalla richiesta del Tribunale di Sorveglianza per trasmettere accertamenti e pareri appare obiettivamente troppo breve, a maggior ragione se si tiene conto della complessità delle vicende giudiziarie e dei contesti che riguardano la criminalità organizzata.

Il rischio concreto, niente affatto scongiurato dal decreto, è quello di rimettere ogni decisione alla discrezione dei singoli Tribunali di Sorveglianza, con il possibile formarsi di orientamenti contraddittori tra loro, ed aprire definitivamente la strada al “liberi tutti”.
Anche il rinvio al 30 dicembre dell’entrata in vigore della “riforma Cartabia” – ma, se nomina sunt consequentia rerum, è più opportuno chiamarla Controriforma – non deve trarre in inganno. Entrando in vigore subito, come esposto in una lettera al Ministro della Giustizia Carlo Nordio da 26 procuratori generali (2), la Riforma avrebbe semplicemente creato il caos nei Tribunali, con il rischio perfino di potenziali problemi di ordine pubblico. L’entrata in vigore della Controriforma viene rinviata, ma non c’è nessun segnale che si voglia rimettere mano ai suoi contenuti inaccettabili e devastanti. Anzi.
Alcuni hanno correttamente previsto che questo governo, su diversi temi qualificanti, sarà un governo di continuità rispetto al governo Draghi: se questa previsione è fondata, ciò varrà a maggior ragione per le politiche sulla giustizia.
Una notizia molto importante, infine, rischia di passare sottotraccia. Secondo quanto riportato da Giulia Merlo per il quotidiano “Domani”, sarebbero in corso importanti “manovre di palazzo” per portare Marta Cartabia, il Ministro della Giustizia cui dobbiamo la recente Controriforma, alla vicepresidenza del Csm, con l’avallo del Pd – o di parte di esso – “per non consegnare il Csm alla destra” (3).
C’è da augurarsi che siano indiscrezioni prive di fondamento. Ma anche che, qualora tale ipotesi dovesse malauguratamente rischiare di concretizzarsi, ci sia una netta presa di posizione delle opposizioni parlamentari e della società civile. In questo caso, sarebbe confermata, una volta di più, la vocazione consociativa di questo Pd, che non casualmente è rimasto gelido di fronte ad un discorso esemplare come quello del senatore Roberto Scarpinato durante la discussione al Senato sulla fiducia al governo Meloni.

 

(1) Camera dei Deputati, Proposta di Legge n. 3059 del 26/04/2021: «Modifiche al codice di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, in materia di soggetti destinatari delle misure di prevenzione personali e di disciplina delle misure di prevenzione patrimoniali», visibile al link: https://bit.ly/3UieXNZ

(2) A Nordio la lettera di 26 toghe: “Intervenire sulla Cartabia”, Valeria Pacelli, Il Fatto Quotidiano, 27/10/2022

(3) La mossa disperata del Pd: Cartabia per strappare il Csm alla destra, Giulia Merlo, Domani, 26/10/2022

 

 



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