Graeber, Wengrow e gli umani che fanno la storia

La sintesi storico-teorica di David Graeber e David Wengrow nel loro ultimo libro “The Dawn of Everything: A New History of Humanity” (Allen Lane, 2021) è affascinante ma incompleta.

Matteo Mameli e Lorenzo Del Savio

Kandiaronk è stato un filosofo e politico del Seicento, appartenente al popolo Wendat (chiamati Uroni dagli europei), uno dei popoli indigeni dell’America del Nord. In lingua Wendat, il termine “kandiaronk” fa riferimento al topo muschiato. Kandiaronk ebbe un ruolo in vari conflitti che coinvolsero i francesi, gli inglesi e le popolazioni indigene; ed è possibile che avesse una conoscenza diretta dell’Europa, avendo forse partecipato alla missione diplomatica della Confederazione Wendat alla corte di Luigi XIV nel 1691. Kandiaronk era in ogni caso venuto in contatto con molti aspetti della società europea, di cui fu un critico accanito ed eloquente. Accanto a un attacco alle contraddizioni del cristianesimo, Topo Muschiato prese di mira la mancanza di solidarietà fra gli europei, inorridito dal modo in cui i più deboli venivano abbandonati al loro destino e dalla spietatezza con cui ognuno perseguiva il proprio interesse. Kandiaronk considerava la proprietà privata e il denaro la radice di tutte queste storture e, soprattutto, disprezzava la facilità con cui gli europei si sottomettevano alle autorità: la consuetudine all’essere dominati era del tutto estranea alla società Wendat.

Conosciamo queste critiche grazie ad alcuni testi di Luis-Armand de Lom D’Arce, Baron de Lahontan, un ufficiale francese che conobbe ed ebbe occasione di conversare col pensatore indigeno. Lahontan riporta le opinioni di Kandiaronk – che in questi testi viene chiamato Adario – a proposito delle forme di ingiustizia e della mancanza di libertà nelle società europee. Molti hanno ritenuto che le sofisticate critiche che Lahontan attribuisce all’indigeno siano il frutto dei ragionamenti di Lahontan stesso: come poteva un indigeno aver elaborato una filosofia politica degna dell’attenzione degli intellettuali europei? Alcune recenti ricerche, anche da parte di studiosi appartenenti ai popoli indigeni, hanno messo in luce come questa interpretazione sia figlia di pregiudizi eurocentrici. Non c’è motivo di pensare che eloquenza retorica, capacità critica e immaginazione politica fossero sconosciute ai Wendat, la cui organizzazione sociale era anzi basata molto più di quella europea sulla deliberazione, la ragione pubblica e la persuasione. Piuttosto, si può ribaltare la prospettiva interpretativa e ipotizzare che alcune idee che hanno avuto un ruolo cruciale nella cultura occidentale degli ultimi tre secoli – come la centralità della libertà e di alcuni diritti politici, sociali ed economici – siano dovute all’incontro tra europei e indigeni. Più in particolare, si può pensare che quelle idee siano dovute almeno in parte alle critiche della società europea elaborate da Topo Muschiato e da altri pensatori indigeni, critiche che diedero una scossa al pensiero politico europeo.

Occorre oggi dare un’altra scossa, secondo David Graeber e David Wengrow. Nel loro ultimo libro, The Dawn of Everything: A New History of Humanity, raccontano la storia di Kandiaronk per chiedersi cosa succederebbe alla nostra visione della storia umana se abbandonassimo il pregiudizio secondo cui riflettere razionalmente e creativamente sulle istituzioni sociali è una prerogativa degli occidentali moderni.[i] Cosa succederebbe se pensassimo a tutti gli umani, dai cacciatori-raccoglitori del Paleolitico fino agli indigeni colonizzati e sterminati dagli europei negli ultimi secoli, come a dei sofisticati pensatori politici capaci di immaginazione e azione collettiva? La risposta di Graeber e Wengrow è una dettagliata demolizione di una serie di idee semplicistiche, ma molto diffuse, sulla storia umana. Il libro liquida gli opposti miti della filosofia politica, quello del “buon selvaggio” corrotto dal progresso e quello dello “stato di natura” brutale e incivile. Liquida anche ogni approccio che deterministicamente associ la “complessità” sociale ad un’inevitabile spinta verso le forme di organizzazione politica delle società attuali. Il libro si disfa infine dell’idea che esistano popoli statici. Graeber e Wengrow ipotizzano, per esempio, che la tradizione intellettuale di cui Kandiaronk fece parte si sviluppò per reazione al collasso di precedenti società con tendenze totalitarie. Rivolte, controrivolte, e i loro molteplici impatti socioculturali hanno da sempre e dappertutto segnato le società umane.

Graeber e Wengrow vogliono riportare al centro delle ricerche sulla storia umana – ma anche al centro della riflessione politica, essendo le due cose difficilmente separabili – la creatività sociale, il desiderio di libertà e la capacità di “fare la storia”. Il libro fa riferimento a tre libertà fondamentali: la libertà di andar via (di spostarsi in altri luoghi e in altre collettività), la libertà di non ubbidire agli ordini sgraditi e la libertà di creare nuove relazioni sociali. Per gli autori, queste tre libertà erano centrali, e fieramente difese come tali, in una serie di società che vanno dagli agricoltori delle pianure alluvionali della Mesopotamia neolitica fino appunto ad alcune delle popolazioni indigene nordamericane impegnate nella resistenza anticoloniale. Con un notevole numero di esempi, tratti dalle più recenti ricerche archeologiche e da svariati studi etnografici, il libro identifica tre fenomeni che dimostrerebbero l’ubiquità di queste libertà nella storia umana: la schismogenesi, la stagionalità e la rappresentazione ludica del potere. La schismogenesi si riferisce alla costruzione di relazioni per esplicita opposizione alle forme sociali di un’altra società, di cui si detestano i modi di associarsi. La stagionalità è la compresenza in uno stesso gruppo di forme politiche completamente eterogenee in periodi diversi dell’anno, per esempio forme autoritarie in inverno e antiautoritarie in estate. La rappresentazione ludica del potere consiste invece nel ribaltamento giocoso dei ruoli sociali, come nel caso dei Carnevali e di festività simili, in cui ciò che davvero si rappresenta è il carattere performativo del potere, che esiste solo finché ci si crede, finché lo si continua a generare collettivamente. Secondo Graeber e Wengrow, questi fenomeni ci aiutano a capire perché in molte società sia esistita una consapevolezza diffusa della possibilità di cambiare le proprie forme sociali e di bloccare chi tenta di limitare le tre libertà fondamentali.

Alle tre libertà fondamentali si oppongono tre tipi di potere: la violenza, la conoscenza e il carisma. A questi tre tipi di potere a loro volta corrispondono tre forme di dominio: la sovranità (intesa come monopolio della violenza), la burocrazia (intesa come controllo dei dati, delle informazioni, del sapere) e le competizioni tra leader carismatici (per ottenere il favore delle folle). Graeber e Wengrow argomentano, in uno dei capitoli più convincenti, che è inutile investigare le origini ancestrali dello Stato. Lo Stato è un’entità recente ed è una tesi senza fondamento quella secondo cui a una fase di organizzazione a bande e tribù sarebbe seguita già in tempi remoti un’organizzazione statale che in germe era quella della modernità europea. Ci si deve piuttosto chiedere, secondo gli autori, come in società diverse i tre tipi di potere siano stati declinati e combinati in modi diversi, e come in alcuni contesti si sia riusciti a limitarli. Ci si deve anche chiedere come si sia arrivati alla situazione attuale, una situazione in cui le tre forme di dominio, intrecciandosi in modi spesso malefici e distruttivi, sono diventate onnipresenti. La sovranità degli Stati e le varie burocrazie (nazionali e internazionali, pubbliche e private, incluse le cosiddette “multinazionali”) ricoprono e tengono in pugno ormai l’intero pianeta. Inoltre, i sistemi politici basati sulle elezioni, spesso presi a misura della libertà politica, non sono altro che la versione aggiornata delle sfide agonistiche delle aristocrazie carismatiche, e non una forma di potere collettivo. “How did we get stuck?” si chiedono Graeber e Wengrow, come siamo finiti in questa trappola? E come possiamo uscirne?

Wengrow è un archeologo, mentre Graeber era – fino alla sua prematura scomparsa nel 2020 – un antropologo che all’attività accademica combinava i suoi convincimenti anarchici e dunque l’attivismo politico. Graeber è stato uno dei fondatori del movimento Occupy Wall Street e uno degli ideatori dello slogan We are the 99% (“Siamo il 99%”). The Dawn of Everything è un’indispensabile sistematizzazione teorica di recenti sviluppi in campo antropologico e archeologico, ma è anche un’opera che vuole proporre nuovi modi di pensare l’azione politica. C’è chi ha elogiato il libro, suggerendo che si tratti di un capolavoro imprescindibile per il pensiero di sinistra e più in generale per chi vorrebbe un’umanità più libera e più giusta. Non neghiamo che si tratti di un contributo importante. Le analisi che vi si trovano aiutano a liberarsi da tanti dannosi residui deterministici e teleologici. Detto ciò, sia per quanto riguarda la sintesi teorica sia per quanto concerne l’applicazione pratica, il libro presenta dei limiti che è importante discutere.

Quello che The Dawn of Everything propone è una sorta di volontarismo che lascia pochissimo spazio ai fattori economici, tecnologici, ecologici e biologici. Graeber e Wengrow scrivono che questi fattori non sono necessariamente da escludere, ma insistono che l’obiettivo del libro è quello di concentrarsi sulle possibilità di trasformazione e sul ruolo che i processi collettivi di decisione hanno in relazione a queste possibilità di trasformazione. I due autori citano anche Marx che, come è noto, afferma che “gli umani fanno la loro storia, ma non la fanno a loro piacimento, né in circostanze scelte da loro, ma nelle circostanze che si trovano immediatamente davanti, date e tramandate”.[ii] Quella di Graeber e Wengrow è però una concessione artificiale e posticcia. I due dimostrano, pagina dopo pagina, che non hanno alcuna intenzione di collegarsi a una tradizione di pensiero politico che cerca di coniugare l’idea di un fare sociale collettivo con l’idea che comunque questo fare collettivo avviene su un terreno pieno di ostacoli, alcuni meno facilmente sormontabili o aggirabili di altri.

Poco spazio è dato a ciò che gli autori chiamano “l’intersezione tra ambiente e tecnologia” nelle loro analisi di come funzionavano quelle società che avevano organizzazioni sociali all’apparenza molto più plastiche delle nostre. E lo stesso si può dire delle loro lacunose ipotesi a proposito di come si sia finiti in società dove sovranità, burocrazia e carisma si intrecciano in modi che sembrano difficili da controllare collettivamente. Graeber e Wengrow, per esempio, non dicono alcunché su come le tecnologie e gli impatti ecologici delle forme di dominio possano influire sulle possibilità di trasformazione, o su come alcuni fattori “materiali” possano portare alcune società a distruggerne o ad assorbirne altre. È fondamentale mostrare che non esiste corrispondenza lineare tra fattori “materiali” e strutture politiche; e su questo gli argomenti di Graeber e Wengrow sono efficaci. Ma ciò non vuol dire che la connessione tra questi fattori da una parte e organizzazione sociale dall’altra sia completamente fluida – che è ciò che gli autori, continuamente, tentano di suggerire.

Il libro contiene, tra l’altro, una discussione sul perché sarebbe opportuno fare a meno del concetto di uguaglianza. Si tratta, dicono gli autori, di un concetto ambiguo che crea confusione teorica in quanto può essere utilizzato per riferirsi a cose diverse. Le considerazioni che propongono sono in parte utili e mettono in luce i danni che può effettivamente fare – negli studi storici e antropologici, come anche nell’azione politica – un uso superficiale del concetto di uguaglianza. Epperò la discussione rivela quanto poco interessati siano Graeber e Wengrow alle complesse interconnessioni tra diversi tipi di disuguaglianze, come quelle economiche (non riducibili a una singola metrica), quelle che riguardano l’accesso alle tecnologie, quelle che riguardano l’accesso alle informazioni e agli apparati burocratico-epistemici, e le molte forme di disuguaglianza che pertengono alla sfera politica, in tutti i suoi aspetti formali e informali.

Un altro sintomo del volontarismo di Graeber e Wengrow è il loro disinteresse per l’antropogenesi. I due autori vogliono fornire “una nuova storia dell’umanità”, come recita il sottotitolo del libro, ma non una teoria di come questa storia sia iniziata e delle sue condizioni (anche “materiali”) di possibilità. Gli umani di Graeber e Wengrow appaiono, in un certo punto imprecisato nel Pleistocene, già desiderosi di sperimentare forme politiche multiformi. I due insistono sull’eccezionalità degli umani, esaltandone le capacità cognitive e d’azione rispetto a quelle degli altri viventi, e trattano questa eccezionalità come una sorta di scatola nera all’interno della quale è meglio non guardare. Questo è un errore.

Bisogna indagare i modi in cui sono emerse le forme di libertà e le capacità trasformative che caratterizzano la nostra specie. Se si va sufficientemente indietro nel tempo, si giunge a popolazioni che con ogni probabilità vivevano in gruppi sociali simili a quelli degli scimpanzé, gerarchici e violenti anche se non privi di complesse relazioni affettive e prosociali. È necessario disfarsi del mito hobbesiano della preistoria come lotta di tutti contro tutti, priva di altruismo e di rapporti di cura; e allo stesso tempo bisogna evitare il mito del comunismo primitivo, edenico e senza conflitti, seguito da una caduta a cui non si può porre rimedio. È comunque importante chiedersi come l’evoluzione biologica e i processi culturali si siano intrecciati all’azione politica, facendo emergere sia la possibilità di fare e disfare la propria società sia alcuni degli ostacoli con cui tale possibilità si scontra. Quella di Graeber e Wengrow su questo tema è una visione francamente superata: nelle teorie evoluzionistiche più recenti e sofisticate, c’è ampio spazio per riconoscere, insieme ad altri fattori, il ruolo causale dell’azione collettiva, della creatività politica, del contropotere delle donne, della resistenza dei subordinati, e così via.[iii]

Più in generale, vi è in questo libro un ostinato rifiuto di considerare nei dettagli quelle complesse aree di interazione tra, da una parte, la volontà di cambiare le relazioni sociali e, dall’altra, tutti quegli elementi con cui questa volontà deve confrontarsi e che, in ultima analisi, a questa volontà danno forma e sostanza. Questo non è solo un problema per la sintesi teorica offerta dal libro, una sintesi affascinante ma incompleta. È anche un problema per la traduzione di tale sintesi in azione politica, che è ciò che gli autori si augurano. Siamo sicuri che lo sfrenato ottimismo della volontà di Graeber e Wengrow sia ciò di cui abbiamo bisogno? Siamo sicuri che sia il momento giusto per dirci che “l’intersezione tra ambiente e tecnologia” è meno degna d’attenzione dei desideri di “auto-determinazione”? I cosiddetti “vincoli” devono essere visti come opportunità da chi persegue progetti di liberazione, perché spesso è possibile riadattarli, o anche dissolverli del tutto. Tuttavia, un progetto in cui molti elementi ostruttivi vengono messi ai margini della riflessione politica sembra poco promettente. Bisogna non cadere nel tranello di chi sostiene che è impossibile cambiare la direzione di marcia dell’umanità, che al limite si potranno ottenere piccole insignificanti deviazioni. Ma l’invito ad essere politicamente creativi può facilmente risultare vacuo se non è accompagnato da una mappa del terreno di battaglia. Sapere che gli umani possono “fare la loro storia” è cruciale, ma non basta. Si tratta, al massimo, di un punto di partenza.

NOTE

[i] D. Graber & D. Wengrow, The Dawn of Everything: A New History of Humanity, Allen Lane, 2021. Tradotto in italiano, il titolo potrebbe essere “L’alba di tutto” oppure “Le origini di tutto” e, a seguire, “una nuova storia dell’umanità”.

[ii] K. Marx, Der 18te Brumaire des Louis Bonaparte, 1852, in MEW Bd. 8, p.115.

[iii] Si veda per esempio: C. Boehm, Hierarchy in the Forest: The Evolutionary Origins of Egalitarian Behavior, Harvard University Press, 1999; S. Hardy, Mothers and Others: The Evolutionary Origins of Mutual Understanding, Harvard University Press, 2009; si veda anche quanto riportato e discusso in M. Mameli & L. Del Savio, Darwin, Marx e il mondo globalizzato: evoluzione e produzione sociale, Meltemi, 2018.



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