Il green pass e il principio di uguaglianza

Sotto il profilo giuridico, la condizione dei vaccinati è diversa dalla condizione dei non vaccinati, e come tale può essere ragionevolmente trattata dal legislatore. Qualche osservazione in punta di diritto sul green pass.

Francesco Pallante

A meno di voler credere a un megacomplotto planetario capace di coinvolgere università, professori, laboratori pubblici e privati, ricercatori, medici, autorità preposte alla regolazione dei farmaci (come Ema e Aifa) e – ovviamente – Big Pharma, le evidenze scientifiche a oggi disponibili sui vaccini anti-Covid ci dicono che:

– i vaccinati hanno meno probabilità di contagiarsi rispetto ai non vaccinati;
– se anche si contagiano, risultando positivi al virus, i vaccinati hanno meno probabilità di contagiare altre persone rispetto ai non vaccinati;
– se anche si contagiano, risultando positivi al virus, i vaccinati hanno meno probabilità di ammalarsi rispetto ai non vaccinati;
– se anche si ammalano, i vaccinati hanno meno probabilità di sviluppare la malattia in forma grave rispetto ai non vaccinati, e dunque hanno meno probabilità di dover ricorrere all’ospedalizzazione e alla terapia intensiva rispetto ai non vaccinati;
– se anche si ammalano in forma grave, i vaccinati hanno meno probabilità di morire rispetto ai non vaccinati.

Un’immediata precisazione: ho fatto riferimento ai dati scientifici a oggi disponibili perché – com’è noto – la scienza procede per verifiche e falsificazioni, e la c.d. “verità” scientifica è sempre suscettibile di essere messa in discussione al cospetto di nuove acquisizioni che mutino la base dei dati a partire dai quali è stata elaborata. Dedurne – come fanno alcuni – l’impossibilità di assumere decisioni su base scientifica è, tuttavia, un grave errore: decidere è necessario, se non vogliamo rimetterci a contare i morti a decine di migliaia, e le decisioni vanno assunte dai competenti organi politici, chiamati a esercitare la loro discrezionalità a partire dai dati scientifici a oggi disponibili. Se domani i dati dovessero cambiare, dovranno allora cambiare anche le decisioni, rimanendo pur sempre anch’esse legate a elementi che delineano un quadro di probabilità, non di certezze. Nel frattempo, e tanto più di fronte a una malattia inizialmente sconosciuta e tuttora in evoluzione, si decide – si deve decidere: lo impone l’art. 32 Cost., che tutela la salute individuale e collettiva – sulla base delle acquisizioni scientifiche al momento note.

E quel che al momento è noto è – appunto – che i vaccinati costituiscono, rispetto ai non vaccinati, un pericolo minore per gli altri e un rischio minore per se stessi. Con una rilevante conseguenza: che i vaccinati che contraggono comunque il Covid, provocano un impiego di risorse sanitarie, per curare loro stessi e le persone da loro eventualmente contagiate, incomparabilmente minore rispetto ai non vaccinati (proprio perché, nella stragrande maggioranza dei casi, contraggono la malattia in forma meno grave e sono meno contagiosi). Dunque, non compromettono – o compromettono assai meno – la capacità del Servizio sanitario nazionale di assicurare le cure necessarie a coloro che, per patologie anche diverse dal Covid, hanno esigenza di accedere alle prestazioni sanitarie. Insomma: se, nonostante la pandemia ancora in atto, gli ospedali non sono alla paralisi, pur non essendo la popolazione nuovamente rinchiusa tutta in casa, il merito è dei vaccini.

Non va, inoltre, dimenticata la posizione dei c.d. “fragili”: vale a dire, di coloro che, per ragioni sanitarie medicalmente accertate, non sono in condizione di aderire alla campagna vaccinale o che, pur vaccinati, sviluppano una risposta immunitaria inadeguata. Anche per queste persone il ritorno a una vita il più possibile “normale” è una priorità, ma è una priorità che potrà venire soddisfatta in sicurezza solo dopo che la circolazione del virus sarà circoscritta in modo tale da non costituire più un pericolo anche per loro: cosa che solo la pressoché completa estensione della copertura vaccinale alla popolazione può assicurare. Anche sotto questo ulteriore profilo la posizione dei vaccinati differisce, dunque, da quella dei non vaccinati. Basti un esempio, tra i tanti possibili: per quale ragione si dovrebbe consentire l’accesso alle aule universitarie anche ai non vaccinati, che potrebbero vaccinarsi ma non vogliono farlo, quando ciò comporta la conseguenza di tenere a distanza i fragili, che vorrebbero vaccinarsi ma non possono farlo (o non possono trarre dal vaccino gli effetti auspicati)? Se l’obiettivo è il ritorno di tutti gli studenti in aula, non c’è dubbio che il principale ostacolo sono i non vaccinati.

Quanto sin qui detto consente di inferire, sotto il profilo giuridico, che vaccinati e non vaccinati non sono ascrivibili, quanto all’esposizione al Coronavirus e alle conseguenze che potrebbero derivarne per sé e per gli altri, alla medesima categoria di soggetti. La condizione dei vaccinati è diversa dalla condizione dei non vaccinati, e come tale può essere ragionevolmente trattata dal legislatore. Secondo quanto stabilito dalla Corte costituzionale fin dalla sentenza n. 3 del 1957, il principio di uguaglianza «non va – infatti – inteso nel senso, che il legislatore non possa dettare norme diverse per regolare situazioni che esso ritiene diverse, adeguando così la disciplina giuridica agli svariati aspetti della vita sociale», bensì va inteso nel senso che «lo stesso principio deve assicurare ad ognuno eguaglianza di trattamento, quando eguali siano le condizioni soggettive ed oggettive alle quali le norme giuridiche si riferiscono per la loro applicazione». Con la precisazione che «la valutazione della rilevanza delle diversità di situazioni in cui si trovano i soggetti dei rapporti da regolare non può non essere riservata alla discrezionalità del legislatore, salva l’osservanza dei limiti stabiliti nel primo comma del citato art. 3 Cost.» (più precisamente: sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali).

Ecco perché il green pass non può essere considerato discriminatorio né, conseguentemente, incostituzionale: perché tratta diversamente soggetti tra loro diversi, consentendo a chi è meno pericoloso per sé e per gli altri di svolgere una vita sociale soggetta a limitazioni minori rispetto a quella di chi è più pericoloso.

Il che non significa affatto che il provvedimento non sia, sotto altri profili, criticabile: perché, anche dopo la sua ultima estensione per opera del decreto-legge n. 127 del 2021, lascia scoperte rilevanti situazioni (avvocati, consulenti, testimoni e parti del processo, treni pendolari, trasporto pubblico); perché è rilasciato, sia pure per un breve lasso di tempo, anche ai non vaccinati che si sottopongono a test antigenico rapido o molecolare (anche su campione salivare), nonostante il test sia un indice di assenza di virus assai meno sicuro del vaccino; perché può valere come alibi per “scaricare” sui singoli individui le più rilevanti criticità causate dalla pandemia, esonerando le pubbliche autorità dagli interventi di riforma strutturale a potenziamento della sanità, del sistema d’istruzione, del trasporto pubblico, della cura del territorio e dell’ambiente che la pandemia stessa ha dimostrato essere necessari e ineludibili; perché può valer come alibi anche per le imprese, qualora, di fatto, consenta di “scaricare” sui lavoratori – oltre a tutto ciò che è stato loro “scaricato” addosso in questi anni – i rischi derivanti dalla mancata messa in sicurezza dei luoghi di lavoro. Ma altro è la critica politica, che insiste sulla discrezionalità delle decisioni, altro la critica giuridica, che insiste sui limiti delle stesse.

Particolarmente delicata, per le implicazioni che comporta, risulta la previsione che consente di rilasciare il green pass anche a coloro che, non vaccinati, si sottopongono a test antigenico. Si dice che ciò valga come un escamotage per non trasformare il green pass in obbligo vaccinale, ma la tesi sembra discutibile, atteso che l’assolvimento di un obbligo potrebbe essere oggetto di verifica in qualsiasi situazione – per dire: durante un controllo di polizia effettuato per strada – mentre, anche qualora fosse rilasciato solo ai vaccinati, il green pass, per com’è oggi disciplinato, varrebbe comunque essenzialmente a impedire ai non vaccinati l’accesso a determinati luoghi, pur rilevantissimi per la vita delle persone. E d’altro canto, se la vaccinazione divenisse davvero obbligatoria, non risulterebbero più giustificabili – salvo che per i fragili – previsioni come quelle che consentono, ove possibile, il telelavoro o dispongono che le lezioni universitarie si svolgano, contestualmente, oltre che in presenza, anche a distanza a beneficio di tutti coloro che, per loro scelta, non sono nella posizione di ottenere il green pass. Dunque, anche a prescindere dal fatto che la normativa sul certificato verde è adottata con atto avente forza di legge e che le modalità attraverso cui è somministrato il vaccino non consentono di prendere sul serio coloro che lamentano la violazione dei limiti imposti dal rispetto della persona umana, pare difficile comprendere in base a quali argomentazioni possa essere denunciata la violazione dell’art. 32 Cost.

Lascia poi perplessi la richiesta di rendere gratuiti i tamponi cui, ogni quarantotto ore (test rapido) o settantadue ore (test molecolare), devono sottoporsi coloro che necessitano del certificato verde, ma non accettano di sottoporsi alla vaccinazione. Da un lato, è vero che, nel momento in cui lo Stato lascia aperte due strade – vaccino o tampone – e ne rende una percorribile gratuitamente, lo stesso dovrebbe fare con l’altra (quantomeno, per coloro che, altrimenti, non potrebbero permettersi di sostenerne il costo). Dall’altro lato, tuttavia, è fortemente contraddittorio rivendicare libertà di scelta, in nome dell’autonomia individuale, e pretendere di scaricarne il “costo” sugli altri. Delle due l’una: o ci si svincola dalla collettività o ci si vincola alla collettività. Non si può pretendere svincolarsi per godere dei benefici che ne derivano – in questo caso, sottrarsi al rischio degli effetti collaterali (a breve o a lungo termine che siano) – e, insieme, di vincolarsi per non patirne i costi. Stare con gli altri non comporta solo diritti; per quanto possano non piacere, esistono anche i doveri, come chiaramente statuisce l’art. 2 Cost., che tiene assieme i «diritti inviolabili» e i «doveri inderogabili». Che ognuno si assuma la responsabilità delle proprie decisioni. Tanto più – si può aggiungere – che chi si vaccina un “prezzo”, non economico ma sanitario, lo paga: perché, invece, chi non si vaccina dovrebbe andare esente dalle conseguenze delle sue scelte?

Infine, va considerata la particolare delicatezza della fase attuale. Se è vero che si inizia a intravedere l’obiettivo di una copertura vaccinale realmente capace di arginare al virus, è altresì vero che il conseguimento di questo obiettivo è impedito da incognite, almeno in parte, fuori dal nostro controllo: in particolare, la non vaccinabilità (almeno per il momento) dei minori di dodici anni e il mancato sviluppo di un’adeguata quantità di anticorpi in alcuni vaccinati. Diverso è il caso di coloro che, nonostante le centotrentamila persone già uccise dal Covid, continuano a rifiutare il vaccino per timore, opportunismo, credulità. Su di loro è possibile agire per provare a ulteriormente migliorare la situazione, ed è difficile immaginare che misure meramente persuasive possano, a questo punto, indurli a ricredersi. Ecco perché, nella fase attuale, l’adozione di misure maggiormente incisive – come, peraltro, sta avvenendo anche in altri Paesi (valga l’esempio della Germania, dove, da novembre i lavoratori non vaccinati soggetti a quarantena non riceveranno più i contributi della cassa malattia) – sembra essere ragionevole anche dal punto di vista dei principi costituzionali di adeguatezza e proporzionalità.

Questo significa che dovremo andare a stanare i renitenti casa per casa? No di certo (e, d’altro canto, ciò non avverrebbe nemmeno con l’obbligo vaccinale: non bisogna commettere l’errore di confondere l’obbligo con la coercizione). Molto più semplicemente, significa prendere atto del fatto che c’è ancora una quota di popolazione che potrebbe essere utilmente, per sé e per gli altri, coinvolta nella campagna vaccinale e dare adeguato peso al rischio che, in caso ciò non avvenisse, lo sforzo compiuto in questi terribili mesi dai tanti che si sono vaccinati potrebbe essere per tutti vanificato.

 

(credit foto ANSA/ANGELO CARCONI)



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